Franco Nones, il 68 sugli sci e dintorni

nones1

di Carlo Martinelli

Il 14 febbraio del 2004 muore Marco Pantani. Pochi giorni dopo, nel contesto di una serie di interviste a personaggi dello sport chiamati a dare il loro perché, se esiste un perché, sulla tragica fine del Pirata, ecco, all’altro capo del telefono, Franco Nones. L’uomo cui è caro il mese di febbraio. In febbraio è nato, era il primo giorno del mese, nel 1941, lui era terzo di otto fratelli, nella valle di Fiemme.  Il sei di febbraio del 1968, mise le ali ai piedi e spinse come non mai lungo i trenta chilometri della gara di fondo alle Olimpiadi invernali di Grenoble. Tagliò per primo il traguardo ed entrò nella leggenda. E mentre lo ascolti, decidi: è un uomo concreto. Con delle idee ben piantate, forse della stessa grinta e decisione con le quali piantava le racchette nella neve, nel mentre le leve spingevano verso i suoi sedici titoli italiani o verso quella storica medaglia sessantottina. Quando per la prima volta gli uomini del Nord si arresero. Così quando il Re di Norvegia è venuto in visita in Trentino – è successo per i Mondiali di sci nordico di Fiemme –  alla cena ufficiale c’era una tavola con sette posti ed uno, manco a dirlo, era per Franco Nones.

Allora, quest’uomo concreto deve raccontarci come si esce dai riflettori della celebrità (solo quella, nel suo caso; ché quando divorava le piste sugli sci da fondo la Federazione gli passava 1.500 lire al giorno di “mancato guadagno”) senza subire scossoni devastanti. Come è successo, è ferita recentissima, per Marco Pantani.

Già: cosa ne pensa Franco Nones di questa triste vicenda? Per avere una risposta dobbiamo attendere le ore diciannove, quando scendono le serrande del negozio di articoli sportivi, a Castello di Fiemme. Le parole sono ponderate, misurate, precise. “Certo che seguivo Pantani. Lui era uno capace di coinvolgere anche i non tifosi. Quando se ne andava in salita, ti venivano i brividi. Penso che il suo fosse un destino segnato anni fa. Con un temperamento come il suo non poteva sopportare il peso del sospetto. Lui provava vergogna, ne sono certo, al solo pensiero che qualcuno potesse pensare che le sue vittorie non erano vere. Comunque sia, questa è una storia che ti butta giù. Ed è difficile capire. Adesso tutti chiacchierano, tutti parlano, tutti credono di conoscere la verità. Ed invece chissà cosa c’era nella sua testa”.

Ed allora, la prima medaglia d’oro olimpica del fondo nella storia sportiva invernale italiana, ha una sua idea. Certo che ce l’ha ed è, appunto, assai concreta. “Chi fa sport deve avere il coraggio di tagliare completamente con il mondo dello sport, una volta finita la carriera. Deve fare quello che pensava di fare, deve buttarsi in una nuova dimensione di lavoro, completamente diversa. Le cose fatte a metà non servono a nessuno. Perché la vera vita non è quella dello sport attivo, delle vittorie, della celebrità. Devi apprezzare e non finire mai di ringraziare che la fortuna ti abbia permesso di fare, per alcuni anni, bellissimi, proprio quello che ti piaceva fare. Ma quando comincia quel periodo si sa che quella non può essere la professione della tua vita. Devi sapere che non durerà per tutta la vita”.

E allora, a proposito di concretezza, ecco cosa pensa Franco Nones, uno che ha conosciuto piste gelate, scarpe bagnate fradice, grandi fatiche: “Quando hai avuto gloria e fortuna devi avere il coraggio di smettere due anni prima, piuttosto che due anni dopo. Lo devi fare quando hai ancora grinta e voglia di fare”.

Sottinteso: Franco Nones lo ha fatto. Ma è una scelta davvero saggia? “Lo so bene che lo sport piace, che lo sport è bello. Ma la vita vera è quella con i problemi di tutti i giorni, è avere a che fare con la burocrazia, con le carte. Sulla cresta dell’onda ci resti per un momento della tua vita, è bellissimo ma è per forza di cose un periodo limitato. Allora ringrazia Iddio, ma sii consapevole che deve finire”.

E dunque, la seconda vita del campione, come la si affronta? “Io l’ho fatto credendo in certe cose. Potevo restare nella Guardia di finanza, invece ho scelto di aprire un negozio di articoli sportivi e di puntare sul turismo, sul settore alberghiero. Per me è stata decisiva la famiglia. Ed ogni mattina, quando mi sveglio, mi dico: affrontiamo la giornata nel migliore dei modi. E questo deve valere per chi è bravo e per chi è meno bravo, sempre. Con grande serenità”.

Mette sull’avviso, il campione che a Grenoble piegò il mitico Eero Maentyranta, indomabile finnico. “Molti sportivi, molti campioni commettono un grande errore. Credono che, una volta terminata la carriera, tutte le porte siano comunque loro aperte. Sbagliano. Proprio perché sei stato un campione, la gente da te pretende semmai qualcosa di più. Nella vita, come nello sport, c’è il vincente e c’è chi vince meno o nulla. Ma il carattere, quello, quello rimane. Quello fa la differenza. E l’albo d’oro della mia vita è molto lungo. Ma non è fatto solo dalle medaglie e dai titoli vinti. E’ fatto dalla famiglia, dagli amici, dalle soddisfazioni – e dalle difficoltà – del lavoro”. Poi Nones racconta  “di certi ex campioni, o comunque ex sportivi, che si trascinano da un bar all’altro. Non è questa la vita. Perché sarà pure un modo di dire, ma alla fine io sono convinto davvero che l’ozio è il padre dei vizi”. Non glielo chiedi, perché del pettegolezzo non se ne può più (e comunque lui non te lo direbbe, non a caso è uomo concreto), ma è chiaro che si riferisce a qualcuno in particolare. Poi, aggiunge: “Non sono molti gli atleti, grandi o piccoli, che quando hanno smesso l’attività agonistica sono riusciti ad inserirsi con soddisfazione in un’altra vita, nella seconda vita. Molti rimangono nell’ambiente, in qualche modo. E’ come se non volessero affrontarla la loro seconda vita. Forse perché sanno che quella è ancora più avventurosa ed ostica di quella che vivevano quando le telecamere, le interviste, gli applausi erano tutti per te. Nella vera vita, niente applausi. Spesso te lo fai da solo l’applauso. Ma vuoi mettere la soddisfazione di essere in pace con te stesso?”.

Inevitabile, la domanda finale. Si può avere ancora fiducia nello sport? “Sì. Guai non fosse così. Certo, che troppi siano fuori norma lo sanno tutti. Ma fiducia bisogna averla, sempre”.

Clic. Fine della telefonata. E un salto all’archivio, subito. Per scoprire che era Giorgio Fattori, uno dei più importanti giornalisti italiani del dopoguerra, l’inviato de “La Stampa” alle Olimpiadi invernali di Grenoble, nel 1968. E fu lui a firmare, in prima pagina, il memorabile articolo che raccontò agli italiani – era l’8 febbraio – quel che di incredibile era successo, poche ore prima. Un italiano per la prima volta sul podio più alto dello sci di fondo. “Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, il campione di una gara di fondo non è uno sciatore nordico o sovietico, ma un giovanotto di ventisette anni nato a Castel di Fiemme, provincia di Trento, di professione vice brigadiere di Finanza”. Così Giorgio Fattori – che dieci anni dopo Gianni Agnelli avrebbe voluto proprio alla direzione de “La Stampa” – iniziò quel resoconto.

E aggiunse: “Quella di oggi non è stata solo la più grande giornata nella vita di Franco Nones, medaglia d’oro dei 30 chilometri, ma una data storica per lo sport della neve. Le gare di fondo sono nate nelle pianure del Nord Europa: sugli stretti sentieri nei boschi di betulle, sulle sconfinate distese di falsopiano coperte, molti mesi dell’anno, dalla neve. Il boscaiolo, il postino, il medico condotto in Finlandia, Scandinavia e in alcune regioni di Russia sono tutti fondisti in potenza. Marciare sugli sci fa parte della loro vita, è indispensabile molte volte per il lavoro. Da queste centinaia di migliaia di «maratoneti bianchi» vengono fuori i campioni che nelle gare decisive hanno sempre dominato da lontano. Prima di Franco Nones, nessun centro-europeo alle Olimpiadi era mai andato oltre l’ottavo posto nelle prove di fondo.  Con queste tradizioni e questa scuola alle spalle, non era pensabile che in una gara olimpica uno sciatore alpino riuscisse mai a battere i nordici. Anche a Grenoble, nessuno aveva pensato a Franco Nones. I tecnici sapevano che era in forma, gli specialisti conoscevano i suoi mesi di preparazione in Svezia, i buoni risultati. Ma nel villaggio olimpico di Autrans nessun giornalista straniero aveva disturbato in questi giorni il finanziere Nones per una dichiarazione o una fotografia. Le attenzioni erano tutte per il finlandese Maentyranta, bruno come uno spagnolo e dallo stile leggero: lo chiamano la volpe delle nevi. Alla vigilia della gara era nevicato per un’ora, a Grenoble e a Autrans. Quella sfuriata di maltempo aveva preoccupato i cerimonieri della fiaccola, creato il problema di come fare restare il generale De Gaulle per due ore sotto la neve. Poi il cielo si era schiarito e a Grenoble nessuno ci aveva pensato più. Ma quella neve di Autrans aveva preparato la vittoria di Nones. « La pista rapida e dura — come dice — dove contano più i polmoni che lo stile: la pista che aspettavo». Franco Nones non è molto alto, gli sciatori di gare di fondo assomigliano spesso ai maratoneti. La lunga falcata non conta, ma sapere buttare uno sci avanti all’altro, senza un attimo di respiro. Nones ha il cuore giusto per questa durissima fatica, anche se un medico tanti anni fa lo sconsigliò di continuare il ciclismo (gareggiava fra gli allievi) perché il battito del suo cuore non gli piaceva. Oggi quel medico, in qualche parte del Trentino, leggerà con stupore che l’adolescente, al quale proibì con fermezza qualunque sport, ha battuto i più famosi fondisti del mondo”.

L’uomo che sussurrava agli orsi


orso1

di Carlo Martinelli

Dall’orso di San Romedio ad M2, ucciso a fucilate poche settimane fa in Val di Rabbi, le vicende del Trentino si sono spesso incrociate con quelle del plantigrado, animale di rara bellezza e di sicuro fascino, ancorché perennemente in bilico tra le due possibilità. Richiamo certo per i turisti? Pericolo per la popolazione? Non di questo vogliamo qui dibattere. Qui si vuole raccontare di come, poco più di mezzo secolo fa, due orsetti furono le “star” indiscusse del Trentino. Non solo. Le immagini di Bumsli e Sepha, questi i loro nomi, fecero il giro del mondo. Oggi le possiamo riproporre, grazie a una scoperta editoriale che ha una premessa, altrettanto editoriale. Andiamo con ordine. Prendiamo le pagine di una straordinaria enciclopedia di storie, fatti e personaggi qual è il Dizionario trentino di Mauro Lando edito da Curcu & Genovese. Dal primo corposo volume spunta la voce “Orsi – ripopolamento”.

La rileggiamo.
“La progressiva diminuzione degli orsi nel territorio trentino ha fatto ipotizzare più volte un ripopolamento tramite l’immissione di esemplari provenienti da altre aree e che potessero insediarsi nell’habitat, in particolare del gruppo del Brenta. Dopo quattro tentativi mal riusciti, si è arrivati al ripopolamento tramite il Progetto Life Ursus avviato nel maggio 1999 e concluso nel 2002 con l’immissione di dieci plantigradi.
1959-60 – Bumsli e Sepha. Il primo tentativo di ripopolamento della popolazione di orsi avvenne tra il 1950 e 1960 in Val di Genova a opera del naturalista austriaco Peter Krott che si era trasferito con la famiglia a Cavria di Carisolo in Val Rendena. Nella primavera del 1959 si fece mandare dallo zoo di Praga due cuccioli di orso bruno dei Carpazi, li “battezzò” Bumsli e Sepha e li allevò allo stato di semilibertà nei pressi della sua abitazione. “Studierà gli orsi della Val di Genova tramite due plantigradi dei Carpazi” titolò l’Adige del 25 gennaio 1959 nel dare notizia dell’esperimento. Fu però nell’anno successivo che Peter Krott tentò un’ immissione dei plantigradi nel territorio della Val di Genova. “Lì, tra enormi massi di roccia e un mare di cespugli e di lamponi esistono numerose grotte: una potrà servire a Bumsli e Sepha come rifugio invernale”, così scrisse Peter Krott sul numero 7 della rivista Successo nel 1960. Le cose andarono ben diversamente, i due orsi non furono in grado di affrancarsi dalla “tutela” dell’uomo e vivere liberamente. Per questo nel luglio 1960 Bumsli e Sepha vennero trasportati nella fossa per orsi che l’amministrazione comunale di Trento aveva realizzato a Sardagna, poco distante dalla stazione della funivia e dall’Hotel Panorama”.
Basterebbe questo a scatenare la postuma curiosità. Ma la monumentale enciclopedia ha anche la voce “Orsi in cattività”. Assai corposa. Per gentile concessione dell’autore, citiamo ancora. Perché la storia assume contorni vieppiù coinvolgenti.
“Il recinto di Sardagna – scrive Mauro Lando – fu inaugurato il 10 ottobre 1959 alla presenza del conte Gian Giacomo Gallarati Scotti, priore dell’Ordine di San Romedio. È stata ricavata nella roccia, scrisse l’Alto Adige, “una grande fossa debitamente cintata e murata” nella quale erano stati collocati tre orsi che il circo di Ferdinando Togni aveva donato al Comune. A lungo furono una vera attrazione anche perché un anno dopo gli orsi diventarono addirittura cinque. Era successo che tra il 1959 e 1960 il naturalista austriaco Peter Krott tra Carisolo in Val Rendena e la Valle di Genova aveva allevato in semilibertà due orsi dei Carpazi nel tentativo di lasciarli poi liberi. L’esperimento non riuscì e così Bumsli e la sua compagna Sepha vennero prelevati e portati nella fossa di Sardagna. Successe però che “a meno di 24 ore dall’ingresso nella nuova residenza” (Alto Adige, 29 luglio 1960), Bumsli si era arrampicato sulle pareti della fossa e al mattino si era incamminato verso Sardagna. Proprio sulla strada lo trovò il custode che stava portando ai plantigradi un secchio pieno di latte. L’orso gradì il latte, ma proseguì il suo cammino incurante degli incitamenti del custode a tornare in gabbia. Vennero chiamati i vigili e dopo non poche ore l’orso fu ricondotto presso il recinto e finalmente “l’accalappiacani comunale Lino Nicolussi e il vigile urbano Gino Peterlongo sono riusciti a spingere Bumsli nel punto in cui il salto nella fossa è più facile”. A quel punto con “una spinta ben data” tutto fu risolto. Anzi, no. Il giorno dopo, la notizia è sull’Alto Adige del 31 luglio 1960 a fuggire fu Sepha, la quale da Sardagna scese fino alla Vela senza che nessuno riuscisse a trattenerla. In gran fretta venne fatto arrivare da Carisolo Peter Krott il quale “si è messo in mezzo alla strada e ha lanciato un paio di ululati convenzionali che la orsacchiotta conosceva molto bene. Infatti è uscita alla chetichella da un anfratto e si è avvicinata a Krott”. A quel punto “si è lasciata sospingere in gabbia” e riportata a Sardagna.orso2

A Sardagna la convivenza tra Bumsli e Sepha con gli altri tre orsi era però difficile per cui l’amministrazione comunale pensò di costruire un’altra gabbia nel parco di Gocciadoro. Il trasferimento dei due plantigradi avvenne nel luglio 1962 e l’Alto Adige (18 luglio 1962) commentò che adesso i due “hanno una gabbia tutta per loro, un parco tutto per loro con un pubblico di bambini tutto per loro”. C’è da credere che Bumsli e Sepha non si trovassero male a Gocciadoro e lo dimostra il fatto che (l’Adige, 13, gennaio 1966) nacquero due orsetti”.
Fin qui il racconto minuzioso e circostanziato. Giornalistico. Il curioso vorrebbe saperne di più. Ed ecco la sorpresa. Da quel mare ribollente di storie e possibilità che è Internet spunta – previa ovvia e nemmeno tanto difficile ricerca: basta un clic su Google – quel che non ti aspetti. Non ci furono soltanto decine di articoli di giornale e servizi televisivi sui due orsi introdotti dallo svizzero Krott dalle parti di Carisolo. Di più. Peter Krott ha scritto un libro su quella vicenda a suo modo unica. Di più ancora. Lo ha corredato con 34 fotografie, molte a colori, che costituiscono tutt’oggi un documento di prim’ordine. Raccontano di come, tra la primavera del 1959 e l’estate del 1960, tra i boschi della Val Rendena, al cospetto del Brenta, nel cuore delle Dolomiti, due orsetti condivisero casa, letto e cucina con Peter Krott, sua moglie (mai chiamata per nome nel libro, ndr) e i due figli della coppia, Martin e Max, che avevano allora rispettivamente cinque e quattro anni.
Il curioso è riuscito a procurarsi tanto l’edizione tedesca del libro di Peter Krott (Ich war eine Barenmutter, edizioni Hallwag Verlag, Berna e Stoccarda) che quella inglese dal titolo Bears in the family, edito nel 1963 da Oliver Boyd, Edinburgo e Londra.
In quei due titoli tradotti al volo in italiano (non risulta al curioso che esista una versione italiana di quelle 144 pagine divise in 18 appassionanti capitoli) ci sta proprio quella vicenda. “Io ero la mamma degli orsi” e “gli orsi erano in famiglia”. Questo racconta Peter Krott. Racconta il suo sogno – mutuato da altre esperienze di naturalisti e amici degli animali, in giro per il mondo, dalla Scandinavia agli Stati Uniti – di restituire alla libertà dei boschi e della natura dei plantigradi nati in cattività. Nel Brenta questo esperimento fallì. E nello svolgersi del racconto di Peter Krott c’è la parabola – con inevitabile traccia finale di amarezza e delusione – per quel che non gli riuscì. Andò a prenderli allo zoo Tesin di Praga, i cuccioli. Per mesi furono la gioia della sua famiglia ma subirono anche la curiosità (e poi l’ostracismo, in parte) della popolazione locale. Furono in particolare i danni (e lo spavento) arrecato dai due orsi a un gruppo di operai intenti a lavorare nei boschi della valle a scatenare una sorta di rivolta e a costringere Knott a consegnare gli orsi alle autorità e quindi al recinto di Sardagna. E si stagliano nette le sue parole, al momento della “cattura”. Lui avrebbe preferito ucciderli piuttosto che vederli costretti in pochi metri quadrati.
Ma quella vicenda conserva momenti unici, toccanti. Le immagini di Bumsli e Sepha che giocano, quasi, con la capra di Candido, un contadino del luogo. Le parole di Knott: “Non avrei cambiato quel posto con nessun altro al mondo. Far colazione con due orsi nell’alto delle montagne era la mia idea di paradiso”. E più avanti, amaramente: “Avere a che fare con gli orsi è un gioco da ragazzi rispetto al doversi confrontare con la stupidità umana”.

orso3

E così, tra Bumsli e Sepha che dimostravano di gradire in particolare la polenta e il salame, le pagine sul letargo invernale, il difficile (impossibile?) adattamento dei plantigradi nel consorzio degli umani (la zona di Carisolo in quei mesi fu attrazione turistica di prim’ordine), i giochi con i figli del naturalista, la casa di Cavria diventata a tutti gli effetti la malga degli orsi, il latte dispensato con il biberon, la dolorosa separazione e persino, più tardi, l’intervento per farli tornare nella gabbia dalla quale erano fuggiti, il racconto di Knott diventa una preveggente anticipazione di temi che il Trentino e gli orsi stessi avrebbero ritrovato, cinquant’anni dopo.
Il curioso chiude il libro e saluta Bumsli e Sepha. E rilegge il finale del racconto appassionato del naturalista svizzero. A proposito: chissà se tornò poi in Trentino, chissà che fine ha fatto. Il curioso pensa sia meglio non indagare, quella storia è già grande per com’è stata.

“Cominciammo la discesa verso la valle. Quando vi giungemmo, cominciò a piovere e lentamente il mio paese degli orsi scomparve nella nebbia che saliva”.

Il Carrarmato e il Pirata, la vita davanti e quella per sempre alle spalle

benetti canarinodi Carlo Martinelli

Il 14 febbraio del 2004 muore Marco Pantani. Pochi giorni dopo – per la precisione, il 20 – nel contesto di una serie di interviste a personaggi dello sport chiamati a dare il loro perché, se esiste un perché, sulla tragica parabola del Pirata, capita di sentire, all’altro capo del telefono, Romeo Benetti.
Occhio: se si va su google e si digita il suo nome, il motore di ricerca ti suggerisce anche “Benetti macellaio”. E, certo, in rete trovi anche l’intervista a Franco Liguori, il mediano del Bologna cui Benetti spezza la gamba il 10 gennaio del 1971, di fatto spezzandogli anche la carriera.
Ma, qui, piace riproporre una conversazione tanto pacata quanto intrisa di una sottile malinconia, non disgiunta da una saggezza che è forse figlia di quella indiscutibile rudezza.
Perché per noi, malati di calcio, Benetti sarà sempre la diga insormontabile contro la quale gli inglesi cozzarono invano, nel 1973, a Wembley, quando Fabio Capello uccellò i figli di Albione (non perfidi come un tempo, ma quasi). E quei baffoni e quel sorriso un po’ duro, un po’ da film western (massì, lo avremmo visto bene a fianco di Bud Spencer e Terence Hill) sono rimasti nell’iconografia del calcio italico. E quella foto, qualcuno l’ha scordata quella foto? Il rude Romeo Benetti – classe 1945, esordio a 17 anni nel Bolzano, in serie D: in quel campionato 63-64 giocò 32 volte e segnò 10 reti, trampolino verso una carriera memorabile – se ne sta a rimirare la gabbietta con i canarini.
Romeo Benetti. Centinaia e centinaia di partite in serie A, 55 volte in azzurro. In morte di Marco Pantani, un signore che conosce l’animo degli uomini – dei deboli e dei forti – dice una verità sacrosanta. Vittorino Andreoli: “Pantani era un eroe della bicicletta. Una volta sceso da quel destriero, si è perso, si è smarrito, non ha accettato di essere qualcosa di diverso”.
Ma ci sono stati, e ci sono, campioni che smettono di essere tali, che vedono le luci dei riflettori spegnersi sopra di loro e che, tranquillamente, iniziano un nuovo cammino. Romeo Benetti è uno di questi. Il vocione è quello di sempre, è quello di allora, inconfondibile. Dalla Liguria racconta: “Per fortuna è la stragrande maggioranza degli atleti, in qualsiasi sport, che accetta l’inesorabile legge del tempo. Perché noi, su questa terra, siamo di passaggio, mica siamo eterni”.
Allora, signor Benetti, nessun problema nel giorno in cui ha appeso le scarpe al chiodo? “Macché. Lo sappiamo: per un processo naturale le qualità che ti hanno fatto campione, vengono meno. Certo, ci vuole una preparazione mentale per accettare tutto questo. Però a me è successa una cosa semplicissima: da quando ho smesso di giocare a calcio ho avuto tali e tante attività, che i problemi e le preoccupazioni sono semmai aumentati”.
Allora per il biondo Romeo, par di capire, i riflettori spenti non sono stati un trauma. “No. Certo che no. Mi fa piacere che la gente mi ricordi per quello ho fatto sui campi di gioco. Ma so che il calcio da copertina appartiene a chi ha l’età. E questo vale per tutti gli sport”.
E’ troppo tranquilla, la conversazione con Benetti. Ti dispiace quasi di averlo disturbato. Poi, però, ti regala una immagine folgorante. “Lo sa? Io, a casa, non ho neppure una mia foto appesa. Intendo una foto che mi veda in azione, da calciatore. Mi disturba l’idea di averne. Neppure quando giocavo amavo tenere ritagli di giornale o le immagini delle partite”.
Questa è bella. A uno che ha vinto due scudetti e si è fatto due mondiali, concedereste una parete intera di trionfi e ricordi. Ed invece… “Non mi è mai piaciuto pensare all’ieri. Mi interessa il domani, sempre. Quanto alla vita, quella vera comincia quando si spengono i riflettori”.
Adesso Romeo Benetti istruisce i futuri allenatori. Parla di uomini che devono usare l’intelligenza, che sanno di doversi mettere sul mercato – magari dopo una brillante carriera – avendo la capacità di prevedere l’attività futura in forma diversa rispetto al passato. Inevitabile, il discorso ritorna là dove era iniziato. Marco Pantani. C’è una incrinatura triste nella voce di Benetti. “Le cronache impietose di questi giorni ci parlano di un Pantani che nessuno conosceva. Circondato da ceffi loschi. Sono sorpreso. Il mio ricordo è quello di un campione che pedalava in bicicletta e che era amato dal suo pubblico. Quando ho saputo, ho provato un gran dispiacere”.
Ricordate le gambe del Romeo? Le sue sgroppate lungo il campo? Quel suo pudico parlare? Eppure, Carrarmato, lo chiamavano. Palla lunga e pedalare. Già: ma quando il discorso scivola sul Pirata, grinta e forza lasciano spazio a una compassione tutta speciale. E capisci che se solo potesse, il rude Romeo parlerebbe a Pantani così come parlava ai canarini di quella foto ingiallita dal tempo. Gli direbbe la sua verità di campione che non vuole foto per ricordare, perché la vita è avanti.
Ma di fronte al mistero e al dolore, anche il rude Romeo si inchina. C’è chi sa passare dalle 350 partite in serie A agli allenamenti sui campetti federali, felice di quel che ha. Lieto se qualcuno gli ricorda le partite di un tempo. Ma del Pirata che conquistò pedalando l’Italia e la Francia e che oggi riposa nel triste cimitero degli eroi dello sport, anche il rude Romeo non può che dire la verità di tutti. “Non so. Non capisco. Ho solo una grande tristezza, nel pensare a questa vicenda”. Già. Per Romeo Benetti di Albaredo d’Adige, la vita è avanti. Per Marco Pantani di Cesenatico è dietro, e per sempre.

Patrice e il miraggio all’incontrario

l'Africa di Patricedi Ornella Tommasi

Il giornalista chiede al ragazzo sdraiato sul fondo della barca, quasi trent’anni e all’attivo almeno quattro tentativi di traversata tutti falliti e tutti seguiti da rimpatrio forzato, il perché di tanta ostinazione. Lui sorride e con l’aria più naturale del mondo spiega che “…lo dice la parola stessa, clan-destino, l’emigrazione è il mio destino…”. Mektub, in arabo: quello che sta scritto e non si può cambiare.

A cambiare sono le rotte, che oggi si estendono a Grecia, Turchia, perfino Croazia. Non cambiano i luoghi di provenienza, Maghreb, Corno d’Africa e Africa Subsahariana, solo per considerare il continente più vicino all’Europa Occidentale. Con impennate stagionali, secondo le condizioni del mare, e nuove emergenze come quella siriana.

Oggi è Lampedusa, all’epoca dell’intervista al ragazzo della barca erano Ceuta e Melilla, avamposti spagnoli in territorio marocchino. Ma volti e scenari si somigliano sempre. E a noi sembrano tutti uguali. Anche la storia di Patrice somigliava a quella di migliaia di altri, ma il caso ce l’aveva improvvisamente avvicinata, come il dettaglio di un’immagine che sfugge a una prima occhiata.

Autunno del 2006, foto di gruppo di frontiera. A Ceuta, con le nuove recinzioni di 6 metri sullo sfondo, in fila vicino alla scaletta dell’aereo per il rimpatrio, seduti accosto a un muro o mentre escono dai nascondigli a mani alzate. Sui giornali e nelle immagini televisive si assomigliano tutti, senegalesi, maliani e nigeriani: berretti, finte Nike e sacchetti di plastica sformati. Poi capita che qualcuno esca dalla foto, e per fortuna non sempre nel modo più tragico. A Patrice è successo mentre era ancora nella foresta di Belyounech, vicino alla frontiera di Ceuta, prima degli “assalti”. Erano in quasi duemila accampati nel bush in una sorta di villaggio neolitico, plurietnico e plurireligioso, recinzioni fatte di rami per delimitare la moschea, la chiesa cattolica e il luogo delle assemblee generali.

mappa di Ceuta

Lui viene dal Camerun, ha solo 22 anni e un fisico robusto senza il quale a Belyounech non avrebbe potuto resistere per due anni interi. Ma quando per un’improvvisa emorragia allo stomaco comincia a vomitare sangue i suoi compatrioti si preoccupano e lo convincono a raggiungere la zona del bosco dove si fanno trovare periodicamente i Medici Senza Frontiere. La diagnosi è un’ulcera gastrica, troppe aspirine a stomaco vuoto per curare tutti i tipi di dolori. Al pronto soccorso di Tangeri lo tengono una notte, un paio di flebo e analisi che portano a una diagnosi rassicurante: “Tutto a posto, venite a riprendervelo”, annuncia qualcuno all’équipe di MSF. Ma Patrice non si regge in piedi, i medici ripetono le analisi in un laboratorio privato e risulta una gravissima anemia, subito affrontata a forza di trasfusioni in un altro ospedale. Nel primo hanno evidentemente sostituito il referto con quello di qualcun altro. Un bravo gastroenterologo lo cura con attenzione e in una settimana Patrice è pronto per essere dimesso. Ha riflettuto, non se la sente di continuare nella sua odissea, vuole tornare in Camerun. Ma a Tangeri non ne vogliono sapere, secondo polizia e militari “non è sotto la giurisdizione giusta”. Un commissario di polizia promette di raggiungerlo in ospedale ma poi non si fa vivo. L’unica soluzione sarebbe quella di farsi arrestare, ma allora dev’essere nel posto “giusto”. A Nador, frontiera di Melilla, a 350 km di distanza ma non più a piedi come all’andata, stavolta non ce la farebbe. Così finisce che i Medici Senza Frontiere lo mettono su un pullman di linea, con tanto di regolare biglietto, destinazione la caserma di Nador dove sono detenuti i “rimpatriandi”.

Lui sorride sempre, anche di questo paradosso burocratico che deve suonargli come un beffa, dopo anni passati a cercare di sfuggire alle polizie di mezza Africa. Il pullman parte solo la sera tardi, c’è un pomeriggio intero un intero per raccontare, sfogliare i giornali di queste settimane e riconoscere nelle foto compagni feriti e leggere anche di qualcuno che ci ha lasciato la pelle. “Ogni rivoluzione ha i suoi morti”, commenta. La sua, di rivoluzione, per ora l’ha persa. Alla famiglia ancora non vuole telefonare, “per fargli una sorpresa” ma anche, confessa, per non sentirsi dire che deve restare, tentare ancora, perché in tanti hanno sperato che ce la facesse a migliorare la sua vita e magari ad aiutare un po’ anche la loro. Per questo non si aspetta una grande accoglienza. Quando sarà lì tenterà di fare qualcosa, lui dice “autoimpiegarsi” visto che è fuori discussione che un lavoro glielo possa dare qualcun altro.

villaggio nel Sahel

Eppure aveva cominciato bene, Patrice. A Douala, la capitale economica del Camerun, dopo la maturità ha frequentato per un anno l’Università, facoltà di biochimica. Ma in famiglia ci sono cinque figli, lui è il più grande e quando il padre muore le tasse d’iscrizione diventano insostenibili: l’equivalente di 120 euro all’anno, in un Paese in cui il salario medio sfiora solo i 40. Prova a cercare un lavoro, non viene fuori niente. È a quel punto che si affaccia l’idea dell’Europa: “Per continuare a studiare e avere qualche chance in più…Ma per uscire legalmente ti chiedono un conto in banca esorbitante. Se uno avesse tutti quei soldi a emigrare non ci penserebbe nemmeno. Ho fatto qualche risparmio, ho venduto una radio e un paio di pantaloni e ho preso la strada verso Nord”.

In concreto significa attraversare Nigeria, Niger, Libia e da lì l’Algeria verso il Marocco: mezza Africa, insomma, con in mezzo il deserto del Sahel e il Sahara. Il percorso Patrice ce l’ha stampato nel corpo e nella memoria, ma per indicarlo estrae da un borsellino gonfio di foglietti una fotocopia formato A4 della carta dell’Africa fisica, senza neanche i confini tra Stati, tutta spiegazzata. Le città, Zinder, Marad, Arlit e poi su verso Ghat e Ghadames, sono segnetti sulla carta. “Sì, c’è un momento in cui ti rendi conto che i pochi soldi sono finiti e non sei neanche a metà strada, ma a quel punto non puoi più tornare indietro…Ti fermi da qualche parte quando trovi un po’ di lavoro, metti insieme qualcosa per pagare il prossimo passeur. Impari anche a diffidare degli imbroglioni, in gergo “korsé”, che ti promettono di portarti direttamente in Spagna…è un commercio che comincia già in Niger, con la complicità della polizia, e noi siamo la merce. Arrivano ben vestiti, con belle macchine, ti prospettano due giorni di viaggio ma poi scopri che le distanze sono almeno di sette, ti lasciano nel deserto con le provviste che bastano solo per due giorni, ti dicono di continuare a piedi in una certa direzione ma tu non sai nemmeno dove sei… Ti affidano a una specie di guida, la nostra non ha fatto una piega quando siamo stati assaliti dai banditi che ci hanno fatto spogliare faccia a terra per prenderci tutto…al mio amico Eric hanno spaccato la testa, e nel caso nascondessi qualcosa nel corpo ti fanno ingoiare una mistura di acqua e farina che scatena subito una diarrea terribile, così possono controllare. Partiti loro, la notte stessa è sparita anche la guida. Eravamo una trentina, abbiamo camminato dieci giorni nel deserto bevendo quel po’ di acqua che a volte resta imprigionata tra le rocce. Ogni tanto sul percorso compariva qualcuno a offrirci di comprare cibo e acqua, ma dopo l’attacco dei banditi non avevamo più un soldo”. All’alba dell’undicesimo giorno Patrice e gli altri vedono le luci del primo villaggio libico, un contadino che li sfama a riso e tapioca e poi i primi fratelli neri. Lui riesce a trovare qualche compatriota, ma nel frattempo ha perso l’unghia di un piede e deve fermarsi. Riparte dopo due o tre giorni con un paio di sandali trovati tra i rifiuti e aggiustati con un po’ di fil di ferro e i vestiti che ha lavato nel frattempo, direzione Tripoli. Ma arrivato a Ghat non riesce a proseguire, resta due mesi in ospedale curato da un medico egiziano “molto gentile”.

deserto in MaroccoNel suo racconto Patrice usa spesso questo termine, il “gentil” che in francese ha un significato più ampio della semplice “gentilezza”, ed è come se nella sua storia mancassero proprio i “cattivi”. Da Ghat a Ghadames, Belbes, Ghardaya, Maghnaya e da lì 4 giorni di marcia per Nador, nella foresta di Guruguru, prima tappa in territorio marocchino. Li attraversa proprio tutti, Patrice, i punti caldi della cronaca recente: la frontiera con Melilla prima degli “assalti”, la strada che porta a Ceuta, 21 giorni a piedi sulla carta ma 35 nella realtà, per approdare alla foresta di Belyounech quando c’erano ancora quasi 2000 subsahariani, tra i quali molti del Camerun, tanto che a ricordare quel momento dice che si era sentito finalmente “al sicuro” . Qualche tentativo notturno di attraversare la barriera di Ceuta, regolarmente fallito, e quasi un anno nella foresta, assediata per mesi dalla polizia, per arrivare a oggi, e a questo paradosso che la polizia è lui a doverla andare a cercare, a Nador.

Convalescente dall’ulcera, jeans seminuovi, una camicia celeste a motivi floreali, e la pacata constatazione di aver perso la guerra: “Quando gli Europei chiudono le frontiere è una guerra che fanno contro i neri, e loro sono i più forti. Siamo in tanti che avremmo preferito restarcene a casa con 200 euro al mese piuttosto che partire per venire a guadagnarne 1000 in casa vostra. L’Africa è il continente più ricco del mondo, ma l’Europa deve smetterla di mettere i nostri Paesi l’uno contro l’altro, di sostenere i governi corrotti”.

Il pullman per Nador chiude le porte, il viaggio della speranza all’incontrario è cominciato.

Quando l’Aspirina trasforma un ciclista in scrittore

Francesco Moser in versione scrittore

di Carlo Martinelli

Diciamocelo. Sul fatto che sia stato un campione leggendario, non ci piove. Ed anche la sua traiettoria in politica é cosa nota. Per non dire dei successi imprenditoriali,  una volta lasciata l’attività agonistica: dalle biciclette al vino. Ma quanti sanno che Francesco Moser – ché è di lui, del campione trentino di Palù di Giovo che si parla – è stato, per una volta, anche scrittore? Incredibile, ma vero. C’è un volume a dimostrarlo, è stato pubblicato nel 1990 dalle edizioni L’Ariete. Si intitola I racconti dell’Aspirina,  e nacque per celebrare i primi 90 anni di successo di uno dei farmaci più conosciuti. A volerlo, ci vuole poco a capirlo, la casa produttrice tedesca che di Aspirine ne ha piazzate, nel frattempo, a miliardi. E che al tempo chiese a sedici esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport di parlare appunto dell’Aspirina. Si trovò in buona compagnia, nell’occasione, il Checco mondiale. Perché a formare il sommario di quell’anomala antologia furono nientemeno che Giulio Andreotti, Alessandro Bergonzoni, Livio Berruti, Gianni Brera, Carlo Castellaneta, Silvio Ceccato, Camilla Cederna, Gianfranco Ferré, Mariapia Garavaglia, Jas Gawronski, Roberto Gervaso, Luca Goldoni, Luca di Montezemolo, Giuseppe Pittanò, Vittorio Sgarbi, Enzo Spaltro.  Beh, come compagnia letteraria – per quanto una tantum per non dire una per semper – niente male, ne converrete. Certo, il libro è, per dirla in gergo, una marchetta. Ma ha una sua sostenibilità.

Aggiungiamo che il racconto di Francesco Moser si fa leggere, sicché non appare blasfemo pensare alla revisione di un amico giornalista (potrebbe essere un gioco divertente scoprire chi fu) una volta che il campione fornì le coordinate della sua narrazione. Tra l’altro il racconto, Un cocktail di sospetti,  titolo quanto mai adatto all’ambiente che ha fatto di Moser un idolo, gratificava al meglio il ricco potente committente, vale a dire la Bayer. Leggiamo il finale: “Ricordo che di Coppi si favoleggiava – scrisse Moser versione autore – perché fu il primo ad avere il medico onnipresente. Coppi è stato il primo che ha trasformato l’Italia del pedale, forse è stato l’archetipo per eccellenza dello sport che ha scelto. So per certo che Bartali diventava matto, convinto com’era che il suo più acerrimo rivale avesse, dalla farmacologia, aiuti decisivi, determinanti, tutti illeciti. Coppi, invariabilmente, rispondeva che un’Aspirina non può far male. Riflettendo, non mi riesce di capire come mai, con questi presupposti, la Bayer non si sia mai messa a costruire biciclette”. Diciamocelo: Moser scrittore è sorprendente. E ad ogni buon conto non è di certo l’Aspirina che ha segnato la storia dei sospetti farmacologici in bicicletta. Aveva ragione Coppi, opportunamente citato dal ciclista trentino. Un’Aspirina non può far male.
Anzi: a Francesco Moser ha fatto bene, trasformandolo – il tempo di un racconto di tre pagine – in uno scrittore.

PS: il 6 ottobre 2013 il sito Abebooks – libri usati, libri antichi, libri fuori catalogo – ha due Racconti dell’Aspirina a disposizione. Rispettivamente a Rivoli e Brescia. Rispettivamente 25 e 14 euro. Per la precisione.

A Sonny piaceva il blues

SonnyListon_sportillustrateddi Roberto Mottadelli

St. Louis, Missouri, Novembre 1952.

Fuori gli uomini del quartiere, stretti negli impermeabili scuri e aggrappati alle loro sigarette, mormorano il nome esotico dell’atollo di Bikini, immancabilmente seguito da quello assai più familiare di “Ike”. Ike Eisenhower.

Dentro, in una piccola palestra di periferia, rimbalza tra corde e pareti il sassofono triste di Jimmy Forrest. Cullato dal riff struggente di Night Train, un giovane pugile colpisce il suo sacco. Il ragazzo ha pugni enormi e occhi spenti. Fin troppo facile intuire che non gli importa nulla né del nuovo presidente degli Stati Uniti né dell’esplosione della prima bomba all’idrogeno.

Due uomini osservano compiaciuti i suoi movimenti. Sono Monroe “Muncey” Harrison e Frank Mitchell. Muncey ha un passato importante, è stato lo sparring partner prediletto dell’immenso Joe Louis e l’allenatore di Archie Moore.

In un angolo, con la sua bibbia in mano, sta seduto padre Edward Schlattmann. Accenna un sorriso quando nota lo sguardo soddisfatto di Harrison e Mitchell: sa che, se quei tre uomini si trovano in quella palestra, il merito è suo. E del Signore, ovviamente. Perché è stato Lui a metterlo sulla strada di quel ragazzo nero dai muscoli spaventosi.

Forse, per farli incontrare, il buon Dio avrebbe potuto scegliere percorsi meno accidentati, ma le sue vie sono infinite. E non sta scritto da nessuna parte che un carcere non possa rientrare nel grande disegno divino. Padre Edward è il cappellano della prigione di Jefferson City. Cerca di dare una mano ai poveracci che finiscono dietro le sbarre: ogni tanto ci riesce ed è felice. Questa volta è felice e orgoglioso, perché non era semplice ottenere il rilascio di Charles, offrire un’altra possibilità a un nero analfabeta condannato a cinque anni. Però lui ha saputo intuire le potenzialità pugilistiche di quel ragazzo e lo ha aiutato ad allenarsi, finché non è diventato il campione della prigione; e solo allora ne ha parlato al suo amico Muncey. Che, insieme a Frank Mitchell, direttore di un giornale locale e titolare di una piccola scuderia di pugili, gli ha trovato un lavoro e una stanza in città, requisiti indispensabili per ottenere la scarcerazione.

Mentre lo guarda bersagliare il sacco, il sacerdote pensa al giorno in cui Charles è arrivato nel “suo” carcere. Rivede quello sguardo muto e quelle cicatrici fresche sul volto. Segni che non c’erano, prima che Charles fosse arrestato dalla polizia di St. Louis: per i solerti agenti bianchi addetti agli interrogatori, convincerlo a confessare e a tradire i suoi amici doveva essere stato – come dire? – assai faticoso. Meno complicato era stato arrestarlo: la sua mole non passava inosservata; per giunta, lui aveva compiuto le sue rapine a mano armata e i suoi brutali borseggi da quattro soldi indossando sempre la stessa, riconoscibilissima, camicia gialla.

SonnyListonIl ragazzo conosceva solamente il suo nome, Charles L. Liston, ma non sapeva scriverlo. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva la data e il luogo di nascita dava una risposta differente: non perché volesse mentire, ma perché davvero ignorava dove e quando avesse visto la luce. Ogni volta pronunciava il nome di un diverso paese dell’Arkansas e indicava un giorno a caso, in genere compreso tra il 1928 e il 1932. Secondo lui, nemmeno sua madre Helen ricordava sotto quali stelle fosse nato. Quanto al padre, Tobe Liston, il taciturno Charles non lo nominava quasi mai; nelle rarissime circostanze nelle quali ne parlava, pronunciava la stessa frase: “l’unica cosa che il mio vecchio mi ha dato, sono le botte”.

Charles Liston, o “Sonny”, come lo chiamavano i compagni di galera, è uscito nella notte di Halloween; padre Edward è certo che ora sia in buone mani e che possa provare a giocarsi le sue carte in modo onesto.

Padre Edward si sbaglia. Non sa che Frank Mitchell, l’uomo che ha trovato lavoro a Sonny nella Vitale Cement Contractors, dietro una facciata da irreprensibile paladino della comunità nera nasconde compromettenti amicizie; non sa nemmeno che il signor John Vitale, titolare dell’omonima ditta, è il poco legale rappresentante degli interessi della mafia a St. Louis. Mettendo le mani su Liston, Mitchell ha fatto un grosso affare: con un’unica mossa si è procurato un pugile promettente e un gigante che odia la polizia, abituato a picchiare duro e a non fare troppe domande, perfetto per risolvere gli affari sporchi di John, il capo.

Per Sonny comincia una doppia vita. Da un lato una serie di combattimenti sui ring dei dilettanti, tutti vinti in pochi minuti con impressionante facilità; dall’altro, pestaggi notturni ai danni di chi cerca di opporsi alla cosiddetta organizzazione. Lo stesso sinistro di devastante potenza si abbatte su chiunque abbia la sventura di trovarselo di fronte.

In poco tempo Liston colleziona quattordici arresti, uno dei quali per aver picchiato a sangue un poliziotto, e un’infinità di vittorie per KO, una perfino sul campione olimpico dei pesi massimi Ed Sanders.

Ben presto Mitchell e Vitale decidono di cominciare a trarre profitto anche dall’attività legale di Liston e, dopo meno di un anno di preparazione, lo iscrivono tra i professionisti: il suo primo avversario va al tappeto dopo 33 secondi. I successi a ripetizione suscitano l’attenzione di uno dei capi della mafia di Chicago, Frank Carbo detto il Grigio. Carbo controlla gran parte della boxe americana e trae immensi profitti dalle scommesse sugli incontri e dai guadagni dei pugili che, più o meno legalmente, gestisce; nel loro numero entra anche Liston.

Sonny ListonSul ring Sonny è spaventoso. La sua forza è pari solamente alla sua rabbia. Gli avversari sono letteralmente terrorizzati dal suo sguardo e dalla sua mancanza di scrupoli. “Quello ti fa male quando ti respira addosso. Mi ha colpito come nessun uomo merita di essere colpito” dichiara Marty Marshall, che ha avuto la disgrazia di battere Liston in un match probabilmente truccato e che si è trovato contro la sua furia nell’incontro di rivincita. “Quando gli vengono le sue rabbie, c’è da aver paura solo a guardarlo”, afferma Foneda Cox, sparring partner e amico di Liston.

Fuori dal ring, il pugile trascorre il tempo in compagnia di alcuni degli individui meno raccomandabili di Chicago, con i quali beve, corre in automobile e spesso si trova a trascorrere noiose giornate nelle patrie galere. Violenze, oltraggi e resistenze alle forze dell’ordine, ubriachezza molesta e guida pericolosa sono solo alcuni dei reati che gli vengono contestati.

Liston sa che i soldi che Carbo gli concede sono una minima parte di quelli che il padrino ricava dalle borse e dai contratti televisivi dei suoi combattimenti. Ma non cerca di sottrarsi al controllo del boss; nipote di schiavi e figlio di emarginati sfruttati, sembra non contemplare nemmeno l’idea della libertà. Dà per scontato che ci sia sempre un uomo bianco a impartire ordini e a raccogliere i frutti del sangue e del sudore dell’uomo nero: lo ha imparato da piccolo, quando tagliava cotone nei campi.

Allora ha imparato anche che gli uomini si dividono in due categorie: quelli che vengono picchiati e quelli che picchiano. Sa che, soprattutto per un nero, l’unico modo per non prendere botte è darle, nella vita come sul ring. Per questo Sonny non boxa: combatte. Prima di ogni incontro pensa solamente a distruggere il corpo dell’avversario e lo dice a chiare lettere.

Il pubblico lo detesta. Lo odiano sia i bianchi, per i quali incarna i peggiori stereotipi del nero criminale, sia i neri, che non vogliono essere rappresentati da un analfabeta, per giunta pregiudicato e in stretti rapporti con la mafia.

Liston sarà anche analfabeta, ma capisce con straordinaria lucidità le ragioni dell’ostilità che suscita. Dichiara: “Esistono i buoni e i cattivi. Io sono cattivo. I cattivi dovrebbero perdere. Io rompo la regola: vinco”. La sua storia, la sua stessa persona sono nello stesso tempo un’intollerabile atto d’accusa per i bianchi e una provocazione per i neri alla ricerca di integrazione. Liston è la cattiva coscienza dell’America, l’incarnazione di un passato tanto tragico quanto recente, fatto di schiavismo e brutalità: un passato che tutti gli americani preferirebbero rimuovere.

Floyd Patterson, il detentore della corona dei pesi massimi, è invece amatissimo dal pubblico. Colto, gentile, emblema del nero emancipato, è sostenuto da tutti. Nessuno vuole che perda il titolo: per questo, nonostante le ripetute sfide di Sonny, i suoi manager e la stampa riescono per qualche tempo a evitare lo scontro tra i due. Ma Liston è di gran lunga il più forte tra i pretendenti e non può essere evitato in eterno.

Alì-ListonIl 25 settembre 1962 Liston è in uno spogliatoio del Comiskey Park di Chicago. Il rumore del pubblico copre le note di Night Train: sono passati dieci anni dai tempi della polverosa palestra di Saint Louis, il blues si è evoluto e questa volta non è Jimmy Forrest, ma James Brown l’interprete dell’amata melodia. Nello spogliatoio accanto Floyd Patterson sente la paura montare nello stomaco. Sa che l’altro è più forte, ma non ha idea di quanto sia più forte. Sul ring, al cattivo bastano due minuti e sei secondi per stendere definitivamente il buono. Un anno più tardi, nell’incontro di rivincita, impiega solamente diciassette secondi in più.

Sonny Liston è il nuovo, indiscusso campione del mondo dei pesi massimi. Nessuno può batterlo: lo sostengono tutti gli esperti, a partire da Joe Louis, il più grande peso massimo della storia, e da Art Laurie, il più esperto arbitro di boxe in attività. Eppure il pubblico non si abitua all’idea che Liston sieda sul trono dei massimi. Un pugile con una fedina penale così sporca non può rappresentare gli Stati Uniti; soprattutto, non li può rappresentare un uomo che afferma di vergognarsi di essere americano, come fa Liston quando scopre che una bomba razzista ha ucciso quattro bambine di colore in una chiesa di Birmingham. Dopo l’assassinio di John Kennedy, la nazione ha un disperato bisogno di vedere vincere un bravo ragazzo per recuperare fiducia in se stessa.

Frank Carbo sa fiutare il vento e comprende che Sonny si sta trasformando in un cattivo affare.

Il 25 febbraio 1964 Liston sale sul ring per affrontare il giovane Cassius Clay, uno sfidante il cui talento è pari all’arroganza. Clay pare non avere la minima possibilità di vincere contro quello che lui stesso ha definito “un brutto orso cattivo”; sia il pubblico sia i giornalisti sono convinti che tra i due atleti non ci sia confronto: solo sedicimila persone pagano il biglietto per assistere all’evento.

Liston è nettamente favorito anche per bookmakers: alcuni quotano la sua sconfitta 5,5 a 1, altri addirittura 8 a 1. Ma pochi minuti prima dell’incontro, nello stesso istante, le ricevitorie di diverse città registrano puntate esorbitanti su Clay: la quota di Liston si riduce improvvisamente a 2 a 1. Chi frequenta il pugilato non ha bisogno di spiegazioni per comprendere quello che sta accadendo e per intuire come finirà il match. Gli uomini di Carbo hanno scommesso una fortuna sullo sfidante e lo sfidante vincerà. Carbo non perde mai i suoi soldi.

All’inizio del settimo round Sonny resta fermo al suo angolo e dice all’arbitro di essersi infortunato a un braccio. Liston, l’orso che ha saputo combattere anche con la mascella fratturata, si ritira a causa di un presunto tendine dolorante.

La combine è fin troppo evidente. Viene aperta un’indagine ufficiale che, secondo le migliori tradizioni, non approda ad alcun risultato: il popolo è felice, questo è ciò che conta. Gli Stati Uniti hanno il loro nuovo campione, un giovane, moderno, che sa parlare e cura la sua immagine. Gli Stati Uniti ancora ignorano che quel ragazzo si è convertito all’Islam e che presto si rifiuterà di prestare servizio in Vietnam.

L’inevitabile incontro di rivincita tra Liston e Clay, che ora si fa chiamare Mohammed Ali, crea grossi problemi a chi lo deve organizzare. Nessun grande impianto vuole ospitare la riedizione della farsa di febbraio, nessuno è disposto a pagare il biglietto per vedere uno spettacolo dall’esito scontato. Il match viene organizzato nella piccola città di Lewiston, con la miseria di 2432 spettatori sugli spalti. Il 25 maggio 1965, al terzo pugno scagliato da Ali (un pugno che a giudizio di molti non raggiunge nemmeno il bersaglio), Liston cade goffamente al tappeto. È il più improbabile e plateale dei KO, subito per giunta al primo round.

Pochi giorni dopo la sconfitta, Sonny è seduto in un bar. Chiacchiera con i soliti amici, uomini duri, gente con un passato e un futuro dietro le sbarre. Gente che ripensa a quando, un anno prima, Clay era entrato nel loro locale per fare una delle sue piazzate da pagliaccio. Quel ragazzino se l’era letteralmente fatta sotto quando Sonny si era voltato con il suo sguardo da assassino e la stecca da biliardo in mano. Sonny non aveva avuto bisogno di dire nemmeno una parola, oltre a quel “porta il tuo culo nero fuori di qui” pronunciato a mezza voce.

Sonny Liston

Ora gli amici sono perplessi. Non perché il campione abbia perso contro quel provocatore: conoscono le regole del gioco, sanno bene che, anche volendo, Liston mai potrebbe opporsi agli ordini di Carbo, perché solamente il mafioso di Chicago è in grado di tenerlo fuori dal carcere. Questione di avvocati, conoscenze altolocate e capacità di mettere a tacere i testimoni più scomodi. Piuttosto, sono stupiti dal suo atteggiamento, si aspetterebbero di vederlo più inquieto e rabbioso dopo la perdita del titolo.

Ma Sonny ha una buona ragione per essere così sereno. Poco prima del primo incontro con Clay ha firmato un contratto con i manager dell’avversario. Gli amici non sanno nulla, ma quel contratto gli assegna una ricca percentuale sugli incassi delle prossime sfide del rivale. Liston non ha studiato, però ha capito che gli incontri di un nuovo campione, giovane e amato dalla folla, sono assai più redditizi di quelli di un vecchio orso mal sopportato da tutti. La sconfitta, almeno in teoria, è stata un affare: perdendo, si è posto nelle condizioni di guadagnare più di quanto avrebbe potuto fare conservando il titolo. Liston, forse per la prima volta nella vita, avverte la sensazione di essere un uomo ricco e soprattutto libero.

Ma nessun individuo può sfuggire al suo destino, e le stelle che splendevano sulla nascita di Sonny, in qualsiasi giorno essa sia avvenuta, non sono le stesse che brillano nel cielo degli uomini felici.

Nel 1967, a causa delle posizioni assunte circa la guerra del Vietnam, Mohammed Ali viene privato del titolo ed escluso dal mondo della boxe; per quattro anni non guadagna un dollaro. Liston si ritrova costretto a continuare a soffrire sul ring, ad affrontare di nuovo l’ostilità della stampa e del pubblico. Nonostante le continue vittorie, e nonostante i 72 punti di sutura al volto ai quali, nel giugno 1970, deve ricorrere uno dei suoi avversari (il quotato Chuck Wepner), nessuno gli concede la possibilità di battersi per la riconquista del titolo più prestigioso.

Il 6 gennaio 1971 Sonny Liston è disteso sopra un tavolo di marmo in un ospedale. Accanto a lui c’è il medico legale della Palm Mortuary di Las Vegas. Il coroner sta scrivendo un referto nel quale spiega che Sonny è morto da alcuni giorni per anossia miocardica, probabilmente causata da un’overdose di eroina. Sul suo foglio annota molte altre cose, per esempio che sulla schiena di Sonny ci sono tracce di frustate inflittegli molti anni prima, probabilmente quando era ancora bambino.

Quel foglio e la successiva indagine della polizia raccontano molte cose sulla vita di Liston, ma non spiegano in modo esaustivo né quando né perché il campione sia morto. Per esempio, non dicono come mai un poliziotto abbia dichiarato di aver visto Liston vivo il 30 dicembre 1970, mentre secondo i risultati dell’indagine sarebbe morto il 29. Non chiariscono come solo pochi mesi prima un presunto tossicodipendente sull’orlo dell’overdose abbia potuto distruggere un atleta di razza come Wepner. Soprattutto, non dicono come avrebbe potuto iniettarsi dell’eroina un uomo che aveva un terrore patologico degli aghi, secondo quanto testimoniano tutti gli amici e i medici che in diversi momenti sono stati accanto a Sonny. Liston, infatti, non si sottoponeva ad anestesia nemmeno per le devitalizzazioni dei denti; un medico afferma addirittura di aver rischiato di essere preso a pugni mentre, poco tempo prima, tentava di iniettargli dei farmaci in seguito a un incidente automobilistico.

Curiosamente, nessuno dei detective che indagano sulla morte di Liston osserva che, dopo quattro anni di esilio forzato, proprio in quei giorni Mohammed Alì sta ottenendo la possibilità di tornare sul ring. I suoi manager si apprestano a firmare contratti milionari.

Il 9 gennaio 1971 gli amici di una vita accompagnano la salma di Sonny Liston nel Paradise Memorial Garden di Las Vegas. Qualcuno di loro pensa a quanto Sonny sarebbe felice di sapere che al suo funerale c’è, in lacrime, anche la grande Ella Fitzgerald.

Davanti agli occhi dell’interprete di St. Louis Blues, sulla tomba del campione viene deposta una lapide sulla quale compare solamente la scritta “a man”. Forse è giusto così, che l’ultimo degli schiavi giaccia sotto una pietra anonima.

 

(Per la prima immagine: Sonny Liston to Challenge Floyd – Boxing February 12, 1962 credit: Mark Kauffman – contract; per la seconda: Boxer Sonny Liston winner heavy weight bout, photo by Robert W. Kelley//Time Life Pictures/Getty Images; per la quarta: www.britannica.com)

Di padre in figlio come nelle botteghe medievali: la Ferramenta Orini di via Imbonati

Ferramenta Orini, Milanodi Giorgia Rozza

Una wunderkammer di cinquecentesca memoria, piccola come lo studiolo di un nobile collezionista di bizzarre mirabilia, oppure una bottega che avrebbe fatto la gioia di un dadaista, zeppa di oggetti: alcuni riconoscibili anche a chi non è appassionato di bricolage, altri misteriosi. Parti di rubinetti, caschi da lavoro, pinze di ogni tipo, forbici per il giardinaggio, graffettatrici, crick per cambiare le gomme dell’auto, flessibili, chiodi, rivetti e bulloni sembrano accatastati in apparente disordine e invece al suo interno, un interno che odora di gomma e ferro, si muovono a completo agio Luigi Orini, classe 1942, calvo e accigliato e suo figlio Davide, 38 anni, un viso dolce e pulito sopra il camice blu di ordinanza.

C’è poco spazio per muoversi all’interno della Ferramenta Orini, perché di gente che compra ce n’è eccome e fa la fila nell’ingresso con il pavimento di marmo scuro disegnato a grosse losanghe e mai  sostituito dagli anni Quaranta. I clienti sembrano tanti perché lo spazio è ridotto, in realtà sono solo tre alla volta ma il flusso è contino. Anche se è facile immaginare che non spendano molto per quelle poche ferraglie che acquistano, impacchettate con cura in fogli di carta pesante da Luigi e Davide e poi chiuse con lo scotch, il lavoro non manca. Sono venticinque metri quadrati di negozio ma, tolto il bancone e gli altri mobili, non ci si muove quasi. Poi c’è l’ancor più piccolo retrobottega dove si fa fatica a entrare perché interamente occupato da sporgenti mensole sulle quali fanno bella vista di sé centinaia di scatolette di cartone impolverato di varie misure che contengono, mi dice Luigi, soprattutto bulloni.

Ferramenta Orini, Milano

Un’atmosfera d’antan quella che si respira dagli Orini che fa il curioso e singolare paio con quella dell’adiacente Posteria Bertelli ininterrottamente aperta dal 1939 sulla via Imbonati dove sono rimasti quasi solo questi due negozi italiani, guarda caso entrambi con una lunga storia familiare alle spalle. La ferramenta è un po’ più giovane: f,u aperta nel 1945, quando le bombe alleate smisero di fischiare sui cieli di Milano e la gente era in festa per la fine della guerra. “Non ho iniziato io questa attività” – dice Luigi mentre continua a lavorare senza guardarmi – “Io sono ferramenta perché lo erano i miei che, a loro volta, presero in mano l’attività dei miei nonni Anna e Felice che aprirono negli anni Venti un grande punto vendita in zona Porta Nuova. Allora, ovviamente, il negozio riforniva le aziende più che i privati. E lo facevo anche io in questa piccola bottega  fino agli anni Ottanta. Poi è arrivata l’era dei  grandi centri commerciali e le officine, le fabbriche e gli artigiani non si sono fatti più vedere qui.  A noi, da almeno vent’anni, è rimasta solo la vendita al dettaglio, al cliente privato”.

Ferramenta Orini, Milano

Ed è proprio verso la fine degli anni Ottanta che Davide, allora quindicenne, entra nel negozio di famiglia per imparare il mestiere. Non è solo l’aspetto della bottega che ha qualcosa di antico ma anche questo naturale passaggio del testimone da una generazione all’altra nella gestione della piccola azienda di famiglia. Una scelta in controtendenza quella di Davide la cui fede d’oro luccicante al dito contrasta un po’ con il  suo viso dai lineamenti infantili. La maggioranza degli adolescenti della sua generazione  non avrebbe fatto la sua scelta. Era la fine del decennio dell’apparenza e dell’euforia economica, dell’edonismo e del culto del divertimento. Anche del lavoro certo. Ma non del lavoro di ferramenta. I più avevano altro per la testa che chiudersi in una piccola bottega con papà per portare avanti quel mestiere che non offriva certo prospettive entusiasmanti. E quello era proprio il decennio dell’entusiasmo.  Era facile, per chi veniva da una famiglia minimamente abbiente fare le superiori e poi iscriversi in massa a quella facoltà così in voga in quel momento, quella che se non la facevi sembrava non volessi assicurarti un futuro prestigioso a livello professionale, personale ed economico: economia e commercio, i cui riti accademici si svolgevano nel capoluogo lombardo nei due “templi” della Bocconi e dell’Università Cattolica. “Ma io non avevo nessuna voglia di studiare” – dice Davide ridacchiando. Forse proprio questo l’ha salvato dal mito di cartapesta della finanza, di cui stiamo pagando il conto salatissimo tutti noi per lo meno da un quinquennio o forse più. Quando Davide era adolescente, tutti si immaginavano donne e uomini d’affari, o meglio, come si diceva allora, “in carriera” a fare interminabili riunioni e a girare con la ventiquattro ore il mondo salendo e scendendo dagli aerei per fare non si sa bene cosa. Lo facevano anche nei film culto del decennio come Wall Street, pellicola del 1987 interpretata da Michael Douglas, volto-icona  hollywoodiano del periodo.
Niente sogni di gloria per Davide  ma un tranquillo apprendistato nella bottega  paterna e qui le lancette del tempo sembrano andare ancora più a ritroso e riportarci nel mondo medievale delle gilde artigiane dove al padre succedeva automaticamente il figlio. Figlio che tuttora non ha una mail e lo dice sorridendo mentre  il padre, con gli occhi fissi su un aggeggio del quale non comprendo l’utilizzo, afferma orgoglioso che lui non ha nemmeno il cellulare.

Ferramenta Orini, MilanoPrima di andarmene cerco di sgusciare nel retro, scansando le tre persone che occupano interamente lo spazio della bottega. In fondo lì dò un po’ fastidio. Lì non si chiacchiera, si lavora. Un’ultima occhiata alla parete più interna del negozio e scorgo quella che potrebbe essere un’installazione artistica, questa volta contemporanea: una serie di piccoli cassettini di legno dalla perfetta geometria, laccati di vernice verde acqua con tante manigliette in ottone.  Mentre fotografo mi giunge la voce di Luigi: “Quella cassettiera  non è degli anni Quaranta ma degli anni Venti,  l’abbiamo recuperata dal vecchio negozio di Porta Nuova”. Non so se sia stata ridipinta, so solo che è tenuta perfettamente ed è bella, tinta di quel fresco colore, oltre a essere misteriosa perché evidentemente ogni cassettino contiene della ferraglia di tipo diverso da quella contenuta in quello attiguo.

Chissà come fanno Luigi e Davide a metterci le mani con competenza. Segreti del mestiere che solo loro conoscono. Per sapere se li conosceranno anche i figli di  Davide è troppo presto. Anche se la  storia aziendale incarnata nei muri di questa bottega sembra voler tornare indietro nel tempo, siamo giunti sul crinale della fine del potere mondiale dell’Occidente e immaginare il futuro, anche quello più immediato, è solo una chimera.

Randagi

di Giorgia Rozza

Questa è la storia di Antonio. Ma è anche la storia di Marco e di otto cani di tutti e di nessuno, otto cani nati per caso sulla strada, destinati a ingrossare le fila dei randagi del Sud, venuti al mondo solo per macinare chilometri di asfalto, prati gonfi di zecche sui quali pascolano ancora le pecore, e sì, ci sono ancora i pastori come nei presepi.

Antonio e i suoi tre cani

Cani nati senza che nessuno lo chiedesse per masticare nelle discariche quei rifiuti che mantengono ancora un vago ricordo dei cibo che contenevano o addormentarsi senza forze su un marciapiede a prendere la loro unica benedizione: il sole.

Li chiamano randagi: sono quelli che passano la loro breve e scomoda vita schivati dai passanti (ma a volte si può cambiare una consonante senza tema di sbagliarsi e scrivere “schifati”) a difendere il loro pezzo di niente. Il destino non è stato gentile con loro. Come non è stato gentile con Antonio. Anche lui non ha niente e ormai difende solo se stesso, che in realtà proprio niente non è.

Antonio quanti anni abbia nessuno lo sa. Forse lo sanno quelli dei servizi sociali che hanno visto il suo documento d’identità, sempre ammesso che ce l’abbia. Già, perché anni fa l’avevano individuato come potenziale soggetto beneficiario del loro lavoro visto che nella vita di Antonio di “sociale” non c’è proprio nulla e loro sono lì per reinserirti in questa benedetta società.

Antonio si è anche fatto ricoverare per qualche giorno ma poi è scappato e non si è più fatto prendere. La gente che lo vede tutte le mattine, seduto sempre sullo stesso marciapiede di un quartiere periferico sul mare, dice che ha una cinquantina d’anni, ma è solo un’ipotesi. Quelle rughe che gli solcano il viso come gravine essiccate sono state incise dalla strada, dal sole e dal vino cattivo, quello che costa poco e che fa male, quello nei tetrapack di plastica che fa linguacce sguaiate e provocatorie al vino buono, Doc e persino Docg, il vino degli intenditori, degli enologi e dei sommelier, delle degustazioni mondane, dei viaggi stampa per i giornalisti, delle grandi fiere e del business, ora perfino con la Cina. Tanto per guadagnare si fa di tutto, compreso permettere che il proprio gioiello enologico a casa propria severamente abbinato soltanto con risotto al Castelmagno, salvia di campo e burro valdostano accompagni i wanton. La Cina è il futuro, lo dicono tutti. Quale e soprattutto come sia questo futuro, però, nessuno lo sa.

Antonio beve il vino “di plastica” e anche per questo è un “emarginato”, come direbbero i giornali. Ma ancora non ha gettato la spugna. Non si è accasciato a terra senza più voglia di vedere un’altra alba e di sentire il vento frizzante che l’accompagna; sta invece lì seduto, fermo per ore sullo stesso marciapiede, con le scarpe da ginnastica rotte.

Eppure, anche se tutti lo schivano (o “schifano”, è uguale), anche se l’unico amico che aveva è morto in ospedale dopo che qualche brava persona di cui i servizi sociali non si occupano gli ha dato fuoco mentre dormiva su una panchina, anche se dopo questo lutto Antonio non parla più con nessuno e scappa come una bestia braccata se gli si avvicina qualcuno che non conosce, qualche cosa di buono Antonio nella vita ce l’ha. Qualche cosa che, quasi quasi, se non fosse una bestemmia per molti, si potrebbe definire “sociale”. Antonio ha, o meglio aveva, la compagnia di otto cani. Ora sono rimasti in tre. Randagi come lui.

randagi

Cani che non si è scelto, che non è andato a microchippare, che non sono suoi, che non ha conquistato con il cibo. Sono i cani che hanno scelto lui. Cani che lo vogliono nel loro branco. E lo seguono ovunque. Anche quando il sole cala, il canto dei grilli si sostituisce a quello delle cicale in estate, il cielo si fa arancio e Antonio si addentra tra gli ulivi e i campi di grano e va “a casa”, un posto che nessuno ha mai visto. Un posto dove riposa i suoi

pensieri e le sue ossa stanche su un rozzo materasso ma che è solo per lui e i cani.

Otto cani non potevano stare con lui, in mezzo alla strada. La società ha regole diverse da quelle del branco. E allora è intervenuto Marco insieme alle forze dell’ordine. “Forza” e “ordine”…. Parole così lontane dalla vicenda esistenziale di Antonio il randagio. All’inizio Antonio odiava Marco perché lo vedeva con i militari in divisa e perché anche lui gli voleva togliere i cani. Poi, piano piano, ha capito chi è Marco.

Marco non è un randagio ma ai randagi sta dedicando la sua vita. Con forza, passione, instancabile energia, cuore e cervello in una sintonia che non “stecca” mai, come in una jam session venuta bene. E Antonio è un randagio. Marco l’ha convinto senza nessuna presunzione, con dolcezza e fermezza, che non poteva stare in strada con otto cani, tra i quali cinque femmine, che avrebbero sfornato decine di cuccioli. Marco gli ha chiesto di poterle portare in canile per la sterilizzazione e poi gli ha detto che gliele avrebbe riportate: “Promesso”.

E così è stato perché Marco è un uomo di parola e porta i suoi 44 anni con la solida sicurezza di essere nel pieno della vita, una vita che sa di spendere bene anche quando è stanco morto e gli sembra di n

on farcela più. Anche quando le donne gli dicono “O me o i cani”. Poi, però, la gente si è lamentata: i cani di “quello lì” (che non sono suoi in verità) corrono dietro le biciclette, spaventano i bambini e chi fa jogging il mattino presto. E allora Marco è tornato a parlare con Antonio e si sono accordati. Tre glieli avrebbe lasciati. E così è stato veramente e definitivamente.

Ma prima che si accordassero Antonio ha piegato il viso in una smorfia strana, spianando le labbra e stringendo gli occhi che sono diventati due fessure di mare. E Marco credeva che ridesse. E invece piangeva. Piangeva perché gli stavano togliendo i cani.

Ero in auto con Marco quando abbiamo visto Antonio. Io vengo dal Nord dove di cani in strada non se ne vedono perché quelli indesiderati li chiudiamo per pudore e “civiltà” dietro le sbarre di carceri dure che spesso non assicurano nemmeno il vitto e trasformano creature viventi in ergastolani emaciati e ululanti armati solo di occhi infiniti per penetrarti l’anima.

randagi

Marco mi ha indicato Antonio, ha fermato l’auto e siamo scesi. Marco sorrideva, gli ha stretto la mano e gliel’ho stretta anche io. Ho notato le sue unghie lunghe come artigli, quasi fossero un’arma di difesa primordiale per proteggersi dalla gente, quel tipo di gente che ha ammazzato il suo amico. Anche Antonio sorrideva. Aveva con sé i tre cani del suo branco, quelli che la società ha consentito che vivessero insieme a lui.

Due piccoletti dall’aria fiera ci hanno guardato seri e vigili mentre ci avvicinavamo. Ci hanno lasciato fare ma vegliavano su Antonio come due leoni stilofori sul portale di una cattedrale romanica. Non so come sia possibile ma sono due cani bellissimi, ben curati, nutriti, con il pelo pulito, lo sguardo fiero. Uno grosso, un po’ più distante, si crogiolava nel sonno completamente rilasciato a terra.

Marco ha detto ad Antonio che era contento che ora fossero amici. Antonio ha annuito sorridendo ma non ha detto nulla. Marco gli ha allungato cinque euro, l’ho fatto anche io. Antonio era felice e stupito, ha sorriso e r

ingraziato. Marco l’ha salutato e gli ha ricordato di raccogliere e buttare nel cestino il tetrapack di plastica dal quale scendeva ancora un rivolo violaceo. Quel liquido di cui Antonio non può più fare a meno, quello a cui il “cattivo maestro” Baudelaire, come lo si definirebbe oggi in epoca di “politically correct” dedicò i versi: “Ubriacatevi. Di vizi o di virtù ma ubriacatevi”.

Poi ce ne siamo andati verso l’auto, verso il canile, il lavoro, i mille problemi da risolvere, verso la vita “sociale”. Ma prima di salire in auto mi sono girata un attimo e ho voluto dare un ultimo accorato sguardo a quel silenzioso quartetto. Nessuno si era mosso. Ma la Terra sì e non li inondava più di luce ma li aveva velati di una riposante ombra.

Un ultimo assaggio del “me Milan”: la Posteria Bertelli

eldaierieoggidi Giorgia Rozza

Nella multietnica via Imbonati, la “posteria” Bertelli resiste. Dal 1938.

Classe 1939, Elda Bertelli non ha molto tempo da perdere in chiacchiere. Riccioli canuti ben tenuti e un pulitissimo grembiule ceruleo, deve preparare i panini per i dipendenti delle vicine aziende Mondialpol e Zàini, industria cioccolatiera in attività dal 1913. Elda, però, non è la proprietaria di un bar, come si potrebbe arguire. Gestisce il negozio di alimentari Eredi Bertelli snc in via Imbonati al civico 45 aperto da suo papà Paolo nel 1938 e continuamente in attività dall’inaugurazione.

Il negozio resiste in quella via Imbonati che, negli ultimi dieci anni ha visto chiudere, uno dopo l’altro, falciati dall’inesorabile decadenza del Vecchio Continente, quasi tutti i punti vendita italiani. Resiste in mezzo ai negozi di kebab e di pizze egiziane “all’aroma di cartone” consegnate al volo a domicilio in motorino, resiste tra le “cineserie” che mostrano dietro le vetrine oggetti in vendita a pochi euro e tra i negozi di telefonia dove chi è venuto qui può sentire la voce di chi è rimasto a Casablanca, al Cairo o a Bucarest.

L’alimentari Bertelli è un piccolo gioiello della Milano che fu, un luogo mitico per i nostalgici delle atmosfere cantate dal tristemente appena scomparso

elda2 Enzo Jannacci e da Ornella Vanoni, di quel “me Milan”, rigorosamente di genere maschile, che sembra proprio destinato a scomparire come una spettrale falce di luna in cielo quando viene giorno.

«Fino al 2000 la nostra insegna portava il nome di “posteria”, perché questo siamo. Poi abbiamo dovuto rifare le vetrine, che rischiavano di crollare, e abbiamo tolto quel nome che in pochi ormai conoscono sostituendolo con la scritta “salumeria” su una luce e “alimentari” sull’altra. E anche gli eleganti infissi in ferro battuto Liberty se ne sono andati per far posto ai nuovi materiali isolanti, meno belli ma più funzionali».

Già, Bertelli è proprio una posteria anche se non ne porta più il nome, come quelle dei paesini di montagna, dove dalla porta aperta entra aria fredda e pulita che si mischia al profumo del prosciutto e all’odore delle scatole di cartone appena aperte. Forse è rimasto l’unico negozio a Milano che vende un po’ di tutto: dagli alimentari ai detersivi, senz’altro è l’unico gestito dalla stessa famiglia dalla fondazione.elda1

L’aria che entra dalla porta qui non è certo pulita: è densa e fuligginosa, avvelenata dal traffico che si spintona lento verso Piazza Maciachini o verso Affori ma, per il resto, gli odori e i prodotti della posteria ci sono tutti. Mentre Elda affetta i salumi per farcire i panini vedo spuntare un’altra nota felicemente anacronistica: su uno dei due banconi campeggia un cestino di metallo traforato ricolmo di uova sfuse che sembrano appena tolte dal pollaio, in barba ai rigidi dettami del prodotto che deve portare la data di scadenza. E anche la disposizione dello scatolame sugli scaffali è rigorosamente piramidale come imponeva la moda della vetrinistica degli anni Settanta.

Ma gli inizi di questa posteria quali sono? «Mio papà Paolo Bertelli nacque a Gessate e aprì qui il negozio nel 1938. Era bellissimo, tutti dicevano che assomigliava all’attore Amedeo Nazzari» racconta Elda mentre le si illuminano gli occhi. «Iniziò l’attività insieme a sua moglie, mia madre Giuseppina Morson, friulana, quando aveva 24 anni. Non vendeva solo alimentari pronti ma faceva anche il pane nel forno a legna. L’anno dopo nacqui io. Poco dopo, dovette dire addio alla famiglia, o meglio arrivederci, e partì per la guerra come soldato semplice. Fu deportato in Germania dopo l’Armistizio e tornò a casa quando io avevo sei anni” ricorda ancora Elda che non smette di lavorare mentre parla, incarnando il più comune degli stereotipi sui milanesi.

eldaoggiE continua: «Mia madre tenne aperta l’attività per tutto il periodo dell’assenza di mio padre, sotto le bombe, senza sfollare. Rimase in città con me e mio fratello abitando nell’appartamento sopra il negozio, che è ancora di famiglia. Per fare il pane, negli anni della guerra,  andava a comprare la farina in bicicletta in un mulino a La Chiarella, rischiando ogni volta la vita. È morta solo un anno fa, anzianissima e felice, mentre mio padre è scomparso giovane, a soli 47 anni». Con Elda lavorano il figlio Paolo e la cognata Raffaella. Dice Paolo con un po’ di rammarico: «Una decina di anni fa sono arrivati i cinesi e ci hanno chiesto se volevamo vendere. Mia nonna Giuseppina ha detto di no. Ma non è facile resistere sul mercato, i guadagni sono risicati, siamo un piccolo negozio, non possiamo competere con le catene della grande distribuzione. Ma tiriamo avanti». Infatti, per il momento, di clienti ce ne sono. Anziani, che si sentono a loro agio, certo, ma anche giovani signore che alternano la spesa al supermercato a quella fatta qui, forse, chissà, per risentire l’atmosfera di quei pomeriggi lontani, a fare la spesa con una nonna che non c’è più.

 

Il ‘Pret de Ratanà”

 

di Alessandro Milani

 

Giuseppe Gervasini nacque nel 1867, per l’esattezza il primo di marzo, a Sant’Ambrogio Olona, un paesino in provincia di Varese.

Fin da piccolo visse a Milano, dove giunse al seguito dei genitori, che facevano gli osti in città. Rimasto orfano, visse con uno zio che lo fece studiare. Fin dai tempi della scuola il piccolo Giuseppe si appassionò alla botanica, alla medicina, insomma alle scienze, con una passione curiosa che coltivò anche durante il servizio militare.

Soltanto dopo il periodo trascorso nelle fila dell’esercito Giuseppe decise di consacrarsi al sacerdozio.

Le notizie delle sue gesta cominciano proprio da quando il nostro ragazzotto di provincia diventa Don Giuseppe; infatti inizia a correre veloce per tutta la città (e non solo) la fama di un prete che guarisce le persone, specialmente i poveri che possono rivolgersi a lui in quanto non chiede alcun compenso per il suo operato.

Tra le tante leggende metropolitane sorte sul conto di Don Gervasini ce n’è una che lo vuole ‘nemico dei ricchi’; in realtà amici benestanti (si parla addirittura di membri di famiglia Pirelli) ne aveva; noi riteniamo che il fatto di guarire anche le persone meno abbienti, che in quegli anni (tra il 1920 e l’inizio della guerra) non avevano altro modo per farsi medicare, abbia spinto a vedere in lui un benefattore dei poveri a discapito dei più ricchi.

La sua fama di guaritore (e si narra anche di veggente e ‘stregone’) e forse anche certi suoi modi bruschi (che riservava in modo particolare alle donne) lo resero però presto inviso a certa parte del clero milanese che lo ‘confinò’ dapprima nel paesino di Retenate (da cui presumibilmente prese il soprannome di Pret de Ratanà – che lui non amava- anche se la questione del nome è controversa) e poi lo sospese a divinis. Ma don Gervasini non uscì mai completamente dalla Chiesa Cattolica, continuò a dire messa privatamente anche quando gli era stato inibito di farlo in pubblico e venne infine reintegrato a tutti gli effetti, forse grazie all’intercessione diretta del Cardinal Ildefonso Schuster (del quale si narra fosse uno dei beneficati del prete).

La tomba del pret de Ratanà

Il ‘pret de Ratanà’ viveva quasi con nulla, indossava un saio molto liso (spesso con le maniche rimboccate) e offriva tutto quanto riceveva ai più poveri (si dice che facesse sfornare a sue spese tutti i giorni grandi quantità di pane che poi lasciava a disposizione dei bisognosi in una cesta davanti all’uscio della sua casa) ma, a conferma del fatto che anche tra i ricchi aveva degli estimatori, abitava in una villetta nei pressi della cascina Linterno (nel quartiere milanese di Baggio), donatagli appunto da un ricco beneficato.

Qui, nell’ampio orto retrostante l’abitazione, il sacerdote si dedicava ai suoi studi preferiti, cioè quelli relativi alle erbe e al loro possibile impiego medico; studi per nulla teorici e molto immediati.

Grazie ai suoi ritrovati molte persone guarirono, ovviamente da mali leggeri. Il prete, che venne investito poi da un alone di fascino e mistero legati a suoi possibili miracoli, era in realtà un omeopata all’avanguardia, in un periodo dove la chimica non si era ancora sposata con la medicina dando vita alla farmacologia moderna.

In questo senso, grazie alle sue intuizioni e al suo spirito democratico che lo portava a vivere come i poveri e al fianco dei poveri, la sua figura è davvero da venerare come un esempio di benefattore della cittadinanza di Milano.

Molti, al momento della sua morte, avvenuta il 22 novembre 1941, vollero ringraziarlo facendone scolpire un busto a grandezza naturale da porre sulla sua tomba, al Cimitero Monumentale.

E ancor oggi, a 60 anni dalla sua scomparsa, la sua tomba è meta continua di pellegrinaggi di beneficati e di devoti che ne chiedono l’intercessione, ricoprendone la lapide (che porta incisa la frase: ‘la fiumana dei tuoi beneficati così ti ricorda e ti ricorderà sempre’) di fiori, lumini ed ex voto.

Per questo motivo anni fa la sua tomba, inizialmente posta all’inizio del cimitero, è stata traslata in fondo, per l’esattezza al campo XX, di modo che i suoi numerosissimi visitatori non intralcino i parenti delle persone delle tombe adiacenti. E, credenti o non credenti, vedere questo piccolo tempio ricoperto di fiori in mezzo a tanti sepolcri scarni e monumentali, provoca una certa emozione.

 

Articolo già pubblicato sul sito “Muvi – Museo Virtuale della memoria collettiva di una regione”.