Randagi

di Giorgia Rozza

Questa è la storia di Antonio. Ma è anche la storia di Marco e di otto cani di tutti e di nessuno, otto cani nati per caso sulla strada, destinati a ingrossare le fila dei randagi del Sud, venuti al mondo solo per macinare chilometri di asfalto, prati gonfi di zecche sui quali pascolano ancora le pecore, e sì, ci sono ancora i pastori come nei presepi.

Antonio e i suoi tre cani

Cani nati senza che nessuno lo chiedesse per masticare nelle discariche quei rifiuti che mantengono ancora un vago ricordo dei cibo che contenevano o addormentarsi senza forze su un marciapiede a prendere la loro unica benedizione: il sole.

Li chiamano randagi: sono quelli che passano la loro breve e scomoda vita schivati dai passanti (ma a volte si può cambiare una consonante senza tema di sbagliarsi e scrivere “schifati”) a difendere il loro pezzo di niente. Il destino non è stato gentile con loro. Come non è stato gentile con Antonio. Anche lui non ha niente e ormai difende solo se stesso, che in realtà proprio niente non è.

Antonio quanti anni abbia nessuno lo sa. Forse lo sanno quelli dei servizi sociali che hanno visto il suo documento d’identità, sempre ammesso che ce l’abbia. Già, perché anni fa l’avevano individuato come potenziale soggetto beneficiario del loro lavoro visto che nella vita di Antonio di “sociale” non c’è proprio nulla e loro sono lì per reinserirti in questa benedetta società.

Antonio si è anche fatto ricoverare per qualche giorno ma poi è scappato e non si è più fatto prendere. La gente che lo vede tutte le mattine, seduto sempre sullo stesso marciapiede di un quartiere periferico sul mare, dice che ha una cinquantina d’anni, ma è solo un’ipotesi. Quelle rughe che gli solcano il viso come gravine essiccate sono state incise dalla strada, dal sole e dal vino cattivo, quello che costa poco e che fa male, quello nei tetrapack di plastica che fa linguacce sguaiate e provocatorie al vino buono, Doc e persino Docg, il vino degli intenditori, degli enologi e dei sommelier, delle degustazioni mondane, dei viaggi stampa per i giornalisti, delle grandi fiere e del business, ora perfino con la Cina. Tanto per guadagnare si fa di tutto, compreso permettere che il proprio gioiello enologico a casa propria severamente abbinato soltanto con risotto al Castelmagno, salvia di campo e burro valdostano accompagni i wanton. La Cina è il futuro, lo dicono tutti. Quale e soprattutto come sia questo futuro, però, nessuno lo sa.

Antonio beve il vino “di plastica” e anche per questo è un “emarginato”, come direbbero i giornali. Ma ancora non ha gettato la spugna. Non si è accasciato a terra senza più voglia di vedere un’altra alba e di sentire il vento frizzante che l’accompagna; sta invece lì seduto, fermo per ore sullo stesso marciapiede, con le scarpe da ginnastica rotte.

Eppure, anche se tutti lo schivano (o “schifano”, è uguale), anche se l’unico amico che aveva è morto in ospedale dopo che qualche brava persona di cui i servizi sociali non si occupano gli ha dato fuoco mentre dormiva su una panchina, anche se dopo questo lutto Antonio non parla più con nessuno e scappa come una bestia braccata se gli si avvicina qualcuno che non conosce, qualche cosa di buono Antonio nella vita ce l’ha. Qualche cosa che, quasi quasi, se non fosse una bestemmia per molti, si potrebbe definire “sociale”. Antonio ha, o meglio aveva, la compagnia di otto cani. Ora sono rimasti in tre. Randagi come lui.

randagi

Cani che non si è scelto, che non è andato a microchippare, che non sono suoi, che non ha conquistato con il cibo. Sono i cani che hanno scelto lui. Cani che lo vogliono nel loro branco. E lo seguono ovunque. Anche quando il sole cala, il canto dei grilli si sostituisce a quello delle cicale in estate, il cielo si fa arancio e Antonio si addentra tra gli ulivi e i campi di grano e va “a casa”, un posto che nessuno ha mai visto. Un posto dove riposa i suoi

pensieri e le sue ossa stanche su un rozzo materasso ma che è solo per lui e i cani.

Otto cani non potevano stare con lui, in mezzo alla strada. La società ha regole diverse da quelle del branco. E allora è intervenuto Marco insieme alle forze dell’ordine. “Forza” e “ordine”…. Parole così lontane dalla vicenda esistenziale di Antonio il randagio. All’inizio Antonio odiava Marco perché lo vedeva con i militari in divisa e perché anche lui gli voleva togliere i cani. Poi, piano piano, ha capito chi è Marco.

Marco non è un randagio ma ai randagi sta dedicando la sua vita. Con forza, passione, instancabile energia, cuore e cervello in una sintonia che non “stecca” mai, come in una jam session venuta bene. E Antonio è un randagio. Marco l’ha convinto senza nessuna presunzione, con dolcezza e fermezza, che non poteva stare in strada con otto cani, tra i quali cinque femmine, che avrebbero sfornato decine di cuccioli. Marco gli ha chiesto di poterle portare in canile per la sterilizzazione e poi gli ha detto che gliele avrebbe riportate: “Promesso”.

E così è stato perché Marco è un uomo di parola e porta i suoi 44 anni con la solida sicurezza di essere nel pieno della vita, una vita che sa di spendere bene anche quando è stanco morto e gli sembra di n

on farcela più. Anche quando le donne gli dicono “O me o i cani”. Poi, però, la gente si è lamentata: i cani di “quello lì” (che non sono suoi in verità) corrono dietro le biciclette, spaventano i bambini e chi fa jogging il mattino presto. E allora Marco è tornato a parlare con Antonio e si sono accordati. Tre glieli avrebbe lasciati. E così è stato veramente e definitivamente.

Ma prima che si accordassero Antonio ha piegato il viso in una smorfia strana, spianando le labbra e stringendo gli occhi che sono diventati due fessure di mare. E Marco credeva che ridesse. E invece piangeva. Piangeva perché gli stavano togliendo i cani.

Ero in auto con Marco quando abbiamo visto Antonio. Io vengo dal Nord dove di cani in strada non se ne vedono perché quelli indesiderati li chiudiamo per pudore e “civiltà” dietro le sbarre di carceri dure che spesso non assicurano nemmeno il vitto e trasformano creature viventi in ergastolani emaciati e ululanti armati solo di occhi infiniti per penetrarti l’anima.

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Marco mi ha indicato Antonio, ha fermato l’auto e siamo scesi. Marco sorrideva, gli ha stretto la mano e gliel’ho stretta anche io. Ho notato le sue unghie lunghe come artigli, quasi fossero un’arma di difesa primordiale per proteggersi dalla gente, quel tipo di gente che ha ammazzato il suo amico. Anche Antonio sorrideva. Aveva con sé i tre cani del suo branco, quelli che la società ha consentito che vivessero insieme a lui.

Due piccoletti dall’aria fiera ci hanno guardato seri e vigili mentre ci avvicinavamo. Ci hanno lasciato fare ma vegliavano su Antonio come due leoni stilofori sul portale di una cattedrale romanica. Non so come sia possibile ma sono due cani bellissimi, ben curati, nutriti, con il pelo pulito, lo sguardo fiero. Uno grosso, un po’ più distante, si crogiolava nel sonno completamente rilasciato a terra.

Marco ha detto ad Antonio che era contento che ora fossero amici. Antonio ha annuito sorridendo ma non ha detto nulla. Marco gli ha allungato cinque euro, l’ho fatto anche io. Antonio era felice e stupito, ha sorriso e r

ingraziato. Marco l’ha salutato e gli ha ricordato di raccogliere e buttare nel cestino il tetrapack di plastica dal quale scendeva ancora un rivolo violaceo. Quel liquido di cui Antonio non può più fare a meno, quello a cui il “cattivo maestro” Baudelaire, come lo si definirebbe oggi in epoca di “politically correct” dedicò i versi: “Ubriacatevi. Di vizi o di virtù ma ubriacatevi”.

Poi ce ne siamo andati verso l’auto, verso il canile, il lavoro, i mille problemi da risolvere, verso la vita “sociale”. Ma prima di salire in auto mi sono girata un attimo e ho voluto dare un ultimo accorato sguardo a quel silenzioso quartetto. Nessuno si era mosso. Ma la Terra sì e non li inondava più di luce ma li aveva velati di una riposante ombra.