In viaggio con Nanda. Da Milano a Merano con la Pivano, cronaca di una giornata

24 aprile 2002, Fernanda Pivano a Merano con Carlo MartinelliNel 2002 la Biblioteca Civica di Merano, nell’ambito della rassegna Meranopoesia, riuscì a invitare Fernanda Pivano per un incontro con il pubblico. All’epoca aveva già 85 anni e la condizione che pose fu: andare a prenderla con un autista a Milano e riaccompagnarla la sera stessa al termine dell’incontro. Per uno di quegli scherzi che il destino a volte gioca e per la contemporanea indisponibilità di altre tre persone, fu Umberto Massarini, oggi direttore della Biblioteca Civica di Merano, a recarsi a Milano, a casa sua. Il viaggio sarebbe dovuto durare tre ore scarse ma, per un altro scherzo della sorte, ne durò invece sei, dando così la possibilità a Umberto Massarini di vivere un incontro e un’esperienza che ancora conserva nel ricordo. Il giorno dopo volle fissare sulla carta quell’incontro e scrisse di getto una fedele cronaca di quel viaggio; nessuno l’ha mai letta, lo scopo era unicamente quello di mantenere vivo in lui il ricordo di un momento bello e importante della sua vita. Ora che Fernanda Pivano non c’è più ha deciso di pubblicare quella cronaca, nella speranza che un personaggio che ha recitato un ruolo fondamentale nella storia della cultura del nostro Paese non venga, come purtroppo spesso accade, presto dimenticato. Ecco il racconto affidato – e gliene siamo grati – a Raccontare storie. 

di Umberto Massarini

Ho appuntamento con Fernanda Pivano alle 15.30 a casa sua a Milano. L’incontro con il pubblico, alla Biblioteca Civica di Merano è fissato per le 20.00, ma noi arriviamo a Milano già alle 15.00; provo a telefonarle per sentire se è già pronta e disponibile a seguirmi…Al telefono mi risponde lei personalmente:
– Mi dispiace, ma io fino alle 15.30 non posso riceverla; devo parlare con la mia dattilografa, poi non ci vedremo per diversi giorni, quindi… –
Le dico che non ci sono problemi; l’aspetterò in macchina fino alle 15.30. Mi risponde:
-Ma, no ! È brutto che lei stia giù in macchina ad aspettare ! Salga su, però fino alle 15.30 lei non mi deve parlare, faccia conto che io non ci sia. Poi alle tre e mezza, come d’accordo, partiamo. –
Sul campanello c’è scritto semplicemente PIVANO. Suono. Salgo al primo piano, vengo ricevuto dalla sua governante ed entro, non senza curiosità, nell’appartamento di questo totem vivente della storia della letteratura. L’appartamento di Fernanda Pivano è di circa 100 mq. non piccolo, anche se rispetto al precedente di via Manzoni, di circa 800, lo può sembrare. Il fatto è che l’appartamento è incredibilmente stipato di scatoloni stracolmi di libri e fotografie che stanno dappertutto e formano all’interno della casa dei veri e propri corridoi. Dietro una parete di scatole intravedo la sua dattilografa che scrive al computer mentre telefona e al mio passaggio mi saluta con un cenno del capo. Vengo fatto accomodare in un piccolo salottino dove mi siedo sui famosi divani definiti scomodissimi da Beppe Severgnini (ed effettivamente lo sono) ma che rappresentano un prodotto di design degli anni Cinquanta disegnati da Ettore Sottsass, il celebre architetto ex marito della Pivano. Aspetto. Mi guardo intorno; la stanza, come il resto dell’appartamento che ho potuto vedere, è occupata da armadi a muro alti fino al soffitto, numerati e con delle etichette che indicano “libri”, “foto” “articoli” ecc.
Anche qui è pieno di scatoloni accatastati, come per un trasloco recente o imminente, ognuno dei quali riporta una scritta che sta a indicarne il contenuto. C’è un disordine infernale, ma divertente e fantasioso. Su un tavolino stanno accatastate, una sopra l’altra, due vecchie macchine da scrivere elettriche, alcune valigie e una nuovissima stampante laser. Nella stanza c’è anche un grande televisore e sotto un videoregistratore; vicino al davanzale della finestra, che si affaccia sul retro della Galleria d’Arte Moderna, un impianto stereo. Sui tasti dei comandi di tutte le apparecchiature sono state incollate delle etichette con riportate, a caratteri più grandi, le indicazione del funzionamento. Sul coperchio di una scatola vicino a me leggo “Fernanda Pivano e Fabrizio De André – Roma 1971 – Ingrandimenti”. Appoggiata su di un tavolino una bellissima fotografia di una giovane Fernanda Pivano mentre annusa a occhi chiusi e con espressione intensa un grande fiore bianco. Una bottiglia di whisky per gli ospiti e una di Coca-Cola per lei. Alla parete di fronte a me un grande quadro di forma quadrata è coperto da un drappo di tessuto leggero nero, al centro del quale c’è disegnata una spirale verde attraversata da una scritta e da una firma che non riesco a decifrare, ma che immagino debba appartenere a qualche famoso artista.
Dalla stanza adiacente sento improvvisamente giungere la voce della Pivano che chiacchiera con la sua segretaria-dattilografa. Dopo qualche minuto mi raggiunge nello studio presentandomi la sua collaboratrice, che ho intravisto entrando e che scopro si chiama Isabella. Fernanda Pivano ha un viso luminoso, due occhi vivacissimi e attenti e un sorriso molto dolce. Mi dice – Allora andiamo ?, pensa – dice rivolta a Isabella – vado fino a Merano con questo bel bibliotecario!-
Scendiamo in ascensore e la Pivano mi dice subito : – Ci diamo del tu o pensi che sono troppo vecchia?- Le dico che, sinceramente, sono un po’ in imbarazzo, che mi sembrerebbe poco rispettoso. Mi risponde – Hai ragione !-
Saliamo in macchina e subito inizia a raccontarmi che la sera prima è tornata tardissimo in automobile da Roma.
– Oggi non sono tanto in forma, sai? Ieri sono stata a Roma all’inaugurazione di questo Auditorium gigantesco che ha progettato Renzo Piano. Renzo è una persona meravigliosa, per me è il personaggio più importante che abbiamo in Italia, è genovese come me, io sono molto orgogliosa di noi genovesi, siamo una piccola “mafia” non pericolosa di persone un po’ speciali. Lo sai che Renzo ha dovuto prendere la cittadinanza francese? Pensa, lui voleva adottare un bambino americano, ma la legge qui non glielo permetteva, perché, non so bene, ci sono troppi anni di differenza tra lui e il bambino, e allora lo hanno praticamente costretto a cambiare cittadinanza. Pensa che razza di personaggio ci siamo persi! Beh, ti dicevo sono tornata in macchina da Roma e stavo seduta dietro, solo che avevo poco posto per le gambe, perché davanti c’era seduta una signorina, sai una di quelle che hanno bisogno di tanto posto…insomma mi è venuta una borsite e hanno dovuto portarmi al Pronto Soccorso. Lì sembrava addirittura che volessero operarmi il piede, invece alla fine mi hanno fatto una puntura antidolorifica e me ne sono andata; poi sono stata in un posto strano, sai mi avevano invitato, una specie di pub buddista, beh alla fine sono arrivata a casa alle quattro; le mie giornate sono sempre così… –
Poi passa a parlarmi della sua biblioteca di oltre 40.000 libri, articoli di giornale recensioni fotografie, che nel suo testamento aveva chiesto che venisse bruciata, dopo essere stata rifiutata dal sindaco di Milano, da quello di Roma, dalla Biblioteca Sormani di Milano e da quella Vaticana con la motivazione che occupava troppo spazio.
– Poi un giorno mi ha invitato a colazione Luciano Benetton, e io ho pensato: Ecco adesso mi regala i golfini! Invece lui non ha quasi mai parlato per tutto il pranzo, ho pensato beh, forse mi chiederà un autografo, e solo alla fine mi ha chiesto se volevo che si occupasse dei miei libri. Per me stata un’emozione fortissima. Mi ha lasciato quasi senza parole. Così è nata la Biblioteca Pivano nella Fondazione Benetton. Solo che all’inizio mi hanno dato una stanza con una ragazza che ci lavorava due ore al giorno. Adesso occupa già otto stanze e ci lavorano sei persone! È che io i libri non posso ancora darglieli tutti; mi servono per i miei articoli, le recensioni di lettura. Allora ogni tanto telefono e gli dico: – Mi serve questo libro o quest’altro – e loro sono tanto carini e me lo fanno arrivare subito –

Nel frattempo il nostro autista cerca, a fatica, di districarsi nel traffico, ma per uscire da Milano impieghiamo quasi un’ora. Appena entrati in tangenziale ci rendiamo conto che la situazione è piuttosto seria e venirne fuori sarà un problema: il traffico è intensissimo e alimentato sia dalla gente che esce dal lavoro, sia da quelli che stanno partendo per il lungo ponte del 25 aprile/1 maggio; procediamo praticamente a passo d’uomo su tre corsie affiancate e comincia a fare anche un bel caldo.
La Pivano però è in forma e chiacchiera volentieri. Mi racconta del Festivaletteratura di Mantova al quale partecipa quasi ogni anno.24 aprile 2002, Merano, biblioteca civic a: Umberto Massarini legge un testo di Fernanda Pivano – Due anni fa Severgnini mi ha fatto un po’ un brutto scherzo (ricordo l’episodio, ero tra il pubblico) dovevamo presentare insieme lui il suo libro e io il mio. Lui è molto carino, è un uomo molto intelligente e spiritoso, ha questo humour inglese, soprattutto quando parla, quando scrive…beh, solo che praticamente non mi ha fatto parlare, io rispondevo a monosillabi SI, NO e i ragazzi tra il pubblico protestavano, fai parlare Nanda! Poi la sera dovevamo andare a una cena che avevano organizzato per una scrittrice di bestsellers….la…pensa, quella scrive dei bestsellers e io non mi ricordo neanche come si chiama! Quella è una che quando parla dice di quelle cretinate..Beh, siamo arrivati e quando Beppe ha visto com’era la situazione ha detto che improvvisamente si è ricordato di avere un impegno ed è scappato via. Solo che così a me è toccato restare!

Poi mi parla del film sulla sua vita che il regista Luca Facchini ha da poco finito di realizzare e che è stato presentato nei giorni scorsi a Roma. Le chiedo se il film le è piaciuto.
– No…Insomma, nel film ci sono io com’ero una volta e come sono ora. Sai, non me ne frega mica niente di essere invecchiata, mi dispiace di avere l’aspetto che ho adesso…anche se a me mi hanno rovinata i chirurghi…Però mi piace perché ha dato un’immagine giusta del mio rapporto con i giovani..i giovani mi vogliono tanto bene e a me piacciono tantissimo. Quando lì vedo lì seduti davanti che mi ascoltano e mi guardano con questi faccini, gridano Nanda Nanda!… Tanti vengono a chiedermi: Nanda, dicci che cosa dobbiamo fare? Ma non è mica una risposta facile, tanti anni fa sapevo cosa dirgli, ma adesso….e loro hanno bisogno di riferimenti, hanno bisogno di un leader, ma io non posso mica mettermi a fare il leader a 85 anni! Sai, Luca, il regista, ha messo una bella cosa alla fine, ci sono io che rivolta ai giovani dico: E adesso andate, figli di puttana, che il mondo è tutto vostro! E poi si vede una marea di giovani che corrono.. è bella no? –

Procediamo lentissimi; il traffico è sempre più intenso e il caldo aumenta. Il climatizzatore della nostra auto non riesce a farci arrivare aria fresca e aprire i finestrini significa respirare aria calda e velenosa. Armando, il nostro autista, ogni tanto cambia corsia per cercare di procedere più speditamente, ma non c’è verso. Da una vettura della Polizia che procede in senso inverso ci comunicano, a gesti, che più avanti c’e stato un incidente, pare ci sia anche un morto. Io sto sudando sia per il caldo che si fa via via più pesante, sia perché comincio a pensare che se la situazione traffico non migliora in tempi brevi, rischiamo di arrivare a Merano con un ritardo pauroso. Telefono alla Biblioteca dove siamo attesi e spiego la situazione anche se non sono in grado di fare previsioni sul nostro arrivo.
La Pivano riceve qualche telefonata di lavoro e di amici; parla con tutti con estrema cortesia, pacatezza inframmezzando al discorso battute di spirito e commenti salaci. Ho la netta sensazione che tutti quelli che la chiamano si rivolgano a lei con grande rispetto e tenerezza.
Considerando la situazione in cui ci troviamo le chiedo se è proprio sicura di non volersi fermare a dormire a Merano e ripartire il giorno dopo, invece di affrontare subito un faticoso viaggio di ritorno (anche perché penso, ma non le dico, che se va avanti così la serata inizierà e finirà con un ritardo pazzesco e quindi prima delle due non ripartirà). Mi risponde:
-No assolutamente, lo vedi quante cose ho da fare ? poi non riesco più a dormire fuori casa, faccio fatica. Sai, a dirti la verità io ho fatto di tutto per non venire da voi a Merano, siete così lontani! Ma voi avete tanto insistito…–
Non ci si muove. Comincio a essere teso e soprattutto preoccupato dalla possibilità che la Pivano, già affaticata dalla giornata precedente, decida di non voler più proseguire e chieda di essere riportata a Milano. Cosa potrei fare in quel caso? Fortunatamente riesce a riposare, anche se di tanto si sveglia lamentandosi per il caldo. Arriviamo a Bergamo alle 19.00 passate; il traffico ora si è parzialmente smaltito e si riesce a viaggiare a una buona velocità anche se, a questo punto, possiamo scordarci di arrivare a Merano per le 20.00. Ritelefono in Biblioteca e, cautamente, dico di cominciare ad avvisare il pubblico che prima delle 21.00 non saremo a Merano. La Pivano è molto dispiaciuta per il ritardo:
-Vedi, la puntualità è una cosa molto importante per quelli della mia generazione; io cerco sempre di non arrivare mai in ritardo agli appuntamenti. Mi rincresce veramente per tutti quei poverini che sono lì che aspettano…–
Cerco di tranquillizzarla dicendole che a Merano c’è molta attesa per il suo arrivo e quindi penso che buona parte del pubblico si fermerà comunque, nonostante il ritardo con cui arriveremo. Mi chiede quanta gente penso che ci sarà. Sparo 200, 250 persone (in realtà sono quasi sicuro che, anche per via del ritardo, ce ne saranno parecchie di meno). Sembra quasi delusa. Poi mi chiede come abbiamo pensato di impostare la serata e, senza attendere la mia risposta, mi fa: – Sai io ho pensato che, io potrei leggere una delle mie traduzioni di Spoon River, poi…., c’è qualcuno su da voi che legge bene in inglese? –
Rispondo che non credo proprio e allora prosegue: – Beh, allora io leggo una delle mie traduzioni e tu…, mi hanno detto che tu leggi no?, tu potresti leggere una delle traduzioni di De André (che lei chiama affettuosamente Fabrizio) e poi facciamo ascoltare una delle canzoni di Fabrizio che sono sempre tante belle. Ce li avete i dischi di Fabrizio in Biblioteca no ? –
Mi riattacco al cellulare e chiedo ai miei colleghi di recuperare, in qualsiasi modo, il Cd di De André con le canzoni di Spoon River.

de andré non al denaro...La Pivano continua a chiacchierare a ruota libera, mi racconta di come il mondo dell’editoria l’abbia sempre trattata piuttosto male, perché lei non è mai stata allineata.
– Lo sai cosa mi ha fatto recentemente la Mondadori? Ha tolto le mie prefazioni da tutte le mie traduzioni! Hanno detto che erano troppo vecchie e che le hanno sostituite con altre “più educative”. Vorrei sapere che cosa vuol dire! Pensa che io sono stata tre volte in prigione per tradurre quei libri ! Fino ad allora la letteratura americana che veniva tradotta era soltanto quella che rappresentava un’America allo sfascio, in ginocchio, tormentata dalla povertà e dalla disoccupazione. Faceva comodo così. Se non era per me quell’altra America non l’avrebbero nemmeno conosciuta. E io sono stata in galera, tre volte! Sai che Antonio Ricci, il regista, adesso ha un processo, l’hanno condannato a quattro mesi di carcere, e lui mi ha detto che ci vuole andare! Gli ho detto: guarda che in prigione ci sono i topi e le cimici!… Io ho fatto guadagnare tanti soldi agli editori, e loro non mi hanno mai dato una lira. Pensa che ad Arnoldo Mondadori gliel’ho detto io di pubblicare Kerouac. Loro avevano comprato i diritti di On the road e lo tenevano lì fermo pur di non darlo alla concorrenza, come fanno alle volte. Allora una sera eravamo a una festa a Roma e io gli ho detto che loro avevano un libro che gli avrebbe potuto far guadagnare un sacco di soldi. Lui mi ha chiesto come mai i suoi collaboratori non se ne erano accorti e io gli ho risposto che ogni tanto erano un po’ distratti, allora lui mi ha domandato: Com’è che si chiama? e ha tirato fuori dalla giacca un notes piccolino, di quelli da cento lire. Si è annotato il nome solo che ha scritto Keruac senza la o e così quando il libro è stato pubblicato è uscito come Keruac, nessuno aveva avuto il coraggio di correggerlo!
Parla ancora di letteratura, di scrittori, di libri, personaggi. Le chiedo di Fabrizio De André; mi risponde:
– È stato un rapporto meraviglioso, perché abbiamo fatto il disco insieme, capisci? –
Su di lui però non aggiunge altro e capisco che non vuole dirmi altro; si tratta evidentemente di una cosa troppo personale e, penso, ancora molto dolorosa da ricordare. Vorrei chiederle di Hemingway che è stato un mio mito quando ero un po’ più giovane, ma mi vergogno un po’ di farle una domanda così banale, che altri le avranno fatto centinaia di volte. Le chiedo allora di Spoon River, anche se pure questa non è granché originale, e mi racconta che gliel’aveva passato Pavese e lei se ne era subito innamorata traducendolo inizialmente solo per sé. Le chiedo ancora di Jay McInerney che so che stima molto e infatti mi dice:
– È il più bravo, ha una cultura e una preparazione incredibili e un grande fascino. Ah, lo sai che mi hanno dato un premio?, pensa un premio intitolato alla scienza, letteratura e pace. Ah, mi ha fatto così piacere, la pace, a me…lo sai no che il mio saluto è sempre pace e amore?
Il nostro viaggio continua. Armando ora fa di tutto per mantenere un’andatura veloce e contemporaneamente sicura. Comincia a fare buio e appaiono le prime montagne.
– Eh, che scure queste montagne! Devono essere piene di orchi!
Ride. Poi si intristisce un po’:
– È quasi finita un’altra giornata …sai, ogni giornata che passa mi dà una grande malinconia, non so mica quante altre me ne restano…E poi sono sola, non ho più nessuno… mia mamma e mia sorella sono sepolte a Genova, mio padre invece a Torino. Ci vado poco a trovarli, eh, siamo sempre così ingrati nei confronti dei nostri genitori….Tu come sei messo, sei sposato?
Rispondo che convivo da diversi anni. Mi chiede se abbiamo figli, rispondo di no.
– Sei un saggio – mi dice.
Le dico che sono rimasto sorpreso del fatto che il suo nome compaia normalmente sull’elenco del telefono e le chiedo se il fatto di essere così facilmente rintracciabile non le crei, a volte, dei problemi.
– Me li crea sì, però trovo che sia estremamente incivile nascondersi e farsi negare. Come quelli che spesso cerchi al cellulare e ti rispondono che non sono raggiungibili, ma cosa vuol dire? Io quando mi rispondono così poi non li chiamo più!
Ci fermiamo, veramente un’istante, per fare benzina, la signora Pivano mi chiede, per piacere, di andarle a prendere una Coca-Cola (“la mia droga!”).
Ripartiamo. Avviso per l’ennesima volta la biblioteca che siamo in arrivo e che dovremmo essere a Merano intorno alle 21.30. Mi informano che in biblioteca sta succedendo una cosa sorprendente e insolita: il pubblico non se ne è andato, sta aspettando; due ragazzi, recuperati casualmente, stanno suonando la chitarra intrattenendo il pubblico mentre Carlo Martinelli, il giornalista che fungerà da interlocutore dell’incontro, sta parlando da un’ora a ruota libera della Pivano, e la gente sta rievocando gli anni della beat generation e i loro ricordi di gioventù. Si è creato un evento in attesa dell’evento, non era mai successo. Non era nemmeno mai successo che in biblioteca una serata iniziasse nell’orario in cui normalmente finisce.
La signora Pivano continua a essere affascinata dalle nostre montagne e dai castelli che illuminati e bellissimi brillano a mezza costa rompendo il buio della notte. Mi dice: – Ieri sera ti ho detto che sono stata in quel pub un po’ strano, un po’ esotico?…beh lì ho conosciuto uno che è stato per molti anni nei mari del Sud e lui mi ha consigliato una pianta, per fare degli impacchi al mio piede, che si chiama aloe; lo sai che nei mari del Sud tutte le parole hanno due vocali, una vicina all’altra? È una cosa sentirli parlare che uno perde la testa per come sono belli!, a parte che sono la gente più bella del mondo, incredibili! E allora insomma mi sono segnata il nome di questa pianta per fare gli impacchi, solo che chi è che ha il tempo di farsi gli impacchi..? Hai capito come sono le mie giornate? E sono tutte così sai? Non è che ogni tanto c’è n’è una diversa, sono tutte così. Insomma alla fine sono arrivata a casa alle quattro, ho cominciato a guardar un po’ di posta…
– Ma ha dormito? –
– Ho dormito un paio d’ore –
– sempre così poco? –
– Non ho tempo… poi cominciano a telefonarmi …C’è un povero malato che mi telefona quasi tutte le mattine per dirmi che c’è l’ha bello duro! Tutti i giorni, ma da mesi! Una volta però mi ha chiesto anche di Pavese, dev’essere un maniaco sessuale particolarmente acculturato! Il mio problema è che mi telefona molto presto alla mattina. Un sacco di gente mi telefona alla mattina e io la mattina ho tante cose da fare, devo lavorare con la dattilografa. Io glielo dico di non chiamare ma loro si dimenticano; preferirei che mi chiamassero il sabato o la domenica che sono sempre sola….Mi telefonano queste ragazze e mi dicono: sa, ma noi siamo in ufficio solo la mattina; queste cretine! Io non sono mai stata femminista sai? Detesto le donne! A me piace che gli uomini mi portino la borsa, mi aprano le porte…Che poi è colpa mia se ci sono state le femministe; noi, quando dico noi parlo dei miei amici americani, abbiamo fatto la liberazione della donna, degli omosessuali, dei neri, delle religioni. Solo che poi dalla liberazione della donna sono venute fuori queste stronze delle femministe che ci hanno fatto odiare dagli uomini! Che poi queste femministe, che erano capeggiate dalla Dacia Maraini insieme ad Adele Cambria una bravissima giornalista, a Roma avevano occupato una casa, dove facevano le loro riunioni, però era proibito l’accesso agli uomini. MI avevano invitato e io ho detto: Non vengo, perché siete delle razziste e non fate entrare gli uomini! allora Adele Cambria mi ha detto: Sai Nanda se qui facciamo entrare un uomo queste gli saltano addosso! Allora mi hanno fatto tenerezza e così una volta sono andata. Stavano lì tutte sedute per terra su questo cemento gelato, mi sono presa una cistite che mi è durata un mese! Facevano l’autocoscienza, poi hanno cominciato con le loro storie, gli uomini sono tutti schifosi, ce ne hanno fatto di tutti i colori, dì tu Nanda, tu che sei stata trattata così male, tu sei una vittima degli uomini! E io ho risposto, veramente a me gli uomini piacciono tanto (ride), sì, è vero, mi è andata male, però forse ho fatto degli errori, poi gli ho detto, non sono stata abbastanza puttana, e questo le offende da morire! Allora hanno detto, dobbiamo fare il lesbismo politico, e io ho detto ma figuratevi se io mi metto fare il lesbismo politico, no no guardate stasera facciamo pochi affari perché io non sono d’accordo con niente di quello che avete detto. Poi siamo uscite e queste ragazze, saranno state una decina, ognuna aveva il suo maschietto che l’ aspettava, l’unica che era sola ero io! Mi è venuta una rabbia! Senti, quando arriviamo io dico: fate l’amore, non fate la guerra eh ?, magari gli diamo delle idee! Oh che bello quel castello lì..

mieiquadrifogliMi telefonano ancora per sapere dove siamo, rispondo che siamo a Bolzano, saremo lì tra dieci minuti/un quarto d’ora circa. La Pivano dice:
– Ah, ma allora devo prepararmi, aiutami a infilare la giacca …Ecco adesso sono tutta vestita per bene…Senti, quando arrivo devo dire Gruess Gott?  Me lo dicevano quando ero sulle montagne, è così carino…, un po’ come a Papua, anche lì quando ci si incontra in montagna, ci si saluta. Perché è il pericolo della solitudine grande, della solitudine misteriosa che fa una specie di tentativo di alleanza con gli uomini, e allora anche a Papua fanno dei segni con le mani….una puzza hanno addosso poverini, perché loro, per difendersi dal freddo in montagna, si ungono il corpo con grasso di maiale, non ti dico la puzza, poverini….Sono sani quei posti, ho una nostalgia, con tutte le porcate che abbiamo qui, non ce li immaginiamo neanche che cosa sono quei posti. Ci sono solo questi uomini che sono a contatto con il pericolo della vera natura, noi non sappiamo neanche più cos’è la vera natura… Beh senti, tu hai detto dieci minuti, ma i dieci minuti sono passati, sei un bugiardo, un bugiardo come tutti gli uomini! (ride)
– No le giuro, adesso siamo arrivati –
– Non ci credo neanche..…va beh però se tu continui a darmi del lei devo darti del lei anch’io, se no cosa facciamo, arriviamo lì che io ti do del tu, tu mi dai del lei… –
– Ma, non posso, rispondo, cosa faccio, arrivo lì e io le do del tu, farei la figura di quello che vuole… –
– Beh allora anch’io le devo dare del lei signore, la devo chiamare dottore vada a fare in culo? –
– Ma no, poi non sono dottore, mi chiami semplicemente Umberto… –
– Eh, va beh…, siamo tutti dottori, bastano cinque lire e si diventa dottori, perché credi che le lauree siano delle cose serie, figurati..(vede il cartello che indica Merano) ah beh allora ci siamo davvero, ti dirò che com’era partita questa cosa non ci speravo proprio di arrivarci, ci voleva solo la tenacia di Armando, Armando è stato fantastico…ha cominciato a incazzarsi un po’, poi è stato bravissimo… –
La macchina si ferma finalmente davanti alla biblioteca, la signora Pivano scende, non senza aver prima salutato e ringraziato ancora una volta il nostro autista. Subito viene bloccata da una troupe della RAI che le rivolge alcune domande a cui lei risponde con la cortesia e la chiarezza di chi è abituato a farlo spesso. Entriamo finalmente in biblioteca e la Pivano viene accolta da un caloroso applauso da parte del pubblico, a cui lei risponde incrociando le braccia e toccandosi le spalle con le mani e con il suo saluto preferito, Pace e amore.
Sono le 21.30 la serata può finalmente avere inizio. Io mi sento distrutto da dieci ore di macchina, il traffico, il caldo e la tensione che mi hanno accompagnato per buona parte del viaggio, la Pivano, che per inciso ha il doppio dei miei anni, è fresca come una rosa, allegra, pimpante e spiritosa e con una gran voglia, almeno sembra, di confrontarsi con la gente. Tira avanti così per un’ora e mezza, disponibile, divertente, brillante a raccontarci di letteratura, di personaggi, di storia americana e storia italiana, di vita. Leggiamo la poesia di Francis Turner tratta da Spoon River, lei la sua traduzione, io quella di De André e in quel momento non realizzo che sto leggendo insieme a uno dei personaggi più importanti della storia della letteratura di questo Paese, non credo che una cosa del genere mi capiterà più tanto spesso.
In chiusura di serata chiedo di poter leggere un brevissimo estratto dal suo libro I miei quadrifogli, un estratto dal titolo “Il sogno di Shakespeare” che ho trovato bellissimo e intensamente poetico; quando lo annuncio Fernanda sorride e mi dice, con grande tenerezza, – figlio di puttana – credo che quel pezzo piaccia anche a lei e piace sicuramente al pubblico che al termine della lettura le dedica un lungo e commosso applauso e che la trattiene ancora a lungo per salutarla e farsi firmare qualche autografo.

Prima di ripartire la Pivano vuole mangiare qualcosa e, con una certa fatica dopo alcuni tentativi falliti, riusciamo a trovare un ristorante ancora aperto. Fernanda ora comincia a essere stanca e impaziente di rientrare, ma mantiene una conversazione ancora brillante e si illumina immediatamente quando nel ristorante fanno il loro ingresso i due ragazzi che, in attesa del suo arrivo in biblioteca, hanno intrattenuto il pubblico con le canzoni di Bob Dylan; sono quasi certo che se avessero con loro le chitarre lei gli chiederebbe di suonare. Sono quasi le 2.00 ed è ora di partire. La saluto per ultimo, tengo per me questo piccolo privilegio. Mi chiede:
– Anche adesso non riesci a darmi del tu? –
Non ricordo più cosa rispondo, credo di non riuscirci nemmeno in quel momento, però le dico che la ringrazio per quel viaggio, per le chiacchierata, per il libro con dedica che mi ha regalato, per questa giornata, che porterò dentro di me come una delle cose belle della mia vita. La Pivano sorride e mi guarda come per dirmi – Che esagerato che sei! – Mi abbraccia e mi bacia sulle guance, poi sale in macchina e parte.

Un paio di settimane più tardi, un sabato, provai a telefonarle. Rispose lei in persona. Ero convinto che a distanza di qualche tempo avesse completamente rimosso il ricordo di uno dei tanti fra i mille incontri a cui partecipava e soprattutto della persona che l’aveva accompagnata, invece lei si ricordò subito: – Ma certo, Umberto! Il bibliotecario che mi ha fatto conoscere Merano! – Fu gentile e affabile; chiacchierammo un paio di minuti e poi ci salutammo, ovviamente fu l’ultima volta che ebbi occasione di parlare con lei.
Quando ripenso a lei mi viene in mente quell’ultima telefonata; anche quella volta non sono riuscito a darle del tu, ma penso sia stato giusto così.

 

Nella prima foto, 24 aprile 2002, Fernanda Pivano a Merano con Carlo Martinelli.
Nella seconda, 24 aprile 2002, Merano, biblioteca civica: Umberto Massarini legge un testo di Fernanda Pivano.

Franco Nones, il 68 sugli sci e dintorni

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di Carlo Martinelli

Il 14 febbraio del 2004 muore Marco Pantani. Pochi giorni dopo, nel contesto di una serie di interviste a personaggi dello sport chiamati a dare il loro perché, se esiste un perché, sulla tragica fine del Pirata, ecco, all’altro capo del telefono, Franco Nones. L’uomo cui è caro il mese di febbraio. In febbraio è nato, era il primo giorno del mese, nel 1941, lui era terzo di otto fratelli, nella valle di Fiemme.  Il sei di febbraio del 1968, mise le ali ai piedi e spinse come non mai lungo i trenta chilometri della gara di fondo alle Olimpiadi invernali di Grenoble. Tagliò per primo il traguardo ed entrò nella leggenda. E mentre lo ascolti, decidi: è un uomo concreto. Con delle idee ben piantate, forse della stessa grinta e decisione con le quali piantava le racchette nella neve, nel mentre le leve spingevano verso i suoi sedici titoli italiani o verso quella storica medaglia sessantottina. Quando per la prima volta gli uomini del Nord si arresero. Così quando il Re di Norvegia è venuto in visita in Trentino – è successo per i Mondiali di sci nordico di Fiemme –  alla cena ufficiale c’era una tavola con sette posti ed uno, manco a dirlo, era per Franco Nones.

Allora, quest’uomo concreto deve raccontarci come si esce dai riflettori della celebrità (solo quella, nel suo caso; ché quando divorava le piste sugli sci da fondo la Federazione gli passava 1.500 lire al giorno di “mancato guadagno”) senza subire scossoni devastanti. Come è successo, è ferita recentissima, per Marco Pantani.

Già: cosa ne pensa Franco Nones di questa triste vicenda? Per avere una risposta dobbiamo attendere le ore diciannove, quando scendono le serrande del negozio di articoli sportivi, a Castello di Fiemme. Le parole sono ponderate, misurate, precise. “Certo che seguivo Pantani. Lui era uno capace di coinvolgere anche i non tifosi. Quando se ne andava in salita, ti venivano i brividi. Penso che il suo fosse un destino segnato anni fa. Con un temperamento come il suo non poteva sopportare il peso del sospetto. Lui provava vergogna, ne sono certo, al solo pensiero che qualcuno potesse pensare che le sue vittorie non erano vere. Comunque sia, questa è una storia che ti butta giù. Ed è difficile capire. Adesso tutti chiacchierano, tutti parlano, tutti credono di conoscere la verità. Ed invece chissà cosa c’era nella sua testa”.

Ed allora, la prima medaglia d’oro olimpica del fondo nella storia sportiva invernale italiana, ha una sua idea. Certo che ce l’ha ed è, appunto, assai concreta. “Chi fa sport deve avere il coraggio di tagliare completamente con il mondo dello sport, una volta finita la carriera. Deve fare quello che pensava di fare, deve buttarsi in una nuova dimensione di lavoro, completamente diversa. Le cose fatte a metà non servono a nessuno. Perché la vera vita non è quella dello sport attivo, delle vittorie, della celebrità. Devi apprezzare e non finire mai di ringraziare che la fortuna ti abbia permesso di fare, per alcuni anni, bellissimi, proprio quello che ti piaceva fare. Ma quando comincia quel periodo si sa che quella non può essere la professione della tua vita. Devi sapere che non durerà per tutta la vita”.

E allora, a proposito di concretezza, ecco cosa pensa Franco Nones, uno che ha conosciuto piste gelate, scarpe bagnate fradice, grandi fatiche: “Quando hai avuto gloria e fortuna devi avere il coraggio di smettere due anni prima, piuttosto che due anni dopo. Lo devi fare quando hai ancora grinta e voglia di fare”.

Sottinteso: Franco Nones lo ha fatto. Ma è una scelta davvero saggia? “Lo so bene che lo sport piace, che lo sport è bello. Ma la vita vera è quella con i problemi di tutti i giorni, è avere a che fare con la burocrazia, con le carte. Sulla cresta dell’onda ci resti per un momento della tua vita, è bellissimo ma è per forza di cose un periodo limitato. Allora ringrazia Iddio, ma sii consapevole che deve finire”.

E dunque, la seconda vita del campione, come la si affronta? “Io l’ho fatto credendo in certe cose. Potevo restare nella Guardia di finanza, invece ho scelto di aprire un negozio di articoli sportivi e di puntare sul turismo, sul settore alberghiero. Per me è stata decisiva la famiglia. Ed ogni mattina, quando mi sveglio, mi dico: affrontiamo la giornata nel migliore dei modi. E questo deve valere per chi è bravo e per chi è meno bravo, sempre. Con grande serenità”.

Mette sull’avviso, il campione che a Grenoble piegò il mitico Eero Maentyranta, indomabile finnico. “Molti sportivi, molti campioni commettono un grande errore. Credono che, una volta terminata la carriera, tutte le porte siano comunque loro aperte. Sbagliano. Proprio perché sei stato un campione, la gente da te pretende semmai qualcosa di più. Nella vita, come nello sport, c’è il vincente e c’è chi vince meno o nulla. Ma il carattere, quello, quello rimane. Quello fa la differenza. E l’albo d’oro della mia vita è molto lungo. Ma non è fatto solo dalle medaglie e dai titoli vinti. E’ fatto dalla famiglia, dagli amici, dalle soddisfazioni – e dalle difficoltà – del lavoro”. Poi Nones racconta  “di certi ex campioni, o comunque ex sportivi, che si trascinano da un bar all’altro. Non è questa la vita. Perché sarà pure un modo di dire, ma alla fine io sono convinto davvero che l’ozio è il padre dei vizi”. Non glielo chiedi, perché del pettegolezzo non se ne può più (e comunque lui non te lo direbbe, non a caso è uomo concreto), ma è chiaro che si riferisce a qualcuno in particolare. Poi, aggiunge: “Non sono molti gli atleti, grandi o piccoli, che quando hanno smesso l’attività agonistica sono riusciti ad inserirsi con soddisfazione in un’altra vita, nella seconda vita. Molti rimangono nell’ambiente, in qualche modo. E’ come se non volessero affrontarla la loro seconda vita. Forse perché sanno che quella è ancora più avventurosa ed ostica di quella che vivevano quando le telecamere, le interviste, gli applausi erano tutti per te. Nella vera vita, niente applausi. Spesso te lo fai da solo l’applauso. Ma vuoi mettere la soddisfazione di essere in pace con te stesso?”.

Inevitabile, la domanda finale. Si può avere ancora fiducia nello sport? “Sì. Guai non fosse così. Certo, che troppi siano fuori norma lo sanno tutti. Ma fiducia bisogna averla, sempre”.

Clic. Fine della telefonata. E un salto all’archivio, subito. Per scoprire che era Giorgio Fattori, uno dei più importanti giornalisti italiani del dopoguerra, l’inviato de “La Stampa” alle Olimpiadi invernali di Grenoble, nel 1968. E fu lui a firmare, in prima pagina, il memorabile articolo che raccontò agli italiani – era l’8 febbraio – quel che di incredibile era successo, poche ore prima. Un italiano per la prima volta sul podio più alto dello sci di fondo. “Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, il campione di una gara di fondo non è uno sciatore nordico o sovietico, ma un giovanotto di ventisette anni nato a Castel di Fiemme, provincia di Trento, di professione vice brigadiere di Finanza”. Così Giorgio Fattori – che dieci anni dopo Gianni Agnelli avrebbe voluto proprio alla direzione de “La Stampa” – iniziò quel resoconto.

E aggiunse: “Quella di oggi non è stata solo la più grande giornata nella vita di Franco Nones, medaglia d’oro dei 30 chilometri, ma una data storica per lo sport della neve. Le gare di fondo sono nate nelle pianure del Nord Europa: sugli stretti sentieri nei boschi di betulle, sulle sconfinate distese di falsopiano coperte, molti mesi dell’anno, dalla neve. Il boscaiolo, il postino, il medico condotto in Finlandia, Scandinavia e in alcune regioni di Russia sono tutti fondisti in potenza. Marciare sugli sci fa parte della loro vita, è indispensabile molte volte per il lavoro. Da queste centinaia di migliaia di «maratoneti bianchi» vengono fuori i campioni che nelle gare decisive hanno sempre dominato da lontano. Prima di Franco Nones, nessun centro-europeo alle Olimpiadi era mai andato oltre l’ottavo posto nelle prove di fondo.  Con queste tradizioni e questa scuola alle spalle, non era pensabile che in una gara olimpica uno sciatore alpino riuscisse mai a battere i nordici. Anche a Grenoble, nessuno aveva pensato a Franco Nones. I tecnici sapevano che era in forma, gli specialisti conoscevano i suoi mesi di preparazione in Svezia, i buoni risultati. Ma nel villaggio olimpico di Autrans nessun giornalista straniero aveva disturbato in questi giorni il finanziere Nones per una dichiarazione o una fotografia. Le attenzioni erano tutte per il finlandese Maentyranta, bruno come uno spagnolo e dallo stile leggero: lo chiamano la volpe delle nevi. Alla vigilia della gara era nevicato per un’ora, a Grenoble e a Autrans. Quella sfuriata di maltempo aveva preoccupato i cerimonieri della fiaccola, creato il problema di come fare restare il generale De Gaulle per due ore sotto la neve. Poi il cielo si era schiarito e a Grenoble nessuno ci aveva pensato più. Ma quella neve di Autrans aveva preparato la vittoria di Nones. « La pista rapida e dura — come dice — dove contano più i polmoni che lo stile: la pista che aspettavo». Franco Nones non è molto alto, gli sciatori di gare di fondo assomigliano spesso ai maratoneti. La lunga falcata non conta, ma sapere buttare uno sci avanti all’altro, senza un attimo di respiro. Nones ha il cuore giusto per questa durissima fatica, anche se un medico tanti anni fa lo sconsigliò di continuare il ciclismo (gareggiava fra gli allievi) perché il battito del suo cuore non gli piaceva. Oggi quel medico, in qualche parte del Trentino, leggerà con stupore che l’adolescente, al quale proibì con fermezza qualunque sport, ha battuto i più famosi fondisti del mondo”.

L’uomo che sussurrava agli orsi


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di Carlo Martinelli

Dall’orso di San Romedio ad M2, ucciso a fucilate poche settimane fa in Val di Rabbi, le vicende del Trentino si sono spesso incrociate con quelle del plantigrado, animale di rara bellezza e di sicuro fascino, ancorché perennemente in bilico tra le due possibilità. Richiamo certo per i turisti? Pericolo per la popolazione? Non di questo vogliamo qui dibattere. Qui si vuole raccontare di come, poco più di mezzo secolo fa, due orsetti furono le “star” indiscusse del Trentino. Non solo. Le immagini di Bumsli e Sepha, questi i loro nomi, fecero il giro del mondo. Oggi le possiamo riproporre, grazie a una scoperta editoriale che ha una premessa, altrettanto editoriale. Andiamo con ordine. Prendiamo le pagine di una straordinaria enciclopedia di storie, fatti e personaggi qual è il Dizionario trentino di Mauro Lando edito da Curcu & Genovese. Dal primo corposo volume spunta la voce “Orsi – ripopolamento”.

La rileggiamo.
“La progressiva diminuzione degli orsi nel territorio trentino ha fatto ipotizzare più volte un ripopolamento tramite l’immissione di esemplari provenienti da altre aree e che potessero insediarsi nell’habitat, in particolare del gruppo del Brenta. Dopo quattro tentativi mal riusciti, si è arrivati al ripopolamento tramite il Progetto Life Ursus avviato nel maggio 1999 e concluso nel 2002 con l’immissione di dieci plantigradi.
1959-60 – Bumsli e Sepha. Il primo tentativo di ripopolamento della popolazione di orsi avvenne tra il 1950 e 1960 in Val di Genova a opera del naturalista austriaco Peter Krott che si era trasferito con la famiglia a Cavria di Carisolo in Val Rendena. Nella primavera del 1959 si fece mandare dallo zoo di Praga due cuccioli di orso bruno dei Carpazi, li “battezzò” Bumsli e Sepha e li allevò allo stato di semilibertà nei pressi della sua abitazione. “Studierà gli orsi della Val di Genova tramite due plantigradi dei Carpazi” titolò l’Adige del 25 gennaio 1959 nel dare notizia dell’esperimento. Fu però nell’anno successivo che Peter Krott tentò un’ immissione dei plantigradi nel territorio della Val di Genova. “Lì, tra enormi massi di roccia e un mare di cespugli e di lamponi esistono numerose grotte: una potrà servire a Bumsli e Sepha come rifugio invernale”, così scrisse Peter Krott sul numero 7 della rivista Successo nel 1960. Le cose andarono ben diversamente, i due orsi non furono in grado di affrancarsi dalla “tutela” dell’uomo e vivere liberamente. Per questo nel luglio 1960 Bumsli e Sepha vennero trasportati nella fossa per orsi che l’amministrazione comunale di Trento aveva realizzato a Sardagna, poco distante dalla stazione della funivia e dall’Hotel Panorama”.
Basterebbe questo a scatenare la postuma curiosità. Ma la monumentale enciclopedia ha anche la voce “Orsi in cattività”. Assai corposa. Per gentile concessione dell’autore, citiamo ancora. Perché la storia assume contorni vieppiù coinvolgenti.
“Il recinto di Sardagna – scrive Mauro Lando – fu inaugurato il 10 ottobre 1959 alla presenza del conte Gian Giacomo Gallarati Scotti, priore dell’Ordine di San Romedio. È stata ricavata nella roccia, scrisse l’Alto Adige, “una grande fossa debitamente cintata e murata” nella quale erano stati collocati tre orsi che il circo di Ferdinando Togni aveva donato al Comune. A lungo furono una vera attrazione anche perché un anno dopo gli orsi diventarono addirittura cinque. Era successo che tra il 1959 e 1960 il naturalista austriaco Peter Krott tra Carisolo in Val Rendena e la Valle di Genova aveva allevato in semilibertà due orsi dei Carpazi nel tentativo di lasciarli poi liberi. L’esperimento non riuscì e così Bumsli e la sua compagna Sepha vennero prelevati e portati nella fossa di Sardagna. Successe però che “a meno di 24 ore dall’ingresso nella nuova residenza” (Alto Adige, 29 luglio 1960), Bumsli si era arrampicato sulle pareti della fossa e al mattino si era incamminato verso Sardagna. Proprio sulla strada lo trovò il custode che stava portando ai plantigradi un secchio pieno di latte. L’orso gradì il latte, ma proseguì il suo cammino incurante degli incitamenti del custode a tornare in gabbia. Vennero chiamati i vigili e dopo non poche ore l’orso fu ricondotto presso il recinto e finalmente “l’accalappiacani comunale Lino Nicolussi e il vigile urbano Gino Peterlongo sono riusciti a spingere Bumsli nel punto in cui il salto nella fossa è più facile”. A quel punto con “una spinta ben data” tutto fu risolto. Anzi, no. Il giorno dopo, la notizia è sull’Alto Adige del 31 luglio 1960 a fuggire fu Sepha, la quale da Sardagna scese fino alla Vela senza che nessuno riuscisse a trattenerla. In gran fretta venne fatto arrivare da Carisolo Peter Krott il quale “si è messo in mezzo alla strada e ha lanciato un paio di ululati convenzionali che la orsacchiotta conosceva molto bene. Infatti è uscita alla chetichella da un anfratto e si è avvicinata a Krott”. A quel punto “si è lasciata sospingere in gabbia” e riportata a Sardagna.orso2

A Sardagna la convivenza tra Bumsli e Sepha con gli altri tre orsi era però difficile per cui l’amministrazione comunale pensò di costruire un’altra gabbia nel parco di Gocciadoro. Il trasferimento dei due plantigradi avvenne nel luglio 1962 e l’Alto Adige (18 luglio 1962) commentò che adesso i due “hanno una gabbia tutta per loro, un parco tutto per loro con un pubblico di bambini tutto per loro”. C’è da credere che Bumsli e Sepha non si trovassero male a Gocciadoro e lo dimostra il fatto che (l’Adige, 13, gennaio 1966) nacquero due orsetti”.
Fin qui il racconto minuzioso e circostanziato. Giornalistico. Il curioso vorrebbe saperne di più. Ed ecco la sorpresa. Da quel mare ribollente di storie e possibilità che è Internet spunta – previa ovvia e nemmeno tanto difficile ricerca: basta un clic su Google – quel che non ti aspetti. Non ci furono soltanto decine di articoli di giornale e servizi televisivi sui due orsi introdotti dallo svizzero Krott dalle parti di Carisolo. Di più. Peter Krott ha scritto un libro su quella vicenda a suo modo unica. Di più ancora. Lo ha corredato con 34 fotografie, molte a colori, che costituiscono tutt’oggi un documento di prim’ordine. Raccontano di come, tra la primavera del 1959 e l’estate del 1960, tra i boschi della Val Rendena, al cospetto del Brenta, nel cuore delle Dolomiti, due orsetti condivisero casa, letto e cucina con Peter Krott, sua moglie (mai chiamata per nome nel libro, ndr) e i due figli della coppia, Martin e Max, che avevano allora rispettivamente cinque e quattro anni.
Il curioso è riuscito a procurarsi tanto l’edizione tedesca del libro di Peter Krott (Ich war eine Barenmutter, edizioni Hallwag Verlag, Berna e Stoccarda) che quella inglese dal titolo Bears in the family, edito nel 1963 da Oliver Boyd, Edinburgo e Londra.
In quei due titoli tradotti al volo in italiano (non risulta al curioso che esista una versione italiana di quelle 144 pagine divise in 18 appassionanti capitoli) ci sta proprio quella vicenda. “Io ero la mamma degli orsi” e “gli orsi erano in famiglia”. Questo racconta Peter Krott. Racconta il suo sogno – mutuato da altre esperienze di naturalisti e amici degli animali, in giro per il mondo, dalla Scandinavia agli Stati Uniti – di restituire alla libertà dei boschi e della natura dei plantigradi nati in cattività. Nel Brenta questo esperimento fallì. E nello svolgersi del racconto di Peter Krott c’è la parabola – con inevitabile traccia finale di amarezza e delusione – per quel che non gli riuscì. Andò a prenderli allo zoo Tesin di Praga, i cuccioli. Per mesi furono la gioia della sua famiglia ma subirono anche la curiosità (e poi l’ostracismo, in parte) della popolazione locale. Furono in particolare i danni (e lo spavento) arrecato dai due orsi a un gruppo di operai intenti a lavorare nei boschi della valle a scatenare una sorta di rivolta e a costringere Knott a consegnare gli orsi alle autorità e quindi al recinto di Sardagna. E si stagliano nette le sue parole, al momento della “cattura”. Lui avrebbe preferito ucciderli piuttosto che vederli costretti in pochi metri quadrati.
Ma quella vicenda conserva momenti unici, toccanti. Le immagini di Bumsli e Sepha che giocano, quasi, con la capra di Candido, un contadino del luogo. Le parole di Knott: “Non avrei cambiato quel posto con nessun altro al mondo. Far colazione con due orsi nell’alto delle montagne era la mia idea di paradiso”. E più avanti, amaramente: “Avere a che fare con gli orsi è un gioco da ragazzi rispetto al doversi confrontare con la stupidità umana”.

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E così, tra Bumsli e Sepha che dimostravano di gradire in particolare la polenta e il salame, le pagine sul letargo invernale, il difficile (impossibile?) adattamento dei plantigradi nel consorzio degli umani (la zona di Carisolo in quei mesi fu attrazione turistica di prim’ordine), i giochi con i figli del naturalista, la casa di Cavria diventata a tutti gli effetti la malga degli orsi, il latte dispensato con il biberon, la dolorosa separazione e persino, più tardi, l’intervento per farli tornare nella gabbia dalla quale erano fuggiti, il racconto di Knott diventa una preveggente anticipazione di temi che il Trentino e gli orsi stessi avrebbero ritrovato, cinquant’anni dopo.
Il curioso chiude il libro e saluta Bumsli e Sepha. E rilegge il finale del racconto appassionato del naturalista svizzero. A proposito: chissà se tornò poi in Trentino, chissà che fine ha fatto. Il curioso pensa sia meglio non indagare, quella storia è già grande per com’è stata.

“Cominciammo la discesa verso la valle. Quando vi giungemmo, cominciò a piovere e lentamente il mio paese degli orsi scomparve nella nebbia che saliva”.

Il Carrarmato e il Pirata, la vita davanti e quella per sempre alle spalle

benetti canarinodi Carlo Martinelli

Il 14 febbraio del 2004 muore Marco Pantani. Pochi giorni dopo – per la precisione, il 20 – nel contesto di una serie di interviste a personaggi dello sport chiamati a dare il loro perché, se esiste un perché, sulla tragica parabola del Pirata, capita di sentire, all’altro capo del telefono, Romeo Benetti.
Occhio: se si va su google e si digita il suo nome, il motore di ricerca ti suggerisce anche “Benetti macellaio”. E, certo, in rete trovi anche l’intervista a Franco Liguori, il mediano del Bologna cui Benetti spezza la gamba il 10 gennaio del 1971, di fatto spezzandogli anche la carriera.
Ma, qui, piace riproporre una conversazione tanto pacata quanto intrisa di una sottile malinconia, non disgiunta da una saggezza che è forse figlia di quella indiscutibile rudezza.
Perché per noi, malati di calcio, Benetti sarà sempre la diga insormontabile contro la quale gli inglesi cozzarono invano, nel 1973, a Wembley, quando Fabio Capello uccellò i figli di Albione (non perfidi come un tempo, ma quasi). E quei baffoni e quel sorriso un po’ duro, un po’ da film western (massì, lo avremmo visto bene a fianco di Bud Spencer e Terence Hill) sono rimasti nell’iconografia del calcio italico. E quella foto, qualcuno l’ha scordata quella foto? Il rude Romeo Benetti – classe 1945, esordio a 17 anni nel Bolzano, in serie D: in quel campionato 63-64 giocò 32 volte e segnò 10 reti, trampolino verso una carriera memorabile – se ne sta a rimirare la gabbietta con i canarini.
Romeo Benetti. Centinaia e centinaia di partite in serie A, 55 volte in azzurro. In morte di Marco Pantani, un signore che conosce l’animo degli uomini – dei deboli e dei forti – dice una verità sacrosanta. Vittorino Andreoli: “Pantani era un eroe della bicicletta. Una volta sceso da quel destriero, si è perso, si è smarrito, non ha accettato di essere qualcosa di diverso”.
Ma ci sono stati, e ci sono, campioni che smettono di essere tali, che vedono le luci dei riflettori spegnersi sopra di loro e che, tranquillamente, iniziano un nuovo cammino. Romeo Benetti è uno di questi. Il vocione è quello di sempre, è quello di allora, inconfondibile. Dalla Liguria racconta: “Per fortuna è la stragrande maggioranza degli atleti, in qualsiasi sport, che accetta l’inesorabile legge del tempo. Perché noi, su questa terra, siamo di passaggio, mica siamo eterni”.
Allora, signor Benetti, nessun problema nel giorno in cui ha appeso le scarpe al chiodo? “Macché. Lo sappiamo: per un processo naturale le qualità che ti hanno fatto campione, vengono meno. Certo, ci vuole una preparazione mentale per accettare tutto questo. Però a me è successa una cosa semplicissima: da quando ho smesso di giocare a calcio ho avuto tali e tante attività, che i problemi e le preoccupazioni sono semmai aumentati”.
Allora per il biondo Romeo, par di capire, i riflettori spenti non sono stati un trauma. “No. Certo che no. Mi fa piacere che la gente mi ricordi per quello ho fatto sui campi di gioco. Ma so che il calcio da copertina appartiene a chi ha l’età. E questo vale per tutti gli sport”.
E’ troppo tranquilla, la conversazione con Benetti. Ti dispiace quasi di averlo disturbato. Poi, però, ti regala una immagine folgorante. “Lo sa? Io, a casa, non ho neppure una mia foto appesa. Intendo una foto che mi veda in azione, da calciatore. Mi disturba l’idea di averne. Neppure quando giocavo amavo tenere ritagli di giornale o le immagini delle partite”.
Questa è bella. A uno che ha vinto due scudetti e si è fatto due mondiali, concedereste una parete intera di trionfi e ricordi. Ed invece… “Non mi è mai piaciuto pensare all’ieri. Mi interessa il domani, sempre. Quanto alla vita, quella vera comincia quando si spengono i riflettori”.
Adesso Romeo Benetti istruisce i futuri allenatori. Parla di uomini che devono usare l’intelligenza, che sanno di doversi mettere sul mercato – magari dopo una brillante carriera – avendo la capacità di prevedere l’attività futura in forma diversa rispetto al passato. Inevitabile, il discorso ritorna là dove era iniziato. Marco Pantani. C’è una incrinatura triste nella voce di Benetti. “Le cronache impietose di questi giorni ci parlano di un Pantani che nessuno conosceva. Circondato da ceffi loschi. Sono sorpreso. Il mio ricordo è quello di un campione che pedalava in bicicletta e che era amato dal suo pubblico. Quando ho saputo, ho provato un gran dispiacere”.
Ricordate le gambe del Romeo? Le sue sgroppate lungo il campo? Quel suo pudico parlare? Eppure, Carrarmato, lo chiamavano. Palla lunga e pedalare. Già: ma quando il discorso scivola sul Pirata, grinta e forza lasciano spazio a una compassione tutta speciale. E capisci che se solo potesse, il rude Romeo parlerebbe a Pantani così come parlava ai canarini di quella foto ingiallita dal tempo. Gli direbbe la sua verità di campione che non vuole foto per ricordare, perché la vita è avanti.
Ma di fronte al mistero e al dolore, anche il rude Romeo si inchina. C’è chi sa passare dalle 350 partite in serie A agli allenamenti sui campetti federali, felice di quel che ha. Lieto se qualcuno gli ricorda le partite di un tempo. Ma del Pirata che conquistò pedalando l’Italia e la Francia e che oggi riposa nel triste cimitero degli eroi dello sport, anche il rude Romeo non può che dire la verità di tutti. “Non so. Non capisco. Ho solo una grande tristezza, nel pensare a questa vicenda”. Già. Per Romeo Benetti di Albaredo d’Adige, la vita è avanti. Per Marco Pantani di Cesenatico è dietro, e per sempre.

Quando l’Aspirina trasforma un ciclista in scrittore

Francesco Moser in versione scrittore

di Carlo Martinelli

Diciamocelo. Sul fatto che sia stato un campione leggendario, non ci piove. Ed anche la sua traiettoria in politica é cosa nota. Per non dire dei successi imprenditoriali,  una volta lasciata l’attività agonistica: dalle biciclette al vino. Ma quanti sanno che Francesco Moser – ché è di lui, del campione trentino di Palù di Giovo che si parla – è stato, per una volta, anche scrittore? Incredibile, ma vero. C’è un volume a dimostrarlo, è stato pubblicato nel 1990 dalle edizioni L’Ariete. Si intitola I racconti dell’Aspirina,  e nacque per celebrare i primi 90 anni di successo di uno dei farmaci più conosciuti. A volerlo, ci vuole poco a capirlo, la casa produttrice tedesca che di Aspirine ne ha piazzate, nel frattempo, a miliardi. E che al tempo chiese a sedici esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport di parlare appunto dell’Aspirina. Si trovò in buona compagnia, nell’occasione, il Checco mondiale. Perché a formare il sommario di quell’anomala antologia furono nientemeno che Giulio Andreotti, Alessandro Bergonzoni, Livio Berruti, Gianni Brera, Carlo Castellaneta, Silvio Ceccato, Camilla Cederna, Gianfranco Ferré, Mariapia Garavaglia, Jas Gawronski, Roberto Gervaso, Luca Goldoni, Luca di Montezemolo, Giuseppe Pittanò, Vittorio Sgarbi, Enzo Spaltro.  Beh, come compagnia letteraria – per quanto una tantum per non dire una per semper – niente male, ne converrete. Certo, il libro è, per dirla in gergo, una marchetta. Ma ha una sua sostenibilità.

Aggiungiamo che il racconto di Francesco Moser si fa leggere, sicché non appare blasfemo pensare alla revisione di un amico giornalista (potrebbe essere un gioco divertente scoprire chi fu) una volta che il campione fornì le coordinate della sua narrazione. Tra l’altro il racconto, Un cocktail di sospetti,  titolo quanto mai adatto all’ambiente che ha fatto di Moser un idolo, gratificava al meglio il ricco potente committente, vale a dire la Bayer. Leggiamo il finale: “Ricordo che di Coppi si favoleggiava – scrisse Moser versione autore – perché fu il primo ad avere il medico onnipresente. Coppi è stato il primo che ha trasformato l’Italia del pedale, forse è stato l’archetipo per eccellenza dello sport che ha scelto. So per certo che Bartali diventava matto, convinto com’era che il suo più acerrimo rivale avesse, dalla farmacologia, aiuti decisivi, determinanti, tutti illeciti. Coppi, invariabilmente, rispondeva che un’Aspirina non può far male. Riflettendo, non mi riesce di capire come mai, con questi presupposti, la Bayer non si sia mai messa a costruire biciclette”. Diciamocelo: Moser scrittore è sorprendente. E ad ogni buon conto non è di certo l’Aspirina che ha segnato la storia dei sospetti farmacologici in bicicletta. Aveva ragione Coppi, opportunamente citato dal ciclista trentino. Un’Aspirina non può far male.
Anzi: a Francesco Moser ha fatto bene, trasformandolo – il tempo di un racconto di tre pagine – in uno scrittore.

PS: il 6 ottobre 2013 il sito Abebooks – libri usati, libri antichi, libri fuori catalogo – ha due Racconti dell’Aspirina a disposizione. Rispettivamente a Rivoli e Brescia. Rispettivamente 25 e 14 euro. Per la precisione.