di Roberto Mottadelli
St. Louis, Missouri, Novembre 1952.
Fuori gli uomini del quartiere, stretti negli impermeabili scuri e aggrappati alle loro sigarette, mormorano il nome esotico dell’atollo di Bikini, immancabilmente seguito da quello assai più familiare di “Ike”. Ike Eisenhower.
Dentro, in una piccola palestra di periferia, rimbalza tra corde e pareti il sassofono triste di Jimmy Forrest. Cullato dal riff struggente di Night Train, un giovane pugile colpisce il suo sacco. Il ragazzo ha pugni enormi e occhi spenti. Fin troppo facile intuire che non gli importa nulla né del nuovo presidente degli Stati Uniti né dell’esplosione della prima bomba all’idrogeno.
Due uomini osservano compiaciuti i suoi movimenti. Sono Monroe “Muncey” Harrison e Frank Mitchell. Muncey ha un passato importante, è stato lo sparring partner prediletto dell’immenso Joe Louis e l’allenatore di Archie Moore.
In un angolo, con la sua bibbia in mano, sta seduto padre Edward Schlattmann. Accenna un sorriso quando nota lo sguardo soddisfatto di Harrison e Mitchell: sa che, se quei tre uomini si trovano in quella palestra, il merito è suo. E del Signore, ovviamente. Perché è stato Lui a metterlo sulla strada di quel ragazzo nero dai muscoli spaventosi.
Forse, per farli incontrare, il buon Dio avrebbe potuto scegliere percorsi meno accidentati, ma le sue vie sono infinite. E non sta scritto da nessuna parte che un carcere non possa rientrare nel grande disegno divino. Padre Edward è il cappellano della prigione di Jefferson City. Cerca di dare una mano ai poveracci che finiscono dietro le sbarre: ogni tanto ci riesce ed è felice. Questa volta è felice e orgoglioso, perché non era semplice ottenere il rilascio di Charles, offrire un’altra possibilità a un nero analfabeta condannato a cinque anni. Però lui ha saputo intuire le potenzialità pugilistiche di quel ragazzo e lo ha aiutato ad allenarsi, finché non è diventato il campione della prigione; e solo allora ne ha parlato al suo amico Muncey. Che, insieme a Frank Mitchell, direttore di un giornale locale e titolare di una piccola scuderia di pugili, gli ha trovato un lavoro e una stanza in città, requisiti indispensabili per ottenere la scarcerazione.
Mentre lo guarda bersagliare il sacco, il sacerdote pensa al giorno in cui Charles è arrivato nel “suo” carcere. Rivede quello sguardo muto e quelle cicatrici fresche sul volto. Segni che non c’erano, prima che Charles fosse arrestato dalla polizia di St. Louis: per i solerti agenti bianchi addetti agli interrogatori, convincerlo a confessare e a tradire i suoi amici doveva essere stato – come dire? – assai faticoso. Meno complicato era stato arrestarlo: la sua mole non passava inosservata; per giunta, lui aveva compiuto le sue rapine a mano armata e i suoi brutali borseggi da quattro soldi indossando sempre la stessa, riconoscibilissima, camicia gialla.
Il ragazzo conosceva solamente il suo nome, Charles L. Liston, ma non sapeva scriverlo. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva la data e il luogo di nascita dava una risposta differente: non perché volesse mentire, ma perché davvero ignorava dove e quando avesse visto la luce. Ogni volta pronunciava il nome di un diverso paese dell’Arkansas e indicava un giorno a caso, in genere compreso tra il 1928 e il 1932. Secondo lui, nemmeno sua madre Helen ricordava sotto quali stelle fosse nato. Quanto al padre, Tobe Liston, il taciturno Charles non lo nominava quasi mai; nelle rarissime circostanze nelle quali ne parlava, pronunciava la stessa frase: “l’unica cosa che il mio vecchio mi ha dato, sono le botte”.
Charles Liston, o “Sonny”, come lo chiamavano i compagni di galera, è uscito nella notte di Halloween; padre Edward è certo che ora sia in buone mani e che possa provare a giocarsi le sue carte in modo onesto.
Padre Edward si sbaglia. Non sa che Frank Mitchell, l’uomo che ha trovato lavoro a Sonny nella Vitale Cement Contractors, dietro una facciata da irreprensibile paladino della comunità nera nasconde compromettenti amicizie; non sa nemmeno che il signor John Vitale, titolare dell’omonima ditta, è il poco legale rappresentante degli interessi della mafia a St. Louis. Mettendo le mani su Liston, Mitchell ha fatto un grosso affare: con un’unica mossa si è procurato un pugile promettente e un gigante che odia la polizia, abituato a picchiare duro e a non fare troppe domande, perfetto per risolvere gli affari sporchi di John, il capo.
Per Sonny comincia una doppia vita. Da un lato una serie di combattimenti sui ring dei dilettanti, tutti vinti in pochi minuti con impressionante facilità; dall’altro, pestaggi notturni ai danni di chi cerca di opporsi alla cosiddetta organizzazione. Lo stesso sinistro di devastante potenza si abbatte su chiunque abbia la sventura di trovarselo di fronte.
In poco tempo Liston colleziona quattordici arresti, uno dei quali per aver picchiato a sangue un poliziotto, e un’infinità di vittorie per KO, una perfino sul campione olimpico dei pesi massimi Ed Sanders.
Ben presto Mitchell e Vitale decidono di cominciare a trarre profitto anche dall’attività legale di Liston e, dopo meno di un anno di preparazione, lo iscrivono tra i professionisti: il suo primo avversario va al tappeto dopo 33 secondi. I successi a ripetizione suscitano l’attenzione di uno dei capi della mafia di Chicago, Frank Carbo detto il Grigio. Carbo controlla gran parte della boxe americana e trae immensi profitti dalle scommesse sugli incontri e dai guadagni dei pugili che, più o meno legalmente, gestisce; nel loro numero entra anche Liston.
Sul ring Sonny è spaventoso. La sua forza è pari solamente alla sua rabbia. Gli avversari sono letteralmente terrorizzati dal suo sguardo e dalla sua mancanza di scrupoli. “Quello ti fa male quando ti respira addosso. Mi ha colpito come nessun uomo merita di essere colpito” dichiara Marty Marshall, che ha avuto la disgrazia di battere Liston in un match probabilmente truccato e che si è trovato contro la sua furia nell’incontro di rivincita. “Quando gli vengono le sue rabbie, c’è da aver paura solo a guardarlo”, afferma Foneda Cox, sparring partner e amico di Liston.
Fuori dal ring, il pugile trascorre il tempo in compagnia di alcuni degli individui meno raccomandabili di Chicago, con i quali beve, corre in automobile e spesso si trova a trascorrere noiose giornate nelle patrie galere. Violenze, oltraggi e resistenze alle forze dell’ordine, ubriachezza molesta e guida pericolosa sono solo alcuni dei reati che gli vengono contestati.
Liston sa che i soldi che Carbo gli concede sono una minima parte di quelli che il padrino ricava dalle borse e dai contratti televisivi dei suoi combattimenti. Ma non cerca di sottrarsi al controllo del boss; nipote di schiavi e figlio di emarginati sfruttati, sembra non contemplare nemmeno l’idea della libertà. Dà per scontato che ci sia sempre un uomo bianco a impartire ordini e a raccogliere i frutti del sangue e del sudore dell’uomo nero: lo ha imparato da piccolo, quando tagliava cotone nei campi.
Allora ha imparato anche che gli uomini si dividono in due categorie: quelli che vengono picchiati e quelli che picchiano. Sa che, soprattutto per un nero, l’unico modo per non prendere botte è darle, nella vita come sul ring. Per questo Sonny non boxa: combatte. Prima di ogni incontro pensa solamente a distruggere il corpo dell’avversario e lo dice a chiare lettere.
Il pubblico lo detesta. Lo odiano sia i bianchi, per i quali incarna i peggiori stereotipi del nero criminale, sia i neri, che non vogliono essere rappresentati da un analfabeta, per giunta pregiudicato e in stretti rapporti con la mafia.
Liston sarà anche analfabeta, ma capisce con straordinaria lucidità le ragioni dell’ostilità che suscita. Dichiara: “Esistono i buoni e i cattivi. Io sono cattivo. I cattivi dovrebbero perdere. Io rompo la regola: vinco”. La sua storia, la sua stessa persona sono nello stesso tempo un’intollerabile atto d’accusa per i bianchi e una provocazione per i neri alla ricerca di integrazione. Liston è la cattiva coscienza dell’America, l’incarnazione di un passato tanto tragico quanto recente, fatto di schiavismo e brutalità: un passato che tutti gli americani preferirebbero rimuovere.
Floyd Patterson, il detentore della corona dei pesi massimi, è invece amatissimo dal pubblico. Colto, gentile, emblema del nero emancipato, è sostenuto da tutti. Nessuno vuole che perda il titolo: per questo, nonostante le ripetute sfide di Sonny, i suoi manager e la stampa riescono per qualche tempo a evitare lo scontro tra i due. Ma Liston è di gran lunga il più forte tra i pretendenti e non può essere evitato in eterno.
Il 25 settembre 1962 Liston è in uno spogliatoio del Comiskey Park di Chicago. Il rumore del pubblico copre le note di Night Train: sono passati dieci anni dai tempi della polverosa palestra di Saint Louis, il blues si è evoluto e questa volta non è Jimmy Forrest, ma James Brown l’interprete dell’amata melodia. Nello spogliatoio accanto Floyd Patterson sente la paura montare nello stomaco. Sa che l’altro è più forte, ma non ha idea di quanto sia più forte. Sul ring, al cattivo bastano due minuti e sei secondi per stendere definitivamente il buono. Un anno più tardi, nell’incontro di rivincita, impiega solamente diciassette secondi in più.
Sonny Liston è il nuovo, indiscusso campione del mondo dei pesi massimi. Nessuno può batterlo: lo sostengono tutti gli esperti, a partire da Joe Louis, il più grande peso massimo della storia, e da Art Laurie, il più esperto arbitro di boxe in attività. Eppure il pubblico non si abitua all’idea che Liston sieda sul trono dei massimi. Un pugile con una fedina penale così sporca non può rappresentare gli Stati Uniti; soprattutto, non li può rappresentare un uomo che afferma di vergognarsi di essere americano, come fa Liston quando scopre che una bomba razzista ha ucciso quattro bambine di colore in una chiesa di Birmingham. Dopo l’assassinio di John Kennedy, la nazione ha un disperato bisogno di vedere vincere un bravo ragazzo per recuperare fiducia in se stessa.
Frank Carbo sa fiutare il vento e comprende che Sonny si sta trasformando in un cattivo affare.
Il 25 febbraio 1964 Liston sale sul ring per affrontare il giovane Cassius Clay, uno sfidante il cui talento è pari all’arroganza. Clay pare non avere la minima possibilità di vincere contro quello che lui stesso ha definito “un brutto orso cattivo”; sia il pubblico sia i giornalisti sono convinti che tra i due atleti non ci sia confronto: solo sedicimila persone pagano il biglietto per assistere all’evento.
Liston è nettamente favorito anche per bookmakers: alcuni quotano la sua sconfitta 5,5 a 1, altri addirittura 8 a 1. Ma pochi minuti prima dell’incontro, nello stesso istante, le ricevitorie di diverse città registrano puntate esorbitanti su Clay: la quota di Liston si riduce improvvisamente a 2 a 1. Chi frequenta il pugilato non ha bisogno di spiegazioni per comprendere quello che sta accadendo e per intuire come finirà il match. Gli uomini di Carbo hanno scommesso una fortuna sullo sfidante e lo sfidante vincerà. Carbo non perde mai i suoi soldi.
All’inizio del settimo round Sonny resta fermo al suo angolo e dice all’arbitro di essersi infortunato a un braccio. Liston, l’orso che ha saputo combattere anche con la mascella fratturata, si ritira a causa di un presunto tendine dolorante.
La combine è fin troppo evidente. Viene aperta un’indagine ufficiale che, secondo le migliori tradizioni, non approda ad alcun risultato: il popolo è felice, questo è ciò che conta. Gli Stati Uniti hanno il loro nuovo campione, un giovane, moderno, che sa parlare e cura la sua immagine. Gli Stati Uniti ancora ignorano che quel ragazzo si è convertito all’Islam e che presto si rifiuterà di prestare servizio in Vietnam.
L’inevitabile incontro di rivincita tra Liston e Clay, che ora si fa chiamare Mohammed Ali, crea grossi problemi a chi lo deve organizzare. Nessun grande impianto vuole ospitare la riedizione della farsa di febbraio, nessuno è disposto a pagare il biglietto per vedere uno spettacolo dall’esito scontato. Il match viene organizzato nella piccola città di Lewiston, con la miseria di 2432 spettatori sugli spalti. Il 25 maggio 1965, al terzo pugno scagliato da Ali (un pugno che a giudizio di molti non raggiunge nemmeno il bersaglio), Liston cade goffamente al tappeto. È il più improbabile e plateale dei KO, subito per giunta al primo round.
Pochi giorni dopo la sconfitta, Sonny è seduto in un bar. Chiacchiera con i soliti amici, uomini duri, gente con un passato e un futuro dietro le sbarre. Gente che ripensa a quando, un anno prima, Clay era entrato nel loro locale per fare una delle sue piazzate da pagliaccio. Quel ragazzino se l’era letteralmente fatta sotto quando Sonny si era voltato con il suo sguardo da assassino e la stecca da biliardo in mano. Sonny non aveva avuto bisogno di dire nemmeno una parola, oltre a quel “porta il tuo culo nero fuori di qui” pronunciato a mezza voce.
Ora gli amici sono perplessi. Non perché il campione abbia perso contro quel provocatore: conoscono le regole del gioco, sanno bene che, anche volendo, Liston mai potrebbe opporsi agli ordini di Carbo, perché solamente il mafioso di Chicago è in grado di tenerlo fuori dal carcere. Questione di avvocati, conoscenze altolocate e capacità di mettere a tacere i testimoni più scomodi. Piuttosto, sono stupiti dal suo atteggiamento, si aspetterebbero di vederlo più inquieto e rabbioso dopo la perdita del titolo.
Ma Sonny ha una buona ragione per essere così sereno. Poco prima del primo incontro con Clay ha firmato un contratto con i manager dell’avversario. Gli amici non sanno nulla, ma quel contratto gli assegna una ricca percentuale sugli incassi delle prossime sfide del rivale. Liston non ha studiato, però ha capito che gli incontri di un nuovo campione, giovane e amato dalla folla, sono assai più redditizi di quelli di un vecchio orso mal sopportato da tutti. La sconfitta, almeno in teoria, è stata un affare: perdendo, si è posto nelle condizioni di guadagnare più di quanto avrebbe potuto fare conservando il titolo. Liston, forse per la prima volta nella vita, avverte la sensazione di essere un uomo ricco e soprattutto libero.
Ma nessun individuo può sfuggire al suo destino, e le stelle che splendevano sulla nascita di Sonny, in qualsiasi giorno essa sia avvenuta, non sono le stesse che brillano nel cielo degli uomini felici.
Nel 1967, a causa delle posizioni assunte circa la guerra del Vietnam, Mohammed Ali viene privato del titolo ed escluso dal mondo della boxe; per quattro anni non guadagna un dollaro. Liston si ritrova costretto a continuare a soffrire sul ring, ad affrontare di nuovo l’ostilità della stampa e del pubblico. Nonostante le continue vittorie, e nonostante i 72 punti di sutura al volto ai quali, nel giugno 1970, deve ricorrere uno dei suoi avversari (il quotato Chuck Wepner), nessuno gli concede la possibilità di battersi per la riconquista del titolo più prestigioso.
Il 6 gennaio 1971 Sonny Liston è disteso sopra un tavolo di marmo in un ospedale. Accanto a lui c’è il medico legale della Palm Mortuary di Las Vegas. Il coroner sta scrivendo un referto nel quale spiega che Sonny è morto da alcuni giorni per anossia miocardica, probabilmente causata da un’overdose di eroina. Sul suo foglio annota molte altre cose, per esempio che sulla schiena di Sonny ci sono tracce di frustate inflittegli molti anni prima, probabilmente quando era ancora bambino.
Quel foglio e la successiva indagine della polizia raccontano molte cose sulla vita di Liston, ma non spiegano in modo esaustivo né quando né perché il campione sia morto. Per esempio, non dicono come mai un poliziotto abbia dichiarato di aver visto Liston vivo il 30 dicembre 1970, mentre secondo i risultati dell’indagine sarebbe morto il 29. Non chiariscono come solo pochi mesi prima un presunto tossicodipendente sull’orlo dell’overdose abbia potuto distruggere un atleta di razza come Wepner. Soprattutto, non dicono come avrebbe potuto iniettarsi dell’eroina un uomo che aveva un terrore patologico degli aghi, secondo quanto testimoniano tutti gli amici e i medici che in diversi momenti sono stati accanto a Sonny. Liston, infatti, non si sottoponeva ad anestesia nemmeno per le devitalizzazioni dei denti; un medico afferma addirittura di aver rischiato di essere preso a pugni mentre, poco tempo prima, tentava di iniettargli dei farmaci in seguito a un incidente automobilistico.
Curiosamente, nessuno dei detective che indagano sulla morte di Liston osserva che, dopo quattro anni di esilio forzato, proprio in quei giorni Mohammed Alì sta ottenendo la possibilità di tornare sul ring. I suoi manager si apprestano a firmare contratti milionari.
Il 9 gennaio 1971 gli amici di una vita accompagnano la salma di Sonny Liston nel Paradise Memorial Garden di Las Vegas. Qualcuno di loro pensa a quanto Sonny sarebbe felice di sapere che al suo funerale c’è, in lacrime, anche la grande Ella Fitzgerald.
Davanti agli occhi dell’interprete di St. Louis Blues, sulla tomba del campione viene deposta una lapide sulla quale compare solamente la scritta “a man”. Forse è giusto così, che l’ultimo degli schiavi giaccia sotto una pietra anonima.
(Per la prima immagine: Sonny Liston to Challenge Floyd – Boxing February 12, 1962 credit: Mark Kauffman – contract; per la seconda: Boxer Sonny Liston winner heavy weight bout, photo by Robert W. Kelley//Time Life Pictures/Getty Images; per la quarta: www.britannica.com)