Berlino, la storia d’amore più bella (2)

bacio sul murodi Henry J. Ginsberg (alias Marco Pontoni)

Così lui la strappò via e la portò in giro per Berlino, era il primo dell’Ovest che Hanna conosceva, addosso una giacca stretta, sul viso lunghe basette sottili, come due rasoiate, la condusse al suo pub e poi via di lì, le comprò un cappello rasta, le mostrò torri e palazzi, le presentò quantità industriali di amici che forse conosceva appena, e quando Hanna alla fine confessò che era affamata la portò a mangiare la migliore pizza che facessero da lì a Napoli, “la migliore, ti dico, non-si-di-scu-te!”.

Verso le cinque del mattino cadde un po’ di pioggia, o forse no, forse mi piace pensarla così, mi piace pensare che lui la strinse o forse che lei si tolse l’impermeabile e lo usò per coprire entrambi, perché lei era più attrezzata di lui ai rigori di novembre, lui era un tipo underground, uno che sembrava fatto della stessa pasta di quei muri, di quelle cantine dove suonavano come se picchiassero con un estintore su un’incudine, non sapeva nemmeno come si chiamasse. Verso le cinque la festa continuava e qualcuno cominciò a capire che non era una festa, cioè una cosa che poi finisce, che sarebbe stato per sempre così, da ora in avanti, non due città ma una sola, non due Paesi ma uno solo, non due popoli ma uno, il popolo tedesco. Verso le cinque, cinque e mezzo al massimo, si baciarono su una panchina. Era il primo bacio ad Ovest di Hanna, sapeva di birra come ad Est, ma non era spiacevole, e comunque con il suo fidanzato, quella mattina, aveva praticamente chiuso. Che storia, chiudere la stessa giornata della caduta del Muro! Da ricordare. Anche troppo. Come i troppi punti esclamativi con cui racconto questa storia d’amore, la migliore che abbia mai sentito, per quel che mi riguarda, almeno.

All’ora di colazione salirono strette scale, che si muovevano sotto i loro piedi come scale mobili. Lui armeggiò con delle chiavi, piuttosto a lungo. Infine giacquero su un divano letto. Si sentivano i clacson delle auto dei suoi compatrioti, fuori, e alla televisione Kohl stava parlando.

Hanna si sforzò di non stare male e alla fine si addormentò con la guancia sui peli del suo petto, cullata dal suo dolce russare occidentale. Si risvegliò solo due ore dopo con il mal di testa (lui dormiva), guardò dubbiosa dentro il frigorifero, diede un’occhiata ai suoi Lp, decise di uscire a comperare qualcosa per colazione, si rese conto più tardi che i soldi che aveva in tasca non avevano valore e non le andava di farsi dare del cibo gratis sfruttando la sua aria da profuga, girò un po’ attorno, senza sapere dov’era, entrò in un grande magazzino e uscì subito perché la guardavano sgranando sorrisi, si perse, cercò di tornare indietro, non trovava la casa, non aveva seminato la mollica del pane, comprese in un’illuminazione che non avrebbe saputo nemmeno riconoscerla, che non ci aveva fatto caso, che quando erano saliti su erano entrambi ubriachi e snob, e poi su dove? Forse si trattava di un sottoscala ed era sembrato a lei che si fossero inerpicati fino all’ultimo piano, forse lui non avrebbe voluto veramente rivederla, al suo risveglio, forse…ah, come ci si può sbagliare!

vengo via con teNella luce acida del mattino, nella sarabanda delle Trabant scatenate, si fece un pianto liberatorio. Poi si sentì battere su una spalla, si voltò. L’uomo avrà avuto sessant’anni, bianco candido rassicurante sui baffi e nei capelli. La moglie, comoda, burrosa, le stava porgendo un fazzoletto che odorava di buono.

Così li seguì. Pranzò nel loro elegante appartamento, ringraziò, accettò un cappotto e una maglia, fumò una sigaretta. E quindi, sempre con loro, piano piano, sotto un cielo ormai pomeridiano, si diresse verso il checkpoint. Vale a dire, verso casa.

E se questa non vi sembra la miglior storia d’amore che abbiate mai sentito (e non vi do torto), aggiungerò solamente che nove mesi dopo, come nelle migliori storie d’amore, o forse no…sono nato io!

da: Henry J. Ginsberg, “Vengo via con te – storie d’amore e latitudini”, Valentina Trentini ed., Trento, 2012.

Berlino, la storia d’amore più bella (1)

berlinodi Henry J. Ginsberg (alias Marco Pontoni)

(Prima parte)
Questa è ovviamente la storia d’amore più bella che abbia mai sentito.

Alle 18.53 del 9 novembre 1989 il corrispondente Ansa da Berlino Est, Riccardo Ehrman, chiese al ministro della propaganda della Ddr Günter Schabowski quando sarebbero entrate in vigore le nuove misure per i viaggi all’estero che erano state appena annunciate nel corso della conferenza stampa. Il ministro Schabowski, che non aveva ricevuto istruzioni in proposito dal suo governo, lasciò intendere che esse erano da considerarsi in vigore fin da subito e che i posti di blocco fra Berlino Est e Berlino Ovest sarebbero stati rimossi. Migliaia di persone si precipitarono verso i varchi. Fra queste, anche Hanna.

Voi cosa fareste se foste costretti a vivere tutta la vita dietro una vetrina, senza mai avere il permesso di entrare nel negozio? Vi buttereste dentro il prima possibile, a meno di non essere abbastanza snob da considerare l’apertura di quelle porte un imbroglio. Hanna era una snob, ma non tanto da resistere. Con migliaia di suoi concittadini passò il checkpoint, sotto gli sguardi attoniti dei Vopos, le guardie di frontiera, e fu dall’altra parte. Tempo dopo, si sarebbe chiesta perché non era successo prima. Se migliaia, decine di migliaia di cittadini della Germania Est si fossero presentati, tutti assieme, in Friedrichstraße, cosa mai avrebbe potuto fare il loro governo? Farli uccidere tutti? Ma si sa, la psicologia delle folle non funziona così. Se funzionasse così, non si capirebbe perché i dittatori riescono a tenere per anni in scacco interi popoli.

Sia come sia, e non voglio divagare, Hanna, con una sua amica e migliaia di altri, passò dall’altra parte. In un istante, passò dal mondo delle Trabant a quello delle Mercedes, dei punk e delle griffe.

Io non so cosa stessero facendo, a Berlino Ovest, quella notte. Folla si era radunata da entrambe le parti del Muro fin dal primo pomeriggio, la novità, ovviamente, era nell’aria. Ma a me piace immaginare che per molti fosse una sera come tutte le altre. Mi piace pensare che quel ragazzo fosse ad un concerto, uno dei tanti che animavano le notti della Berlino alternativa. Un concerto di Nick Cave, ecco. Era in città, all’epoca, Nick Cave? Non lo so. Ma mi piace pensarlo, mi piace pensare che stesse suonando in un locale come quello in cui è stato immortalato da Wim Wenders in un suo film. E mi piacer pensare che il ragazzo stesse bevendosi la sua seconda birra, in piedi, tranquillamente appoggiato ad una colonna, un po’ lontano dal palco, battendo il tempo con il piede. Anche lui era un po’ uno snob. Ma non abbastanza da non fiondarsi all’aperto con tutti gli altri, quando arrivò la voce, e di correre là dove un solido, pesante passato veniva fatto a pezzi da un incerto, anfetaminico futuro.

muro di BerlinoOltre il Muro, a ridosso del muro, le due folle si mescolavano. Unite dalla lingua e dai precedenti storici, divise da tutto il resto. I locali cominciarono a dar fuori da bere gratis. Tutto fu subito festa, happening, abbracci, riconoscimenti, oblio.

Non era la giornata giusta per Hanna, quella mattina aveva litigato con il suo ganzo e nel pomeriggio le era venuto mal di pancia, ma si sa, la storia non è un pranzo di gala. Così si lasciò trasportare dalla corrente che sgorgava inarrestabile da ogni recesso di Berlino Est. Dal principio erano a piedi, ma dietro di loro si stava mettendo in marcia l’esercito di Trabant crepitanti, che puntava al valico di frontiera di Schönefeld e voleva assolutamente raggiungere la Ku’damm. Avevano tagli di capelli sbagliati, occhi sgranati, e qualcuno sembrava uscito da un film in bianco e nero. Avevano vitalità repressa e sogni dalla loro parte.

Hanna si lasciò alle spalle i picconatori, che stavano già mettendosi all’opera. Scivolò e inciampò e rotolò addosso ad una quantità di persone, prese in mano i boccali che le porgevano, fu issata sulle spalle di un colosso di 150 chili, si tenne stretta la sua amica, si diede un contegno, baciò uomini e donne, si sentì bella e desiderata per com’era, com’era lei, con il suo aspetto di Hellersdorf, con quel tipo di scarpe. E infine, finì letteralmente fra le sue braccia. O almeno, così le è sembrato, dopo. Sotto ad un’insegna al neon che reclamizzava un walkman della Sony.

Lui fu veloce nel parlare. Hanna dice sempre che le parole gli uscivano fuori a raffica. L’aveva riconosciuta come una dell’Est, e per molto tempo sarebbe stato così, sarebbe stato facile riconoscersi. Col senno di poi, forse era già ubriaco, o fatto di qualcosa. Parlò e parlò tutto il tempo, trascinandola in giro, per mano, lontano dal Muro, e anche se lei aveva sentito da qualcuno che l’avrebbero richiuso, che chi era passato dall’altra parte non avrebbe più potuto fare ritorno a casa, ci pensò solo un istante. Di là dal Muro c’erano cinema, teatri, gente, luci, altre vetrine. Di là dal Muro la festa stava crescendo. Di là dal Muro gente spiritosa come questo ragazzo. Di là dal muro musica!

muro di BerlinoLui era alto, allampanato. La strappò via da quelli con cui stava, la strappò via dall’amica che le era venuta dietro incespicando (e che avrebbe rivisto solo due giorni dopo, disfatta), la portò in un parco, un pub, nella sala da concerto dove Nick Cave stava ancora suonando il suo blues crepuscolare, se Nick fosse stato in città quella sera, chiedendole sempre: “Ti piace? Ti piace?”. Era come se si sentisse l’ambasciatore dell’Ovest, ride adesso Hanna, come se si sentisse in dovere di farle vedere tutto, di spiegarle in breve ma con dovizia di particolare in cosa consiste lo stile di vita occidentale, con i suoi indubbi benefici e le sue inevitabili docce fredde, e la differenza fra la Barclay James Harvest e i Nirvana, e da che parte punta il vero coccodrillino della Lacoste, e di quali droghe non ti puoi assolutamente fidare, e in quali quartieri puoi forzare una porta e prenderti un appartamento senza che ti caccino subito, si chiama squatting, lo sai, non lo sai? “Vuoi vedere? Vuoi uno squat per i primi giorni? Non vorrai mica tornare laggiù, vero? Con me, magari, sì, con me, domani, o dopodomani, ci faremo una bella scorta di pezzi di muro, ricordati, fra un po’ varranno una fortuna, dobbiamo andare lì con un bel piccone, e in fretta, ma non adesso, adesso andiamo, dai, l’importante è andare, la vuoi la tua parte di cielo, la vuoi con vista sulla Sprea, la vuoi a Kreuzberg? Vai d’accordo con i turchi?”.

(Fine prima parte – segue)

(Racconto tratto da Henry J. Ginsberg, Vengo via con te – storie d’amore e latitudini, Valentina Trentini ed., Trento, 2012.)

 

L’uomo che sussurrava agli orsi


orso1

di Carlo Martinelli

Dall’orso di San Romedio ad M2, ucciso a fucilate poche settimane fa in Val di Rabbi, le vicende del Trentino si sono spesso incrociate con quelle del plantigrado, animale di rara bellezza e di sicuro fascino, ancorché perennemente in bilico tra le due possibilità. Richiamo certo per i turisti? Pericolo per la popolazione? Non di questo vogliamo qui dibattere. Qui si vuole raccontare di come, poco più di mezzo secolo fa, due orsetti furono le “star” indiscusse del Trentino. Non solo. Le immagini di Bumsli e Sepha, questi i loro nomi, fecero il giro del mondo. Oggi le possiamo riproporre, grazie a una scoperta editoriale che ha una premessa, altrettanto editoriale. Andiamo con ordine. Prendiamo le pagine di una straordinaria enciclopedia di storie, fatti e personaggi qual è il Dizionario trentino di Mauro Lando edito da Curcu & Genovese. Dal primo corposo volume spunta la voce “Orsi – ripopolamento”.

La rileggiamo.
“La progressiva diminuzione degli orsi nel territorio trentino ha fatto ipotizzare più volte un ripopolamento tramite l’immissione di esemplari provenienti da altre aree e che potessero insediarsi nell’habitat, in particolare del gruppo del Brenta. Dopo quattro tentativi mal riusciti, si è arrivati al ripopolamento tramite il Progetto Life Ursus avviato nel maggio 1999 e concluso nel 2002 con l’immissione di dieci plantigradi.
1959-60 – Bumsli e Sepha. Il primo tentativo di ripopolamento della popolazione di orsi avvenne tra il 1950 e 1960 in Val di Genova a opera del naturalista austriaco Peter Krott che si era trasferito con la famiglia a Cavria di Carisolo in Val Rendena. Nella primavera del 1959 si fece mandare dallo zoo di Praga due cuccioli di orso bruno dei Carpazi, li “battezzò” Bumsli e Sepha e li allevò allo stato di semilibertà nei pressi della sua abitazione. “Studierà gli orsi della Val di Genova tramite due plantigradi dei Carpazi” titolò l’Adige del 25 gennaio 1959 nel dare notizia dell’esperimento. Fu però nell’anno successivo che Peter Krott tentò un’ immissione dei plantigradi nel territorio della Val di Genova. “Lì, tra enormi massi di roccia e un mare di cespugli e di lamponi esistono numerose grotte: una potrà servire a Bumsli e Sepha come rifugio invernale”, così scrisse Peter Krott sul numero 7 della rivista Successo nel 1960. Le cose andarono ben diversamente, i due orsi non furono in grado di affrancarsi dalla “tutela” dell’uomo e vivere liberamente. Per questo nel luglio 1960 Bumsli e Sepha vennero trasportati nella fossa per orsi che l’amministrazione comunale di Trento aveva realizzato a Sardagna, poco distante dalla stazione della funivia e dall’Hotel Panorama”.
Basterebbe questo a scatenare la postuma curiosità. Ma la monumentale enciclopedia ha anche la voce “Orsi in cattività”. Assai corposa. Per gentile concessione dell’autore, citiamo ancora. Perché la storia assume contorni vieppiù coinvolgenti.
“Il recinto di Sardagna – scrive Mauro Lando – fu inaugurato il 10 ottobre 1959 alla presenza del conte Gian Giacomo Gallarati Scotti, priore dell’Ordine di San Romedio. È stata ricavata nella roccia, scrisse l’Alto Adige, “una grande fossa debitamente cintata e murata” nella quale erano stati collocati tre orsi che il circo di Ferdinando Togni aveva donato al Comune. A lungo furono una vera attrazione anche perché un anno dopo gli orsi diventarono addirittura cinque. Era successo che tra il 1959 e 1960 il naturalista austriaco Peter Krott tra Carisolo in Val Rendena e la Valle di Genova aveva allevato in semilibertà due orsi dei Carpazi nel tentativo di lasciarli poi liberi. L’esperimento non riuscì e così Bumsli e la sua compagna Sepha vennero prelevati e portati nella fossa di Sardagna. Successe però che “a meno di 24 ore dall’ingresso nella nuova residenza” (Alto Adige, 29 luglio 1960), Bumsli si era arrampicato sulle pareti della fossa e al mattino si era incamminato verso Sardagna. Proprio sulla strada lo trovò il custode che stava portando ai plantigradi un secchio pieno di latte. L’orso gradì il latte, ma proseguì il suo cammino incurante degli incitamenti del custode a tornare in gabbia. Vennero chiamati i vigili e dopo non poche ore l’orso fu ricondotto presso il recinto e finalmente “l’accalappiacani comunale Lino Nicolussi e il vigile urbano Gino Peterlongo sono riusciti a spingere Bumsli nel punto in cui il salto nella fossa è più facile”. A quel punto con “una spinta ben data” tutto fu risolto. Anzi, no. Il giorno dopo, la notizia è sull’Alto Adige del 31 luglio 1960 a fuggire fu Sepha, la quale da Sardagna scese fino alla Vela senza che nessuno riuscisse a trattenerla. In gran fretta venne fatto arrivare da Carisolo Peter Krott il quale “si è messo in mezzo alla strada e ha lanciato un paio di ululati convenzionali che la orsacchiotta conosceva molto bene. Infatti è uscita alla chetichella da un anfratto e si è avvicinata a Krott”. A quel punto “si è lasciata sospingere in gabbia” e riportata a Sardagna.orso2

A Sardagna la convivenza tra Bumsli e Sepha con gli altri tre orsi era però difficile per cui l’amministrazione comunale pensò di costruire un’altra gabbia nel parco di Gocciadoro. Il trasferimento dei due plantigradi avvenne nel luglio 1962 e l’Alto Adige (18 luglio 1962) commentò che adesso i due “hanno una gabbia tutta per loro, un parco tutto per loro con un pubblico di bambini tutto per loro”. C’è da credere che Bumsli e Sepha non si trovassero male a Gocciadoro e lo dimostra il fatto che (l’Adige, 13, gennaio 1966) nacquero due orsetti”.
Fin qui il racconto minuzioso e circostanziato. Giornalistico. Il curioso vorrebbe saperne di più. Ed ecco la sorpresa. Da quel mare ribollente di storie e possibilità che è Internet spunta – previa ovvia e nemmeno tanto difficile ricerca: basta un clic su Google – quel che non ti aspetti. Non ci furono soltanto decine di articoli di giornale e servizi televisivi sui due orsi introdotti dallo svizzero Krott dalle parti di Carisolo. Di più. Peter Krott ha scritto un libro su quella vicenda a suo modo unica. Di più ancora. Lo ha corredato con 34 fotografie, molte a colori, che costituiscono tutt’oggi un documento di prim’ordine. Raccontano di come, tra la primavera del 1959 e l’estate del 1960, tra i boschi della Val Rendena, al cospetto del Brenta, nel cuore delle Dolomiti, due orsetti condivisero casa, letto e cucina con Peter Krott, sua moglie (mai chiamata per nome nel libro, ndr) e i due figli della coppia, Martin e Max, che avevano allora rispettivamente cinque e quattro anni.
Il curioso è riuscito a procurarsi tanto l’edizione tedesca del libro di Peter Krott (Ich war eine Barenmutter, edizioni Hallwag Verlag, Berna e Stoccarda) che quella inglese dal titolo Bears in the family, edito nel 1963 da Oliver Boyd, Edinburgo e Londra.
In quei due titoli tradotti al volo in italiano (non risulta al curioso che esista una versione italiana di quelle 144 pagine divise in 18 appassionanti capitoli) ci sta proprio quella vicenda. “Io ero la mamma degli orsi” e “gli orsi erano in famiglia”. Questo racconta Peter Krott. Racconta il suo sogno – mutuato da altre esperienze di naturalisti e amici degli animali, in giro per il mondo, dalla Scandinavia agli Stati Uniti – di restituire alla libertà dei boschi e della natura dei plantigradi nati in cattività. Nel Brenta questo esperimento fallì. E nello svolgersi del racconto di Peter Krott c’è la parabola – con inevitabile traccia finale di amarezza e delusione – per quel che non gli riuscì. Andò a prenderli allo zoo Tesin di Praga, i cuccioli. Per mesi furono la gioia della sua famiglia ma subirono anche la curiosità (e poi l’ostracismo, in parte) della popolazione locale. Furono in particolare i danni (e lo spavento) arrecato dai due orsi a un gruppo di operai intenti a lavorare nei boschi della valle a scatenare una sorta di rivolta e a costringere Knott a consegnare gli orsi alle autorità e quindi al recinto di Sardagna. E si stagliano nette le sue parole, al momento della “cattura”. Lui avrebbe preferito ucciderli piuttosto che vederli costretti in pochi metri quadrati.
Ma quella vicenda conserva momenti unici, toccanti. Le immagini di Bumsli e Sepha che giocano, quasi, con la capra di Candido, un contadino del luogo. Le parole di Knott: “Non avrei cambiato quel posto con nessun altro al mondo. Far colazione con due orsi nell’alto delle montagne era la mia idea di paradiso”. E più avanti, amaramente: “Avere a che fare con gli orsi è un gioco da ragazzi rispetto al doversi confrontare con la stupidità umana”.

orso3

E così, tra Bumsli e Sepha che dimostravano di gradire in particolare la polenta e il salame, le pagine sul letargo invernale, il difficile (impossibile?) adattamento dei plantigradi nel consorzio degli umani (la zona di Carisolo in quei mesi fu attrazione turistica di prim’ordine), i giochi con i figli del naturalista, la casa di Cavria diventata a tutti gli effetti la malga degli orsi, il latte dispensato con il biberon, la dolorosa separazione e persino, più tardi, l’intervento per farli tornare nella gabbia dalla quale erano fuggiti, il racconto di Knott diventa una preveggente anticipazione di temi che il Trentino e gli orsi stessi avrebbero ritrovato, cinquant’anni dopo.
Il curioso chiude il libro e saluta Bumsli e Sepha. E rilegge il finale del racconto appassionato del naturalista svizzero. A proposito: chissà se tornò poi in Trentino, chissà che fine ha fatto. Il curioso pensa sia meglio non indagare, quella storia è già grande per com’è stata.

“Cominciammo la discesa verso la valle. Quando vi giungemmo, cominciò a piovere e lentamente il mio paese degli orsi scomparve nella nebbia che saliva”.

Patrice e il miraggio all’incontrario

l'Africa di Patricedi Ornella Tommasi

Il giornalista chiede al ragazzo sdraiato sul fondo della barca, quasi trent’anni e all’attivo almeno quattro tentativi di traversata tutti falliti e tutti seguiti da rimpatrio forzato, il perché di tanta ostinazione. Lui sorride e con l’aria più naturale del mondo spiega che “…lo dice la parola stessa, clan-destino, l’emigrazione è il mio destino…”. Mektub, in arabo: quello che sta scritto e non si può cambiare.

A cambiare sono le rotte, che oggi si estendono a Grecia, Turchia, perfino Croazia. Non cambiano i luoghi di provenienza, Maghreb, Corno d’Africa e Africa Subsahariana, solo per considerare il continente più vicino all’Europa Occidentale. Con impennate stagionali, secondo le condizioni del mare, e nuove emergenze come quella siriana.

Oggi è Lampedusa, all’epoca dell’intervista al ragazzo della barca erano Ceuta e Melilla, avamposti spagnoli in territorio marocchino. Ma volti e scenari si somigliano sempre. E a noi sembrano tutti uguali. Anche la storia di Patrice somigliava a quella di migliaia di altri, ma il caso ce l’aveva improvvisamente avvicinata, come il dettaglio di un’immagine che sfugge a una prima occhiata.

Autunno del 2006, foto di gruppo di frontiera. A Ceuta, con le nuove recinzioni di 6 metri sullo sfondo, in fila vicino alla scaletta dell’aereo per il rimpatrio, seduti accosto a un muro o mentre escono dai nascondigli a mani alzate. Sui giornali e nelle immagini televisive si assomigliano tutti, senegalesi, maliani e nigeriani: berretti, finte Nike e sacchetti di plastica sformati. Poi capita che qualcuno esca dalla foto, e per fortuna non sempre nel modo più tragico. A Patrice è successo mentre era ancora nella foresta di Belyounech, vicino alla frontiera di Ceuta, prima degli “assalti”. Erano in quasi duemila accampati nel bush in una sorta di villaggio neolitico, plurietnico e plurireligioso, recinzioni fatte di rami per delimitare la moschea, la chiesa cattolica e il luogo delle assemblee generali.

mappa di Ceuta

Lui viene dal Camerun, ha solo 22 anni e un fisico robusto senza il quale a Belyounech non avrebbe potuto resistere per due anni interi. Ma quando per un’improvvisa emorragia allo stomaco comincia a vomitare sangue i suoi compatrioti si preoccupano e lo convincono a raggiungere la zona del bosco dove si fanno trovare periodicamente i Medici Senza Frontiere. La diagnosi è un’ulcera gastrica, troppe aspirine a stomaco vuoto per curare tutti i tipi di dolori. Al pronto soccorso di Tangeri lo tengono una notte, un paio di flebo e analisi che portano a una diagnosi rassicurante: “Tutto a posto, venite a riprendervelo”, annuncia qualcuno all’équipe di MSF. Ma Patrice non si regge in piedi, i medici ripetono le analisi in un laboratorio privato e risulta una gravissima anemia, subito affrontata a forza di trasfusioni in un altro ospedale. Nel primo hanno evidentemente sostituito il referto con quello di qualcun altro. Un bravo gastroenterologo lo cura con attenzione e in una settimana Patrice è pronto per essere dimesso. Ha riflettuto, non se la sente di continuare nella sua odissea, vuole tornare in Camerun. Ma a Tangeri non ne vogliono sapere, secondo polizia e militari “non è sotto la giurisdizione giusta”. Un commissario di polizia promette di raggiungerlo in ospedale ma poi non si fa vivo. L’unica soluzione sarebbe quella di farsi arrestare, ma allora dev’essere nel posto “giusto”. A Nador, frontiera di Melilla, a 350 km di distanza ma non più a piedi come all’andata, stavolta non ce la farebbe. Così finisce che i Medici Senza Frontiere lo mettono su un pullman di linea, con tanto di regolare biglietto, destinazione la caserma di Nador dove sono detenuti i “rimpatriandi”.

Lui sorride sempre, anche di questo paradosso burocratico che deve suonargli come un beffa, dopo anni passati a cercare di sfuggire alle polizie di mezza Africa. Il pullman parte solo la sera tardi, c’è un pomeriggio intero un intero per raccontare, sfogliare i giornali di queste settimane e riconoscere nelle foto compagni feriti e leggere anche di qualcuno che ci ha lasciato la pelle. “Ogni rivoluzione ha i suoi morti”, commenta. La sua, di rivoluzione, per ora l’ha persa. Alla famiglia ancora non vuole telefonare, “per fargli una sorpresa” ma anche, confessa, per non sentirsi dire che deve restare, tentare ancora, perché in tanti hanno sperato che ce la facesse a migliorare la sua vita e magari ad aiutare un po’ anche la loro. Per questo non si aspetta una grande accoglienza. Quando sarà lì tenterà di fare qualcosa, lui dice “autoimpiegarsi” visto che è fuori discussione che un lavoro glielo possa dare qualcun altro.

villaggio nel Sahel

Eppure aveva cominciato bene, Patrice. A Douala, la capitale economica del Camerun, dopo la maturità ha frequentato per un anno l’Università, facoltà di biochimica. Ma in famiglia ci sono cinque figli, lui è il più grande e quando il padre muore le tasse d’iscrizione diventano insostenibili: l’equivalente di 120 euro all’anno, in un Paese in cui il salario medio sfiora solo i 40. Prova a cercare un lavoro, non viene fuori niente. È a quel punto che si affaccia l’idea dell’Europa: “Per continuare a studiare e avere qualche chance in più…Ma per uscire legalmente ti chiedono un conto in banca esorbitante. Se uno avesse tutti quei soldi a emigrare non ci penserebbe nemmeno. Ho fatto qualche risparmio, ho venduto una radio e un paio di pantaloni e ho preso la strada verso Nord”.

In concreto significa attraversare Nigeria, Niger, Libia e da lì l’Algeria verso il Marocco: mezza Africa, insomma, con in mezzo il deserto del Sahel e il Sahara. Il percorso Patrice ce l’ha stampato nel corpo e nella memoria, ma per indicarlo estrae da un borsellino gonfio di foglietti una fotocopia formato A4 della carta dell’Africa fisica, senza neanche i confini tra Stati, tutta spiegazzata. Le città, Zinder, Marad, Arlit e poi su verso Ghat e Ghadames, sono segnetti sulla carta. “Sì, c’è un momento in cui ti rendi conto che i pochi soldi sono finiti e non sei neanche a metà strada, ma a quel punto non puoi più tornare indietro…Ti fermi da qualche parte quando trovi un po’ di lavoro, metti insieme qualcosa per pagare il prossimo passeur. Impari anche a diffidare degli imbroglioni, in gergo “korsé”, che ti promettono di portarti direttamente in Spagna…è un commercio che comincia già in Niger, con la complicità della polizia, e noi siamo la merce. Arrivano ben vestiti, con belle macchine, ti prospettano due giorni di viaggio ma poi scopri che le distanze sono almeno di sette, ti lasciano nel deserto con le provviste che bastano solo per due giorni, ti dicono di continuare a piedi in una certa direzione ma tu non sai nemmeno dove sei… Ti affidano a una specie di guida, la nostra non ha fatto una piega quando siamo stati assaliti dai banditi che ci hanno fatto spogliare faccia a terra per prenderci tutto…al mio amico Eric hanno spaccato la testa, e nel caso nascondessi qualcosa nel corpo ti fanno ingoiare una mistura di acqua e farina che scatena subito una diarrea terribile, così possono controllare. Partiti loro, la notte stessa è sparita anche la guida. Eravamo una trentina, abbiamo camminato dieci giorni nel deserto bevendo quel po’ di acqua che a volte resta imprigionata tra le rocce. Ogni tanto sul percorso compariva qualcuno a offrirci di comprare cibo e acqua, ma dopo l’attacco dei banditi non avevamo più un soldo”. All’alba dell’undicesimo giorno Patrice e gli altri vedono le luci del primo villaggio libico, un contadino che li sfama a riso e tapioca e poi i primi fratelli neri. Lui riesce a trovare qualche compatriota, ma nel frattempo ha perso l’unghia di un piede e deve fermarsi. Riparte dopo due o tre giorni con un paio di sandali trovati tra i rifiuti e aggiustati con un po’ di fil di ferro e i vestiti che ha lavato nel frattempo, direzione Tripoli. Ma arrivato a Ghat non riesce a proseguire, resta due mesi in ospedale curato da un medico egiziano “molto gentile”.

deserto in MaroccoNel suo racconto Patrice usa spesso questo termine, il “gentil” che in francese ha un significato più ampio della semplice “gentilezza”, ed è come se nella sua storia mancassero proprio i “cattivi”. Da Ghat a Ghadames, Belbes, Ghardaya, Maghnaya e da lì 4 giorni di marcia per Nador, nella foresta di Guruguru, prima tappa in territorio marocchino. Li attraversa proprio tutti, Patrice, i punti caldi della cronaca recente: la frontiera con Melilla prima degli “assalti”, la strada che porta a Ceuta, 21 giorni a piedi sulla carta ma 35 nella realtà, per approdare alla foresta di Belyounech quando c’erano ancora quasi 2000 subsahariani, tra i quali molti del Camerun, tanto che a ricordare quel momento dice che si era sentito finalmente “al sicuro” . Qualche tentativo notturno di attraversare la barriera di Ceuta, regolarmente fallito, e quasi un anno nella foresta, assediata per mesi dalla polizia, per arrivare a oggi, e a questo paradosso che la polizia è lui a doverla andare a cercare, a Nador.

Convalescente dall’ulcera, jeans seminuovi, una camicia celeste a motivi floreali, e la pacata constatazione di aver perso la guerra: “Quando gli Europei chiudono le frontiere è una guerra che fanno contro i neri, e loro sono i più forti. Siamo in tanti che avremmo preferito restarcene a casa con 200 euro al mese piuttosto che partire per venire a guadagnarne 1000 in casa vostra. L’Africa è il continente più ricco del mondo, ma l’Europa deve smetterla di mettere i nostri Paesi l’uno contro l’altro, di sostenere i governi corrotti”.

Il pullman per Nador chiude le porte, il viaggio della speranza all’incontrario è cominciato.

La neve della Valpolicella

Valpolicella - vignetidi Alessandro Milani

Ci sono storie che in alcune zone, talvolta nemmeno geograficamente ristrette, sembrano scontate da quanto siano risapute; le stesse storie, anche a soli pochi kilometri di distanza, risultano invece sconosciute e sbalorditive.
Devono aver pensato questo i giornalisti dell’Arena di Verona quando, negli anni 60 del secolo scorso, hanno pubblicato un articolo sulla Valpolicella dal titolo “A Fumane nevica anche d’estate!”.

Gli abitanti del piccolo paese e della valle intera, invece, lo sapevano benissimo che a Fumane nevicava anche d’estate, e non un anno soltanto. E più di ogni cosa sapevano che la sostanza che imbiancava i campi, le strade e i tetti delle case non era neve, anche se da lontano ne aveva l’aspetto.

Non erano nemmeno i petali bianchi dei fiori del melo, che sembrano innevare le valli dedite alla pomicoltura nel mese di maggio…

No, purtroppo ciò che rendeva bianca questa zona della Valpolicella anche nei mesi estivi era la cenere prodotta dal cementificio di Fumane.

nevica d'agosto - locandina

Non era quindi una sostanza buona come la neve, sotto la quale la saggezza contadina vede nascondersi il pane.

Proprio i contadini erano invece i primi a pagare scelte produttive come quella che aveva portato al cementificio di Fumane. La Valpolicella, infatti, è famosa soprattutto per i prodotti della sua terra, in particolare le uve che servono agli ottimi vini che portano il nome della valle in tutta Italia e oltre, con Recioto e Amarone come punte di diamante.

Il dibattito, che ha preso spesso le sembianze dello scontro tra quali forme di produzione, quali diverse forme di visione del progresso stesso, cominciò a Fumane e oggi è ancora più vivo che mai. La valle, quasi un laboratorio dentro quel laboratorio più grande che è il NordEst della crisi, un NordEst post-postindustriale, continua infatti a vedere tra loro contrapposte idee, ideali e valori diversi.
Tutti gli abitanti della Valpolicella sono parte in causa, non soltanto gli attori istituzionali e gli imprenditori.

Il progresso in chiave industriale, che ha portato al cementificio (e non solo) oggi sembra perdente, ma non tutti vogliono rendersene conto. C’è chi non ha orecchi per intendere e c’è, come sempre, chi ha tutto l’interesse per non farlo.

La valle è infatti interessata a/e/da una nuova visione del progresso, così innovativa che fa tesoro del passato (agricolo) del territorio. Un progresso che non passa ma addirittura parte della valorizzazione del paesaggio, naturale e umano, o meglio, antropizzato: cultura del territorio, sapere contadino, turismo enogastronomico. Su tutto, la diminuzione del consumo del territorio, se non nel senso culturale del termine: bere Valpolicella e berne le storie, le tradizioni.

Sono questi i punti di partenza (la storia di Fumane) e arrivo (nuovi orizzonti della valle) di un documentario che si annuncia davvero interessante: Nevica d’agosto.
Prodotto dall’associazione culturale Nuvolanove (www.nuvolanove.it), in particolare dall’attrice e regista Lucilla Tempesti e dal giornalista Luca Martinelli, il documentario racconta la storia della Valpolicella attraverso la metafora delle diverse stagioni dell’anno.

Valpolicella - uveFiduciosi che l’ultima stagione del video, la primavera, risulti quella vittoriosa, il progetto si è già guadagnato il patrocinio di Slow Food Italia e quello del Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.

L’associazione Nuvolanove si è subito attivata anche nel partecipare agli eventi e alle manifestazioni che si susseguono in Valpolicella riguardo le “scelte” ambientali. Perché fare cultura oggi significa anche questo.

Il video non è ancora disponibile, perché attende il contributo di tutti: è infatti una “produzione dal basso” e l’associazione ha attivato diversi canali per raccogliere i fondi necessari a coprire almeno parte delle spese di realizzazione.
Chi sosterrà il progetto, oltre a ricevere copia del documentario, avrà subito in cambio i migliori prodotti della valle.
Sì, tranquilli, quando parliamo dei prodotti migliori parliamo dei vini, non del cemento. Lo avevate capito? Che il tesoro della Valpolicella stia nell’enogastronomia per fortuna ormai lo ha capito anche il progresso…

Per informazioni e per sostenere il progetto:

http://www.nuvolanove.it/n/spettacoli-2/video/nevica-dagosto/

http://www.nuvolanove.it/n/tag/nevica-dagosto/

I tangerine dreams del cibo di strada

cibo di strada a Tangeritesto e foto di Ornella Tommasi, da Tangeri

 

Il carrettino percorre i vicoli della vecchia Medina almeno due volte al giorno, con su quattro o cinque teglie impilate, per mantenere caldi gli strati sottostanti. Una moneta da 1 dirham, poco meno che 10 centesimi di euro, per una fetta di shruna, la regina dei cibi di strada qui a Tangeri, nel Nord del Marocco. Farina di ceci impastata con acqua, un filo d’olio, un passaggio rapido nel forno tradizionale di strada che le dà quel bel colore abbrustolito in superficie senza toglierle la consistenza morbida, quasi cremosa. I cibi viaggiano con gli uomini, e basta ricordarsene per risalire al pedigree di questa shruna, aggettivo arabo che sta per “calda”: “caliente” in spagnolo, a un solo braccio di 15 chilometri di mare da qui e, via via risalendo, “bell’e calda” in Liguria, “farinata” e “cecina” riscendendo di nuovo fino alla Toscana.
Non ne abbiamo le prove, ma ci piace immaginarcela come la traccia profumata e appetitosa lasciata da quel manipolo di genovesi sbarcati su questa costa africana al seguito di Garibaldi, in esilio volontario tra l’inverno del 1849 e la primavera del 1850.

cibo di strada a Tangeri

Il viaggio della shrouna finisce qui, inutile cercarla a Sud di Tangeri, città di frontiera da cui la Spagna si vede a occhio nudo, quando la luce è favorevole. La pastilla spagnola, triangolini di pasta sfoglia ripiena di carne di piccione, ormai quasi del tutto rimpiazzato dal pollo, aromatizzati alla cannella e spolverati di zucchero a velo, viaggia su un vassoio offerto ai passanti ma anche ai clienti dei caffè’ all’aperto o al chiuso: qui non vale l’interdizione dei “cibi propri” da consumare seduti al tavolo, la pratica è diffusa e per niente malvista. Cambi di poco la postazione, verso la grande piazza che segna il limite della città vecchia, e entri nel territorio delle lumache: altra tipologia di carrettino, pentoloni fumanti accanto alla pila di scodelline dove si versano assieme al loro brodo speziato e qualche stuzzicadenti per estrarle dal guscio a completare il kit. E volendo, anche se l’abbinamento non è dei più raffinati, un contorno di fave e ceci lessati venduti a cartoccetti, vago rimando ai lupini, la fusaja dei romani di una volta. Un po’ dovunque, in città, grandissima scelta di dessert: ciambelle, bomboloni, dolci al sesamo, pasticcini di mandorle. Niente a che vedere con le montagne di dolci sgocciolanti miele, gli sbakia tipici di Ramadan, il mese sacro che porta con sé tutto un menu caratteristico, di forte valore simbolico, specifico per la rottura del digiuno.

Ma per quello bisogna aspettare qualche settimana.

Di padre in figlio come nelle botteghe medievali: la Ferramenta Orini di via Imbonati

Ferramenta Orini, Milanodi Giorgia Rozza

Una wunderkammer di cinquecentesca memoria, piccola come lo studiolo di un nobile collezionista di bizzarre mirabilia, oppure una bottega che avrebbe fatto la gioia di un dadaista, zeppa di oggetti: alcuni riconoscibili anche a chi non è appassionato di bricolage, altri misteriosi. Parti di rubinetti, caschi da lavoro, pinze di ogni tipo, forbici per il giardinaggio, graffettatrici, crick per cambiare le gomme dell’auto, flessibili, chiodi, rivetti e bulloni sembrano accatastati in apparente disordine e invece al suo interno, un interno che odora di gomma e ferro, si muovono a completo agio Luigi Orini, classe 1942, calvo e accigliato e suo figlio Davide, 38 anni, un viso dolce e pulito sopra il camice blu di ordinanza.

C’è poco spazio per muoversi all’interno della Ferramenta Orini, perché di gente che compra ce n’è eccome e fa la fila nell’ingresso con il pavimento di marmo scuro disegnato a grosse losanghe e mai  sostituito dagli anni Quaranta. I clienti sembrano tanti perché lo spazio è ridotto, in realtà sono solo tre alla volta ma il flusso è contino. Anche se è facile immaginare che non spendano molto per quelle poche ferraglie che acquistano, impacchettate con cura in fogli di carta pesante da Luigi e Davide e poi chiuse con lo scotch, il lavoro non manca. Sono venticinque metri quadrati di negozio ma, tolto il bancone e gli altri mobili, non ci si muove quasi. Poi c’è l’ancor più piccolo retrobottega dove si fa fatica a entrare perché interamente occupato da sporgenti mensole sulle quali fanno bella vista di sé centinaia di scatolette di cartone impolverato di varie misure che contengono, mi dice Luigi, soprattutto bulloni.

Ferramenta Orini, Milano

Un’atmosfera d’antan quella che si respira dagli Orini che fa il curioso e singolare paio con quella dell’adiacente Posteria Bertelli ininterrottamente aperta dal 1939 sulla via Imbonati dove sono rimasti quasi solo questi due negozi italiani, guarda caso entrambi con una lunga storia familiare alle spalle. La ferramenta è un po’ più giovane: f,u aperta nel 1945, quando le bombe alleate smisero di fischiare sui cieli di Milano e la gente era in festa per la fine della guerra. “Non ho iniziato io questa attività” – dice Luigi mentre continua a lavorare senza guardarmi – “Io sono ferramenta perché lo erano i miei che, a loro volta, presero in mano l’attività dei miei nonni Anna e Felice che aprirono negli anni Venti un grande punto vendita in zona Porta Nuova. Allora, ovviamente, il negozio riforniva le aziende più che i privati. E lo facevo anche io in questa piccola bottega  fino agli anni Ottanta. Poi è arrivata l’era dei  grandi centri commerciali e le officine, le fabbriche e gli artigiani non si sono fatti più vedere qui.  A noi, da almeno vent’anni, è rimasta solo la vendita al dettaglio, al cliente privato”.

Ferramenta Orini, Milano

Ed è proprio verso la fine degli anni Ottanta che Davide, allora quindicenne, entra nel negozio di famiglia per imparare il mestiere. Non è solo l’aspetto della bottega che ha qualcosa di antico ma anche questo naturale passaggio del testimone da una generazione all’altra nella gestione della piccola azienda di famiglia. Una scelta in controtendenza quella di Davide la cui fede d’oro luccicante al dito contrasta un po’ con il  suo viso dai lineamenti infantili. La maggioranza degli adolescenti della sua generazione  non avrebbe fatto la sua scelta. Era la fine del decennio dell’apparenza e dell’euforia economica, dell’edonismo e del culto del divertimento. Anche del lavoro certo. Ma non del lavoro di ferramenta. I più avevano altro per la testa che chiudersi in una piccola bottega con papà per portare avanti quel mestiere che non offriva certo prospettive entusiasmanti. E quello era proprio il decennio dell’entusiasmo.  Era facile, per chi veniva da una famiglia minimamente abbiente fare le superiori e poi iscriversi in massa a quella facoltà così in voga in quel momento, quella che se non la facevi sembrava non volessi assicurarti un futuro prestigioso a livello professionale, personale ed economico: economia e commercio, i cui riti accademici si svolgevano nel capoluogo lombardo nei due “templi” della Bocconi e dell’Università Cattolica. “Ma io non avevo nessuna voglia di studiare” – dice Davide ridacchiando. Forse proprio questo l’ha salvato dal mito di cartapesta della finanza, di cui stiamo pagando il conto salatissimo tutti noi per lo meno da un quinquennio o forse più. Quando Davide era adolescente, tutti si immaginavano donne e uomini d’affari, o meglio, come si diceva allora, “in carriera” a fare interminabili riunioni e a girare con la ventiquattro ore il mondo salendo e scendendo dagli aerei per fare non si sa bene cosa. Lo facevano anche nei film culto del decennio come Wall Street, pellicola del 1987 interpretata da Michael Douglas, volto-icona  hollywoodiano del periodo.
Niente sogni di gloria per Davide  ma un tranquillo apprendistato nella bottega  paterna e qui le lancette del tempo sembrano andare ancora più a ritroso e riportarci nel mondo medievale delle gilde artigiane dove al padre succedeva automaticamente il figlio. Figlio che tuttora non ha una mail e lo dice sorridendo mentre  il padre, con gli occhi fissi su un aggeggio del quale non comprendo l’utilizzo, afferma orgoglioso che lui non ha nemmeno il cellulare.

Ferramenta Orini, MilanoPrima di andarmene cerco di sgusciare nel retro, scansando le tre persone che occupano interamente lo spazio della bottega. In fondo lì dò un po’ fastidio. Lì non si chiacchiera, si lavora. Un’ultima occhiata alla parete più interna del negozio e scorgo quella che potrebbe essere un’installazione artistica, questa volta contemporanea: una serie di piccoli cassettini di legno dalla perfetta geometria, laccati di vernice verde acqua con tante manigliette in ottone.  Mentre fotografo mi giunge la voce di Luigi: “Quella cassettiera  non è degli anni Quaranta ma degli anni Venti,  l’abbiamo recuperata dal vecchio negozio di Porta Nuova”. Non so se sia stata ridipinta, so solo che è tenuta perfettamente ed è bella, tinta di quel fresco colore, oltre a essere misteriosa perché evidentemente ogni cassettino contiene della ferraglia di tipo diverso da quella contenuta in quello attiguo.

Chissà come fanno Luigi e Davide a metterci le mani con competenza. Segreti del mestiere che solo loro conoscono. Per sapere se li conosceranno anche i figli di  Davide è troppo presto. Anche se la  storia aziendale incarnata nei muri di questa bottega sembra voler tornare indietro nel tempo, siamo giunti sul crinale della fine del potere mondiale dell’Occidente e immaginare il futuro, anche quello più immediato, è solo una chimera.

Le storie corrono lungo il fiume

di Graziella Reggio

FIUMI è un viaggio fotografico lungo i principali corsi d’acqua europei, seguendo il flusso vitale che scorre nelle vene del continente. L’acqua è libera, imbrigliata, di nuovo libera quando raggiunge il mare. Il fiume è fonte di energia, via di trasporto e di comunicazione, segna confini, può essere minaccioso, persino devastante. Allo stesso tempo si offre alla contemplazione, crea uno spazio di silenzio. Il corso modifica il paesaggio urbano e naturale, ne è modificato a sua volta. Con questo progetto, su cui lavoro dal 2008, intendo documentare i diversi tipi di paesaggio, cercando una bellezza momentanea, transitoria, discreta nel costante dinamismo, nella costante trasformazione. In genere preferisco la pellicola e una macchina manuale – un mezzo lento, che richiede concentrazione.

 

Le sorgenti del Danubio
Le sorgenti del Danubio

 

Il Danubio a Regensburg
Il Danubio a Regensburg

 

Il Danubio a Ulm
Il Danubio a Ulm 

 

Il Reno a Coblenza
Il Reno a Coblenza

 

Il Reno a Coblenza
Il Reno a Coblenza

 

Il Danubio in Serbia
Il Danubio in Serbia

 

Valle del Rodano
Valle del Rodano

 

Delta del Rodano, in Camargue
Delta del Rodano, in Camargue

 

Delta del Po a Gorino
Delta del Po a Gorino

 

Delta del Po a Gorino
Delta del Po a Gorino

 

Un ultimo assaggio del “me Milan”: la Posteria Bertelli

eldaierieoggidi Giorgia Rozza

Nella multietnica via Imbonati, la “posteria” Bertelli resiste. Dal 1938.

Classe 1939, Elda Bertelli non ha molto tempo da perdere in chiacchiere. Riccioli canuti ben tenuti e un pulitissimo grembiule ceruleo, deve preparare i panini per i dipendenti delle vicine aziende Mondialpol e Zàini, industria cioccolatiera in attività dal 1913. Elda, però, non è la proprietaria di un bar, come si potrebbe arguire. Gestisce il negozio di alimentari Eredi Bertelli snc in via Imbonati al civico 45 aperto da suo papà Paolo nel 1938 e continuamente in attività dall’inaugurazione.

Il negozio resiste in quella via Imbonati che, negli ultimi dieci anni ha visto chiudere, uno dopo l’altro, falciati dall’inesorabile decadenza del Vecchio Continente, quasi tutti i punti vendita italiani. Resiste in mezzo ai negozi di kebab e di pizze egiziane “all’aroma di cartone” consegnate al volo a domicilio in motorino, resiste tra le “cineserie” che mostrano dietro le vetrine oggetti in vendita a pochi euro e tra i negozi di telefonia dove chi è venuto qui può sentire la voce di chi è rimasto a Casablanca, al Cairo o a Bucarest.

L’alimentari Bertelli è un piccolo gioiello della Milano che fu, un luogo mitico per i nostalgici delle atmosfere cantate dal tristemente appena scomparso

elda2 Enzo Jannacci e da Ornella Vanoni, di quel “me Milan”, rigorosamente di genere maschile, che sembra proprio destinato a scomparire come una spettrale falce di luna in cielo quando viene giorno.

«Fino al 2000 la nostra insegna portava il nome di “posteria”, perché questo siamo. Poi abbiamo dovuto rifare le vetrine, che rischiavano di crollare, e abbiamo tolto quel nome che in pochi ormai conoscono sostituendolo con la scritta “salumeria” su una luce e “alimentari” sull’altra. E anche gli eleganti infissi in ferro battuto Liberty se ne sono andati per far posto ai nuovi materiali isolanti, meno belli ma più funzionali».

Già, Bertelli è proprio una posteria anche se non ne porta più il nome, come quelle dei paesini di montagna, dove dalla porta aperta entra aria fredda e pulita che si mischia al profumo del prosciutto e all’odore delle scatole di cartone appena aperte. Forse è rimasto l’unico negozio a Milano che vende un po’ di tutto: dagli alimentari ai detersivi, senz’altro è l’unico gestito dalla stessa famiglia dalla fondazione.elda1

L’aria che entra dalla porta qui non è certo pulita: è densa e fuligginosa, avvelenata dal traffico che si spintona lento verso Piazza Maciachini o verso Affori ma, per il resto, gli odori e i prodotti della posteria ci sono tutti. Mentre Elda affetta i salumi per farcire i panini vedo spuntare un’altra nota felicemente anacronistica: su uno dei due banconi campeggia un cestino di metallo traforato ricolmo di uova sfuse che sembrano appena tolte dal pollaio, in barba ai rigidi dettami del prodotto che deve portare la data di scadenza. E anche la disposizione dello scatolame sugli scaffali è rigorosamente piramidale come imponeva la moda della vetrinistica degli anni Settanta.

Ma gli inizi di questa posteria quali sono? «Mio papà Paolo Bertelli nacque a Gessate e aprì qui il negozio nel 1938. Era bellissimo, tutti dicevano che assomigliava all’attore Amedeo Nazzari» racconta Elda mentre le si illuminano gli occhi. «Iniziò l’attività insieme a sua moglie, mia madre Giuseppina Morson, friulana, quando aveva 24 anni. Non vendeva solo alimentari pronti ma faceva anche il pane nel forno a legna. L’anno dopo nacqui io. Poco dopo, dovette dire addio alla famiglia, o meglio arrivederci, e partì per la guerra come soldato semplice. Fu deportato in Germania dopo l’Armistizio e tornò a casa quando io avevo sei anni” ricorda ancora Elda che non smette di lavorare mentre parla, incarnando il più comune degli stereotipi sui milanesi.

eldaoggiE continua: «Mia madre tenne aperta l’attività per tutto il periodo dell’assenza di mio padre, sotto le bombe, senza sfollare. Rimase in città con me e mio fratello abitando nell’appartamento sopra il negozio, che è ancora di famiglia. Per fare il pane, negli anni della guerra,  andava a comprare la farina in bicicletta in un mulino a La Chiarella, rischiando ogni volta la vita. È morta solo un anno fa, anzianissima e felice, mentre mio padre è scomparso giovane, a soli 47 anni». Con Elda lavorano il figlio Paolo e la cognata Raffaella. Dice Paolo con un po’ di rammarico: «Una decina di anni fa sono arrivati i cinesi e ci hanno chiesto se volevamo vendere. Mia nonna Giuseppina ha detto di no. Ma non è facile resistere sul mercato, i guadagni sono risicati, siamo un piccolo negozio, non possiamo competere con le catene della grande distribuzione. Ma tiriamo avanti». Infatti, per il momento, di clienti ce ne sono. Anziani, che si sentono a loro agio, certo, ma anche giovani signore che alternano la spesa al supermercato a quella fatta qui, forse, chissà, per risentire l’atmosfera di quei pomeriggi lontani, a fare la spesa con una nonna che non c’è più.