Umori d’Albione: Il libro dei nonsense di Edward Lear

Lear, libro dei noinsensedi Martino Negri

Alice cominciava a non poterne più di stare sulla panca accanto alla sorella, senza far niente; una volta o due aveva provato a sbirciare il libro che la sorella leggeva, ma non c’erano figure né dialoghi, «e a che serve un libro», aveva pensato Alice, «senza figure e senza dialoghi?» [1]

Il libro dei nonsense di Edward Lear, finalmente pubblicato da Einaudi in edizione economica [2], con testo a fronte, è una raccolta di brevi componimenti in versi accompagnati da altrettante vignette disegnate dall’autore, alle quali i primi sono indissolubilmente legati. Caratterizzati da una medesima, rigorosa struttura compositiva e da un gusto letterario eminentemente ludico, i limericks – come sono universalmente conosciuti, sebbene Lear non li abbia mai chiamati in tal modo [3]– si inseriscono nella ricca tradizione britannica della letteratura nonsense: scevra da ogni impegno di natura didascalica o morale e intesa piuttosto al puro diletto degli occhi e del pensiero.

Lear iniziò a disegnare «buffi animali e omini, spesso accompagnando i disegni con versucoli scherzosi, che rappresentano il seme delle future rime nonsensical»[4], negli anni ’30 dell’Ottocento, a uso e consumo dei nipoti e pronipoti di Lord Stanley, dodicesimo conte di Derby, dal quale aveva ottenuto l’incarico di raffigurare gli animali che vivevano nel serraglio della sua tenuta di Knowsley Hall.

Pubblicati tra il 1846 (A Book of Nonsense) e il 1871 (More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.), ilimericks di Edward Lear, o learics come alcuni li chiamano [5], sono considerati un classico della letteratura britannica per l’infanzia.
Il merito di Lear fu quello di portare a una più rigida codificazione, nonché a una maggior diffusione, una forma letteraria che affondava le sue radici nella tradizione orale – filastrocche, ninna-nanne – ma che aveva, già al suo tempo, conosciuto l’onore della carta stampata; tra il 1820 e il 1822 erano infatti comparsi tre volumetti di poesie illustrate che presentavano la struttura metrica e i temi tipici dellimerick leariano: The History of Sixteen Wonderful Old Women, illustrated by as many engravings: exhibiting their principal Eccentricities and Amusements (1820), Anecdotes and Adventures of Fifteen Gentlemen (1821) e Anecdotes and Adventures of Fifteen Young Ladies (1822)[6], i quali si inserivano nel contesto dello straordinario sviluppo che la prima editoria illustrata di massa – appoggiata «sull’invenzione e la messa a punto della litografia e sul perfezionamento della tecnica riproduttiva delle incisioni su legno» [7]– ebbe proprio nel terzo decennio del XIX secolo.

Il limerick, dunque – inteso come forma poetica mista di versi e disegni, con caratteristiche formali e tematiche riconoscibili e costanti – esisteva già molto tempo prima che Lear cominciasse a scriverne, anche se furono proprio i suoi a decretare il definitivo successo e la straordinaria diffusione del “genere”. Consistenti in singole strofette di cinque righe[8], con versi a ritmo giambico anapestico – comune nella poesia ‘umoristica’ inglese – e schema di rime aabba, ilimericks hanno tre versi di tre piedi (i primi due e l’ultimo) e due più brevi, di soli due piedi (terzo e quarto verso).

There was an Old Person of Pinner,
As thin as a lath, if not thinner,
They dressed him in white,
And roll’d him up tight,
That elastic Old Person of Pinner. [9]

Ogni composizione introduce un personaggio bizzarro che agisce o patisce situazioni che esorbitano dalla sfera della logica e del buon senso comune, lasciando il lettore di stucco. L’eccentricità di comportamenti o situazioni è il perno intorno al quale ruota il meccanismo del divertimento; ma a innescarlo sono il tono del racconto – «ovvio, tranquillo, privo di qualsiasi moto di stupore» [10] – e la presenza dei disegni, che danno corpo visibile al cortocircuito logico suggerito dalle parole. Significativo, in questo senso, appare il titolo della più antica raccolta dilimerick conosciuta – la già citata Storia di Sedici Meravigliose Vecchiette, illustrate con altrettante incisioni: le quali mostrano le loro principali Eccentricità e Spassi – nel quale è sottolineata l’importanza che in tale forma poetica assumono sia l’elemento visivo (le incisioni, tante quante sono le storie) sia il motivo dell’eccentricità, ovvero di una distanza dalla norma che disorienta e produce allegria, divertimento. Lear stesso decise di aprire il suo primo volume di rime ‘senza senso’ con un limerick che pare quasi una dichiarazione di poetica:

Lear, libro dei noinsenseThere was an Old Derry down Derry,
Who loved to see little folks merry;
So he made them a book,
And with laughter they shook
At the fun of that Derry down Derry.[11]

Egli dunque non inventò il “genere”: si limitò piuttosto a perfezionare ciò che la tradizione gli offriva, limitando le varianti possibili allo schema di base e accompagnando i versi con illustrazioni stilizzate e surreali, connotate – in senso espressivo – assai più di quelle presenti nelle prime raccolte pubblicate. Ed è facile notare come la maggior parte dei limericksleariani non solo segua rigorosamente lo schema di rime e il ritmo stabiliti dalla tradizione, ma utilizzi anche alcune “formulae verbali” – come le chiama Marco Graziosi – ricorsive e limitate [12].

Il primo verso introduce il personaggio, del quale – o della quale – è generalmente indicato il luogo di provenienza o quello in cui si sviluppa la sua azione:

a) There was an Old Man of the Hague,

b) There was an Old Man in a Marsh

Nel secondo verso trova spazio la caratterizzazione del personaggio, del quale si raccontano abitudini insolite o particolarità fisiche e d’indole:

a) Whose ideas were excessively vague;

b) Whose manners were futile and harsh;

Terzo e quarto verso sono in genere strettamente narrativi, assumendo addirittura, spesso, la forma dialogica: mentre il primo e il secondo verso offrono una visione in qualche modo extra-temporale del personaggio, questi ultimi lo collocano in un punto preciso del tempo, il momento cruciale della sua fulminea esistenza, quello, anzi, in cui il suo destino pare compiersi e trovare un senso o, ancor meglio, un ‘non senso’.

a) He built a balloon
To examin the moon,

b) He sate on a Log,
And sang Songs to a Frog,

L’ultimo verso, infine, ricalcato sul primo, chiude la composizione riportando l’attenzione sul personaggio, al quale viene ora attribuito un aggettivo nel quale, come in un emblema, sia racchiusa la sua natura più profonda.

a) That deluded Old Man of the Hague.[13]

b) That instructive Old Man in a Marsh. [14]

Edward LearSignificativa – tra le ‘formule verbali’ ricorrenti – quella iniziale, ‘There was…’: presente in tutti i limericksleariani, la sua funzione è la stessa che riveste, nelle fiabe di ogni tempo, l’espressione italiana del “C’era una volta…” [15] , ovvero di introdurre il lettore in un mondo altro, una dimensione parallela ma distanziata nello spazio e nel tempo, in cui non vigono le categorie, immaginative e razionali, alle quali abitualmente ci si attiene.
L’universo in cui vivono i personaggi di Lear, infatti, è «l’incongruità trionfante. È l’assurdo trasportato in un’atmosfera poetica. È una felice vacanza dal mondo dei sensi, un rapido scorcio d’un altro mondo…»[16].

Un rapido scorcio di un altro mondo, scrive John Boynton Priestley, utilizzando un’espressione che se da un lato sottolinea l’immediatezza, la rapidità con la quale Lear riesce a tratteggiare i suoi personaggi – la cui vita pare condensarsi in un unico gesto o avventura emblematici – dall’altro induce alla tentazione di accostarlo a un suo contemporaneo francese, inventore anch’egli di universi paralleli: Grandville, che dava alle stampe il suo libro più complesso, il celebre e bellissimo Un autre monde, nel 1844, giusto un paio d’anni prima del Book of Nonsense di Lear.
Fitta, in entrambi, la presenza di pesci, uccelli e altre bestie con i quali una varia umanità interagisce, dando vita a situazioni paradossali, o ai quali le persone finiscono per assomigliare [17]: eppure Lear non si serve degli animali, come invece fa Grandville, per portare avanti un discorso fortemente polemico – per quanto stemperato dalla satira – nei confronti della società del suo tempo [18].

Legata senza dubbio alle inclinazioni personali dell’artista, che fin dalla prima giovinezza s’era distinto per le sue abilità nella raffigurazione del mondo zoologico, la forte presenza di animali nei limericksleariani è dovuta anche, io credo, al peso di una tradizione favolistica millenaria nella quale – si pensi anche solo a Esopo, oppure a Fedro – proprio loro sono i protagonisti delle storie: con la differenza che nessuna intenzione didascalica, moralistica o pedagogica, muove l’estro di Lear, per il quale parole e figure sono semplicemente trampolini di lancio per qualche felice capriola del pensiero.

There was an Old Man who said, ‘Hush!
I perceive a young bird in this bush!’
When they said, ‘Is it small?’
He replied, ‘Not at all!
It is four times as big as the bush!’ [19]

Oppure

There was an Old Person of Skye,
Who waltz’d with a Bluebottle Fly:
They buzz’d a sweet tune,
To the light of the moon,
And entranced all the people of Skye. [20]

Edward LearNel 1861 A Book of Nonsense venne pubblicato in edizione ampliata e fu accolto con straordinario favore dal pubblico: tale successo segnò la consacrazione definitiva della forma poetica e dell’uomo che l’aveva saputa coltivare e distillare, Edward Lear, consideratone spesso non solo il maestro, ma addirittura l’inventore. Da quel momento in poi il genere ha conosciuto sempre più estimatori, e non solo fra i comuni lettori, ma anche fra i grandi della letteratura contemporanea, che ne sperimentarono spesso, e con gusto, anche la declinazione erotica o addirittura triviale [21]:

There was a young plumber of Leigh
Who was plumbing a girl by the sea.
She said: “Stop your plumbing,
there is somebody coming!”
Said the plumber, still plumbing, “It’s me!” [22]

In qualche misura debitore di Lear è persino, io credo, l’americano Tim Burton, che nel 1997 pubblicava The Melancholy Death of the Oyster Boy & Other Stories, uno scarno volumetto di poesie illustrate che si presenta come una galleria tragicomica di creature allucinate ed emarginate, delle quali sono raccontate le vicende amare e straordinarie: ogni poesia introduce un personaggio ed è accompagnata da uno o più disegni dell’autore, a seconda della sua lunghezza [23];ma se in Lear ogni cosa pare fatta d’aria e di luce, di scintilla e di sorriso (anche laddove la morte fa la sua comparsa), in Burton è tutto ctonio e caliginoso, intriso d’angoscia esistenziale e solitudine:

There once was a morose melonhead,
who sat there all day
and wished he were dead.

But you should be careful
about the things that you wish.
Because the last thing he heard
was a deafening squish. [24]

E d’altra parte, lo humour che pervade i suoi versi tende a essere tetro più che nero, a volte persino raccapricciante:

The Boy with Nails in his Eyes
put up his aluminium tree.
It looked pretty strange
because he couldn’t really see. [25]

Libro delle follieIn Italia la fortuna del limerick è iniziata molto più tardi che in Inghilterra, naturalmente. I pochi che ne conoscevano l’esistenza li facevano girare tra gli amici[26], componendone magari a loro volta, soprattutto di salaci, ma fu proprio Carlo Izzo, traduttore nonché curatore dell’edizione tascabile Einaudi, a darne per primo notizia al pubblico, nel 1935, sul numero di novembre dell’Ateneo Veneto:
E fu ancora Izzo a portare a compimento la prima traduzione in lingua italiana di tutti i limericks del poeta britannico, pubblicata nel 1946 dalla casa editrice Il Pellicano di Vicenza con il titolo di Il libro delle follie [27]; nel 1954 l’editore fiorentino Neri Pozza – che un paio d’anni più tardi avrebbe pubblicato la prima edizione della Bufera di Montale – ne rimise in circolazione [28]le copie invendute, ritirate poco tempo prima dall’editore vicentino che aveva chiuso i battenti.
Nel 1970, infine, Einaudi ripubblicò la traduzione di Izzo – con testo originale a fronte – nella prestigiosa collana “I millenni”, sancendone definitivamente il successo anche nel bel paese [29]: nella stessa collana figuravano i maggiori classici della letteratura per l’infanzia, dalle favole di La Fontaine alle fiabe dei fratelli Grimm, da L’isola del tesoro di Stevenson alGiro del mondo in ottanta giorni di Verne [30].

Era stato nell’autunno tragico del 1943 che Izzo, su sprone di alcuni amici[31] aveva deciso d’imbarcarsi nel progetto della traduzione completa dei limericksleariani, trasformando in una sorta di dovere morale quello che fino a quel momento era stato solo un divertimento privato, un’occasione, tutt’al più, per amicali buffi parlamenti. Nel dicembre dello stesso anno aveva già terminato la traduzione. Una traduzione che è diventata, a sua volta, un “classico” della nostra letteratura, nonostante l’inevitabile perdita – nel passaggio alla lingua italiana – di tutta una serie di elementi di natura ritmico musicale nei quali risiede una parte non certo esigua del fascino originario dei limericks.

Perché leggere, oggi, le poesie nonsensical di Edward Lear? Raccontano ancora qualcosa della realtà che ci circonda? L’hanno mai fatto? Non lo so. Eppure sono convinto che leggere – o rileggere – oggi Il libro dei nonsense potrebbe rivelarsi una sana operazione di igiene mentale: viviamo in un’epoca in cui l’oppressione dell’individuo si manifesta in forme più sottili e subdole di quando un gruppo d’amici convinceva un giovane studioso di letteratura inglese a tradurre un’opera folle e intraducibile. Il pregio maggiore del volume di Lear è forse proprio quello di essere semplicemente un libro, un bel libro scritto con piacere, con amore per le parole e i disegni. Punto.
«Ehi! – direbbe molto probabilmente Alice – Ci sono dialoghi… e anche figure!»
Cosa si può desiderare di più da un libro?

Note

1 L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Milano, Longanesi, 1971, p. 27.



2 E. Lear, Il libro dei nonsense, Torino, Einaudi, 2004. Il volume è stato curato e tradotto da Carlo Izzo.



3 Lear chiamava queste sue composizioni nonsense rhymes o anche nonsense rhymes and pictures; e d’altra parte, la parolalimerick compare per la prima volta – a quanto scrive l’Oxford English Dictionary – in una lettera di Aubrey Beardsley nel 1896, quando Lear era già morto da alcuni anni.



4 C. Izzo in E. Lear, op. cit., p. XIX.



5 Learic deriva dalla fusione di Lear e di lyric (che in inglese significa poesia, lirica) e vorrebbe indicare un genere di poesia – il limerick appunto – avvertita come specificamente leariana; non dimentichiamo, tuttavia, che i limericks non rappresentano che una porzione della ben più ampia produzione letteraria e figurativa dell’autore.



6 Tutte le informazioni sulla storia e l’evoluzione del limerickcome forma poetica sono desunti dal saggio di Marco Graziosi e da altri suoi contributi presenti nel sito: www.nonsenselit.org/Lear/index.html.



A. Negri, Grandville, in Grandville, Un autre monde, Milano, Mazzotta, 1982 (ristampa anastatica dell’omonimo volume pubblicato nel 1844), p. V.



8 A volte, per fare economia di spazio i versi vengono stampati in tre righe, accorpando il primo col secondo e il terzo col quarto, oppure in quattro, unendo solo il terzo col quarto: in tali casi, naturalmente i versi neonati presenteranno una rima al mezzo.



9 «C’era un vecchio di Corfù/ Sottile come un’asse e forse più;/ Gli misero un càmice bianco/ E lo arrotolarono su tutto quanto,/ Quell’elastico vecchio di Corfù». ». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 256-7.



10 C. Izzo, Umoristi inglesi, Torino, Eri, 1962, p. 71.



11 «C’era un vecchio Din Din di Rindini/ Cui piaceva veder ridere i bambini;/ Fece allora un bel libro coi pupazzi,/ Fin che risero tutti come pazzi/ Alle trovate di quel Din di Rindini». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 2-3.



12 Graziosi nota, ad esempio, che l’aggettivo old (vecchio) è quasi invariabilmente associato a man (uomo) o person(persona), laddove young è sempre associato a lady (signora) o, in alternativa, a person; person – prosegue – è la variante bisillabica di man, utilizzata da Lear per ragioni di natura ritmica e metrica quando la parola che indica il luogo di provenienza è monosillabica o bisillabica ma accentata sulla prima sillaba (l’assenza di una variante monosillabica per lady spiegherebbe a questo punto la predominanza di figure maschili nei limericksleariani). La prima linea – conclude Graziosi – segue dunque uno schema semplice e rigoroso nella stragrande maggioranza dei casi (88 su 112 in A book of Nonsense e 84 su 100 in More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.):

There was    a(n)     Old         Man     of     X
Young      Lady
Person


13 «C’era un vecchio di Praga/ Dalla mente quanto mai vaga;/ Costruì un aeronave di fortuna/ Per osservare la luna,/ Quell’illuso vecchio di Praga». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 150-1.i>



14 «C’era un vecchio di Palude/ Di natura futile e rude;/ Seduto su di un rocchio/ Cantava stornelli a un ranocchio,/ Quel didattico vecchio di Palude». Ivi, pp. 258-9.



15 Dal “C’era una volta” delle fiabe tradizionali, che già Collodi, nella seconda metà dell’Ottocento, citava come formula costituita (e in questo senso possibile oggetto di parodia, oppure variazione) – «C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.» – all’analoga espressione ingleseOnce upon a time… con la quale si apre – nel contesto della mitologia contemporanea – una delle saghe cinematografiche più amate di tutti i tempi, quella di Star Wars: «Once upon a time/ in a galaxy so far…». G. Lucas, Star Wars, Twentieth Century Fox, 1977.



16 J.B. Priestley, citato in C. Izzo, Umoristi inglesi, cit., p. 75.



17 Ciò accade in 37 limerick su 109 nella sua prima raccolta e in 39 su in 103 nell’ultima. Sarebbe interessante a questo proposito indagare se Lear avesse maturato interessi fisiognomici analoghi a quelli goethiani o se semplicemente si divertisse a rimarcare i tratti comuni di uomini e bestie.



18 «Animali vestiti da uomini raccontano i vizi, le passioni, le debolezze, le idiosincrasie del tempo. Ma dietro il tono da favola, che oggi più facilmente si coglie, le tavole di Grandville erano già ricche di allusioni politiche così precise da essere immediatamente vietate dalla censura». A. Negri, op. cit., p. V.



19 «C’era un vecchio di Brusuglio/ Che scoprì un uccellino in un cespuglio;/ Quando gli chiesero: «È ancora da nido?»/ «No, davvero! – rispose indispettito – / È quattro volte più grande del cespuglio!». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 158-9.



20 «C’era un vecchio di Ripatransone/ Che valzeggiava con un moscone:/ Zufolavano amabili ballate/ Sotto la luna d’estate,/ E incantavano tutta Ripatransone». Ivi, pp. 420-1.



21 Scrissero limericks persino James Joyce e Isaac Asimov.



22 «C’era un giovane idraulico di Leigh/ che stava impiombando una ragazza in riva al mare./ “Fermati – disse la ragazza –/ qualcuno sta venendo!”/ Rispose l’idraulico, senza fermarsi, “Sono io!”». Si tratta di un limerick che si regge principalmente sul meccanismo del doppio senso: da quello più banale del verbo to come (venire), a quello difficilmente traducibile del verbo to plumb, che significa sia ‘impiombare’ ovvero ‘sigillare con il piombo’ (il termine, tecnico, è legato al mestiere dell’idraulico, ma è anche ampiamente utilizzato, in senso metaforico, per indicare l’atto sessuale), sia ‘scandagliare’ ovvero ‘misurare la profondità’ di qualcosa, che arricchisce la scena con ulteriori sfumature di senso. È stato attribuito a William Cosmo Monkhouse (1840-1901), autore di svariate raccolte di versi, tra le quali una intitolata proprioNonsense Rhymes (London, R. Brimley Johnson, n. d.), illustrata da Gilbert Chesterton.



23 A differenza dei limericks leariani, le poesie di Tim Burton non rispettano un rigoroso schema compositivo né ritmico e hanno lunghezze molto variabili.



24 «C’era una volta una cupa testa di melone/ che se ne stava seduta tutto il giorno/ desiderando d’essere morta./ Ma bisogna fare attenzione/ con le cose che si desiderano./ Perché l’ultima cosa che sentì/ fu un assordante squish». Melonhead, in T. Burton, The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, New York, Morrow, 1997, pp. 94-5.



25 «Il ragazzino con i chiodi negli occhi/ montò il suo albero di alluminio. / Aveva un aspetto assai strano/ perché egli, in verità, non poteva vedere». The Boy with Nails in his Eyes, in T. Burton, op. cit., pp. 22-3.



26 Fosco Maraini, ad esempio, racconta di averli usati come espediente per tener desta l’attenzione dei suoi allievi d’inglese, i cadetti dell’Accademia Navale di Livorno. Cfr. F. Maraini, Case, amori, universi, Milano, Mondadori, 1999, p. 260.



27 Ne furono stampate solo mille copie, centocinquanta delle quali numerate e rilegate.



28 Con una nuova copertina.



29 Altre traduzioni italiane sono quelle di Renato Bellabarba (Nonsensi, Roma, G. Bardi, 1961) e Ottavio Fatica (Limericks, Roma-Napoli, Theoria, 1994; Einaudi, 2000); nel 1972 era anche uscita un’edizione Einaudi con illustrazioni di Luciana Rosselli (Poesie senza senso, Torino, Einaudi, 1972).



30 E d’altra parte, con il diffondersi del genere, anche l’Italia, come tutti gli altri paesi del mondo, ha conosciuto estimatori dellimerick salace. Tra i tanti, l’ubiquo Federico Gobbo, fondatore – al principio degli Novanta – della Società dei Poeti Viventi: percelebre addirittura il suo limerick dedicato all’amica di Nonna Speranza di gozzaniana memoria: «Ormai vecchia e rugosa è l’amica/ di Nonna Speranza, grommata la fica/ dal gusto un po’ amaro/ ch’appasta i baffi, raro/ aroma antico d’anziana e d’amica».



31 Tra i quali anche il futuro editore Neri Pozza: si tratta di Aldo Camerino, Manlio Dazzi e Antonio Pellizzari. Izzo ne parla in un passo della sua introduzione al volume. Cfr E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. XXII-III.

I tangerine dreams del cibo di strada

cibo di strada a Tangeritesto e foto di Ornella Tommasi, da Tangeri

 

Il carrettino percorre i vicoli della vecchia Medina almeno due volte al giorno, con su quattro o cinque teglie impilate, per mantenere caldi gli strati sottostanti. Una moneta da 1 dirham, poco meno che 10 centesimi di euro, per una fetta di shruna, la regina dei cibi di strada qui a Tangeri, nel Nord del Marocco. Farina di ceci impastata con acqua, un filo d’olio, un passaggio rapido nel forno tradizionale di strada che le dà quel bel colore abbrustolito in superficie senza toglierle la consistenza morbida, quasi cremosa. I cibi viaggiano con gli uomini, e basta ricordarsene per risalire al pedigree di questa shruna, aggettivo arabo che sta per “calda”: “caliente” in spagnolo, a un solo braccio di 15 chilometri di mare da qui e, via via risalendo, “bell’e calda” in Liguria, “farinata” e “cecina” riscendendo di nuovo fino alla Toscana.
Non ne abbiamo le prove, ma ci piace immaginarcela come la traccia profumata e appetitosa lasciata da quel manipolo di genovesi sbarcati su questa costa africana al seguito di Garibaldi, in esilio volontario tra l’inverno del 1849 e la primavera del 1850.

cibo di strada a Tangeri

Il viaggio della shrouna finisce qui, inutile cercarla a Sud di Tangeri, città di frontiera da cui la Spagna si vede a occhio nudo, quando la luce è favorevole. La pastilla spagnola, triangolini di pasta sfoglia ripiena di carne di piccione, ormai quasi del tutto rimpiazzato dal pollo, aromatizzati alla cannella e spolverati di zucchero a velo, viaggia su un vassoio offerto ai passanti ma anche ai clienti dei caffè’ all’aperto o al chiuso: qui non vale l’interdizione dei “cibi propri” da consumare seduti al tavolo, la pratica è diffusa e per niente malvista. Cambi di poco la postazione, verso la grande piazza che segna il limite della città vecchia, e entri nel territorio delle lumache: altra tipologia di carrettino, pentoloni fumanti accanto alla pila di scodelline dove si versano assieme al loro brodo speziato e qualche stuzzicadenti per estrarle dal guscio a completare il kit. E volendo, anche se l’abbinamento non è dei più raffinati, un contorno di fave e ceci lessati venduti a cartoccetti, vago rimando ai lupini, la fusaja dei romani di una volta. Un po’ dovunque, in città, grandissima scelta di dessert: ciambelle, bomboloni, dolci al sesamo, pasticcini di mandorle. Niente a che vedere con le montagne di dolci sgocciolanti miele, gli sbakia tipici di Ramadan, il mese sacro che porta con sé tutto un menu caratteristico, di forte valore simbolico, specifico per la rottura del digiuno.

Ma per quello bisogna aspettare qualche settimana.

Di padre in figlio come nelle botteghe medievali: la Ferramenta Orini di via Imbonati

Ferramenta Orini, Milanodi Giorgia Rozza

Una wunderkammer di cinquecentesca memoria, piccola come lo studiolo di un nobile collezionista di bizzarre mirabilia, oppure una bottega che avrebbe fatto la gioia di un dadaista, zeppa di oggetti: alcuni riconoscibili anche a chi non è appassionato di bricolage, altri misteriosi. Parti di rubinetti, caschi da lavoro, pinze di ogni tipo, forbici per il giardinaggio, graffettatrici, crick per cambiare le gomme dell’auto, flessibili, chiodi, rivetti e bulloni sembrano accatastati in apparente disordine e invece al suo interno, un interno che odora di gomma e ferro, si muovono a completo agio Luigi Orini, classe 1942, calvo e accigliato e suo figlio Davide, 38 anni, un viso dolce e pulito sopra il camice blu di ordinanza.

C’è poco spazio per muoversi all’interno della Ferramenta Orini, perché di gente che compra ce n’è eccome e fa la fila nell’ingresso con il pavimento di marmo scuro disegnato a grosse losanghe e mai  sostituito dagli anni Quaranta. I clienti sembrano tanti perché lo spazio è ridotto, in realtà sono solo tre alla volta ma il flusso è contino. Anche se è facile immaginare che non spendano molto per quelle poche ferraglie che acquistano, impacchettate con cura in fogli di carta pesante da Luigi e Davide e poi chiuse con lo scotch, il lavoro non manca. Sono venticinque metri quadrati di negozio ma, tolto il bancone e gli altri mobili, non ci si muove quasi. Poi c’è l’ancor più piccolo retrobottega dove si fa fatica a entrare perché interamente occupato da sporgenti mensole sulle quali fanno bella vista di sé centinaia di scatolette di cartone impolverato di varie misure che contengono, mi dice Luigi, soprattutto bulloni.

Ferramenta Orini, Milano

Un’atmosfera d’antan quella che si respira dagli Orini che fa il curioso e singolare paio con quella dell’adiacente Posteria Bertelli ininterrottamente aperta dal 1939 sulla via Imbonati dove sono rimasti quasi solo questi due negozi italiani, guarda caso entrambi con una lunga storia familiare alle spalle. La ferramenta è un po’ più giovane: f,u aperta nel 1945, quando le bombe alleate smisero di fischiare sui cieli di Milano e la gente era in festa per la fine della guerra. “Non ho iniziato io questa attività” – dice Luigi mentre continua a lavorare senza guardarmi – “Io sono ferramenta perché lo erano i miei che, a loro volta, presero in mano l’attività dei miei nonni Anna e Felice che aprirono negli anni Venti un grande punto vendita in zona Porta Nuova. Allora, ovviamente, il negozio riforniva le aziende più che i privati. E lo facevo anche io in questa piccola bottega  fino agli anni Ottanta. Poi è arrivata l’era dei  grandi centri commerciali e le officine, le fabbriche e gli artigiani non si sono fatti più vedere qui.  A noi, da almeno vent’anni, è rimasta solo la vendita al dettaglio, al cliente privato”.

Ferramenta Orini, Milano

Ed è proprio verso la fine degli anni Ottanta che Davide, allora quindicenne, entra nel negozio di famiglia per imparare il mestiere. Non è solo l’aspetto della bottega che ha qualcosa di antico ma anche questo naturale passaggio del testimone da una generazione all’altra nella gestione della piccola azienda di famiglia. Una scelta in controtendenza quella di Davide la cui fede d’oro luccicante al dito contrasta un po’ con il  suo viso dai lineamenti infantili. La maggioranza degli adolescenti della sua generazione  non avrebbe fatto la sua scelta. Era la fine del decennio dell’apparenza e dell’euforia economica, dell’edonismo e del culto del divertimento. Anche del lavoro certo. Ma non del lavoro di ferramenta. I più avevano altro per la testa che chiudersi in una piccola bottega con papà per portare avanti quel mestiere che non offriva certo prospettive entusiasmanti. E quello era proprio il decennio dell’entusiasmo.  Era facile, per chi veniva da una famiglia minimamente abbiente fare le superiori e poi iscriversi in massa a quella facoltà così in voga in quel momento, quella che se non la facevi sembrava non volessi assicurarti un futuro prestigioso a livello professionale, personale ed economico: economia e commercio, i cui riti accademici si svolgevano nel capoluogo lombardo nei due “templi” della Bocconi e dell’Università Cattolica. “Ma io non avevo nessuna voglia di studiare” – dice Davide ridacchiando. Forse proprio questo l’ha salvato dal mito di cartapesta della finanza, di cui stiamo pagando il conto salatissimo tutti noi per lo meno da un quinquennio o forse più. Quando Davide era adolescente, tutti si immaginavano donne e uomini d’affari, o meglio, come si diceva allora, “in carriera” a fare interminabili riunioni e a girare con la ventiquattro ore il mondo salendo e scendendo dagli aerei per fare non si sa bene cosa. Lo facevano anche nei film culto del decennio come Wall Street, pellicola del 1987 interpretata da Michael Douglas, volto-icona  hollywoodiano del periodo.
Niente sogni di gloria per Davide  ma un tranquillo apprendistato nella bottega  paterna e qui le lancette del tempo sembrano andare ancora più a ritroso e riportarci nel mondo medievale delle gilde artigiane dove al padre succedeva automaticamente il figlio. Figlio che tuttora non ha una mail e lo dice sorridendo mentre  il padre, con gli occhi fissi su un aggeggio del quale non comprendo l’utilizzo, afferma orgoglioso che lui non ha nemmeno il cellulare.

Ferramenta Orini, MilanoPrima di andarmene cerco di sgusciare nel retro, scansando le tre persone che occupano interamente lo spazio della bottega. In fondo lì dò un po’ fastidio. Lì non si chiacchiera, si lavora. Un’ultima occhiata alla parete più interna del negozio e scorgo quella che potrebbe essere un’installazione artistica, questa volta contemporanea: una serie di piccoli cassettini di legno dalla perfetta geometria, laccati di vernice verde acqua con tante manigliette in ottone.  Mentre fotografo mi giunge la voce di Luigi: “Quella cassettiera  non è degli anni Quaranta ma degli anni Venti,  l’abbiamo recuperata dal vecchio negozio di Porta Nuova”. Non so se sia stata ridipinta, so solo che è tenuta perfettamente ed è bella, tinta di quel fresco colore, oltre a essere misteriosa perché evidentemente ogni cassettino contiene della ferraglia di tipo diverso da quella contenuta in quello attiguo.

Chissà come fanno Luigi e Davide a metterci le mani con competenza. Segreti del mestiere che solo loro conoscono. Per sapere se li conosceranno anche i figli di  Davide è troppo presto. Anche se la  storia aziendale incarnata nei muri di questa bottega sembra voler tornare indietro nel tempo, siamo giunti sul crinale della fine del potere mondiale dell’Occidente e immaginare il futuro, anche quello più immediato, è solo una chimera.

Le storie corrono lungo il fiume

di Graziella Reggio

FIUMI è un viaggio fotografico lungo i principali corsi d’acqua europei, seguendo il flusso vitale che scorre nelle vene del continente. L’acqua è libera, imbrigliata, di nuovo libera quando raggiunge il mare. Il fiume è fonte di energia, via di trasporto e di comunicazione, segna confini, può essere minaccioso, persino devastante. Allo stesso tempo si offre alla contemplazione, crea uno spazio di silenzio. Il corso modifica il paesaggio urbano e naturale, ne è modificato a sua volta. Con questo progetto, su cui lavoro dal 2008, intendo documentare i diversi tipi di paesaggio, cercando una bellezza momentanea, transitoria, discreta nel costante dinamismo, nella costante trasformazione. In genere preferisco la pellicola e una macchina manuale – un mezzo lento, che richiede concentrazione.

 

Le sorgenti del Danubio
Le sorgenti del Danubio

 

Il Danubio a Regensburg
Il Danubio a Regensburg

 

Il Danubio a Ulm
Il Danubio a Ulm 

 

Il Reno a Coblenza
Il Reno a Coblenza

 

Il Reno a Coblenza
Il Reno a Coblenza

 

Il Danubio in Serbia
Il Danubio in Serbia

 

Valle del Rodano
Valle del Rodano

 

Delta del Rodano, in Camargue
Delta del Rodano, in Camargue

 

Delta del Po a Gorino
Delta del Po a Gorino

 

Delta del Po a Gorino
Delta del Po a Gorino

 

Randagi

di Giorgia Rozza

Questa è la storia di Antonio. Ma è anche la storia di Marco e di otto cani di tutti e di nessuno, otto cani nati per caso sulla strada, destinati a ingrossare le fila dei randagi del Sud, venuti al mondo solo per macinare chilometri di asfalto, prati gonfi di zecche sui quali pascolano ancora le pecore, e sì, ci sono ancora i pastori come nei presepi.

Antonio e i suoi tre cani

Cani nati senza che nessuno lo chiedesse per masticare nelle discariche quei rifiuti che mantengono ancora un vago ricordo dei cibo che contenevano o addormentarsi senza forze su un marciapiede a prendere la loro unica benedizione: il sole.

Li chiamano randagi: sono quelli che passano la loro breve e scomoda vita schivati dai passanti (ma a volte si può cambiare una consonante senza tema di sbagliarsi e scrivere “schifati”) a difendere il loro pezzo di niente. Il destino non è stato gentile con loro. Come non è stato gentile con Antonio. Anche lui non ha niente e ormai difende solo se stesso, che in realtà proprio niente non è.

Antonio quanti anni abbia nessuno lo sa. Forse lo sanno quelli dei servizi sociali che hanno visto il suo documento d’identità, sempre ammesso che ce l’abbia. Già, perché anni fa l’avevano individuato come potenziale soggetto beneficiario del loro lavoro visto che nella vita di Antonio di “sociale” non c’è proprio nulla e loro sono lì per reinserirti in questa benedetta società.

Antonio si è anche fatto ricoverare per qualche giorno ma poi è scappato e non si è più fatto prendere. La gente che lo vede tutte le mattine, seduto sempre sullo stesso marciapiede di un quartiere periferico sul mare, dice che ha una cinquantina d’anni, ma è solo un’ipotesi. Quelle rughe che gli solcano il viso come gravine essiccate sono state incise dalla strada, dal sole e dal vino cattivo, quello che costa poco e che fa male, quello nei tetrapack di plastica che fa linguacce sguaiate e provocatorie al vino buono, Doc e persino Docg, il vino degli intenditori, degli enologi e dei sommelier, delle degustazioni mondane, dei viaggi stampa per i giornalisti, delle grandi fiere e del business, ora perfino con la Cina. Tanto per guadagnare si fa di tutto, compreso permettere che il proprio gioiello enologico a casa propria severamente abbinato soltanto con risotto al Castelmagno, salvia di campo e burro valdostano accompagni i wanton. La Cina è il futuro, lo dicono tutti. Quale e soprattutto come sia questo futuro, però, nessuno lo sa.

Antonio beve il vino “di plastica” e anche per questo è un “emarginato”, come direbbero i giornali. Ma ancora non ha gettato la spugna. Non si è accasciato a terra senza più voglia di vedere un’altra alba e di sentire il vento frizzante che l’accompagna; sta invece lì seduto, fermo per ore sullo stesso marciapiede, con le scarpe da ginnastica rotte.

Eppure, anche se tutti lo schivano (o “schifano”, è uguale), anche se l’unico amico che aveva è morto in ospedale dopo che qualche brava persona di cui i servizi sociali non si occupano gli ha dato fuoco mentre dormiva su una panchina, anche se dopo questo lutto Antonio non parla più con nessuno e scappa come una bestia braccata se gli si avvicina qualcuno che non conosce, qualche cosa di buono Antonio nella vita ce l’ha. Qualche cosa che, quasi quasi, se non fosse una bestemmia per molti, si potrebbe definire “sociale”. Antonio ha, o meglio aveva, la compagnia di otto cani. Ora sono rimasti in tre. Randagi come lui.

randagi

Cani che non si è scelto, che non è andato a microchippare, che non sono suoi, che non ha conquistato con il cibo. Sono i cani che hanno scelto lui. Cani che lo vogliono nel loro branco. E lo seguono ovunque. Anche quando il sole cala, il canto dei grilli si sostituisce a quello delle cicale in estate, il cielo si fa arancio e Antonio si addentra tra gli ulivi e i campi di grano e va “a casa”, un posto che nessuno ha mai visto. Un posto dove riposa i suoi

pensieri e le sue ossa stanche su un rozzo materasso ma che è solo per lui e i cani.

Otto cani non potevano stare con lui, in mezzo alla strada. La società ha regole diverse da quelle del branco. E allora è intervenuto Marco insieme alle forze dell’ordine. “Forza” e “ordine”…. Parole così lontane dalla vicenda esistenziale di Antonio il randagio. All’inizio Antonio odiava Marco perché lo vedeva con i militari in divisa e perché anche lui gli voleva togliere i cani. Poi, piano piano, ha capito chi è Marco.

Marco non è un randagio ma ai randagi sta dedicando la sua vita. Con forza, passione, instancabile energia, cuore e cervello in una sintonia che non “stecca” mai, come in una jam session venuta bene. E Antonio è un randagio. Marco l’ha convinto senza nessuna presunzione, con dolcezza e fermezza, che non poteva stare in strada con otto cani, tra i quali cinque femmine, che avrebbero sfornato decine di cuccioli. Marco gli ha chiesto di poterle portare in canile per la sterilizzazione e poi gli ha detto che gliele avrebbe riportate: “Promesso”.

E così è stato perché Marco è un uomo di parola e porta i suoi 44 anni con la solida sicurezza di essere nel pieno della vita, una vita che sa di spendere bene anche quando è stanco morto e gli sembra di n

on farcela più. Anche quando le donne gli dicono “O me o i cani”. Poi, però, la gente si è lamentata: i cani di “quello lì” (che non sono suoi in verità) corrono dietro le biciclette, spaventano i bambini e chi fa jogging il mattino presto. E allora Marco è tornato a parlare con Antonio e si sono accordati. Tre glieli avrebbe lasciati. E così è stato veramente e definitivamente.

Ma prima che si accordassero Antonio ha piegato il viso in una smorfia strana, spianando le labbra e stringendo gli occhi che sono diventati due fessure di mare. E Marco credeva che ridesse. E invece piangeva. Piangeva perché gli stavano togliendo i cani.

Ero in auto con Marco quando abbiamo visto Antonio. Io vengo dal Nord dove di cani in strada non se ne vedono perché quelli indesiderati li chiudiamo per pudore e “civiltà” dietro le sbarre di carceri dure che spesso non assicurano nemmeno il vitto e trasformano creature viventi in ergastolani emaciati e ululanti armati solo di occhi infiniti per penetrarti l’anima.

randagi

Marco mi ha indicato Antonio, ha fermato l’auto e siamo scesi. Marco sorrideva, gli ha stretto la mano e gliel’ho stretta anche io. Ho notato le sue unghie lunghe come artigli, quasi fossero un’arma di difesa primordiale per proteggersi dalla gente, quel tipo di gente che ha ammazzato il suo amico. Anche Antonio sorrideva. Aveva con sé i tre cani del suo branco, quelli che la società ha consentito che vivessero insieme a lui.

Due piccoletti dall’aria fiera ci hanno guardato seri e vigili mentre ci avvicinavamo. Ci hanno lasciato fare ma vegliavano su Antonio come due leoni stilofori sul portale di una cattedrale romanica. Non so come sia possibile ma sono due cani bellissimi, ben curati, nutriti, con il pelo pulito, lo sguardo fiero. Uno grosso, un po’ più distante, si crogiolava nel sonno completamente rilasciato a terra.

Marco ha detto ad Antonio che era contento che ora fossero amici. Antonio ha annuito sorridendo ma non ha detto nulla. Marco gli ha allungato cinque euro, l’ho fatto anche io. Antonio era felice e stupito, ha sorriso e r

ingraziato. Marco l’ha salutato e gli ha ricordato di raccogliere e buttare nel cestino il tetrapack di plastica dal quale scendeva ancora un rivolo violaceo. Quel liquido di cui Antonio non può più fare a meno, quello a cui il “cattivo maestro” Baudelaire, come lo si definirebbe oggi in epoca di “politically correct” dedicò i versi: “Ubriacatevi. Di vizi o di virtù ma ubriacatevi”.

Poi ce ne siamo andati verso l’auto, verso il canile, il lavoro, i mille problemi da risolvere, verso la vita “sociale”. Ma prima di salire in auto mi sono girata un attimo e ho voluto dare un ultimo accorato sguardo a quel silenzioso quartetto. Nessuno si era mosso. Ma la Terra sì e non li inondava più di luce ma li aveva velati di una riposante ombra.

Un ultimo assaggio del “me Milan”: la Posteria Bertelli

eldaierieoggidi Giorgia Rozza

Nella multietnica via Imbonati, la “posteria” Bertelli resiste. Dal 1938.

Classe 1939, Elda Bertelli non ha molto tempo da perdere in chiacchiere. Riccioli canuti ben tenuti e un pulitissimo grembiule ceruleo, deve preparare i panini per i dipendenti delle vicine aziende Mondialpol e Zàini, industria cioccolatiera in attività dal 1913. Elda, però, non è la proprietaria di un bar, come si potrebbe arguire. Gestisce il negozio di alimentari Eredi Bertelli snc in via Imbonati al civico 45 aperto da suo papà Paolo nel 1938 e continuamente in attività dall’inaugurazione.

Il negozio resiste in quella via Imbonati che, negli ultimi dieci anni ha visto chiudere, uno dopo l’altro, falciati dall’inesorabile decadenza del Vecchio Continente, quasi tutti i punti vendita italiani. Resiste in mezzo ai negozi di kebab e di pizze egiziane “all’aroma di cartone” consegnate al volo a domicilio in motorino, resiste tra le “cineserie” che mostrano dietro le vetrine oggetti in vendita a pochi euro e tra i negozi di telefonia dove chi è venuto qui può sentire la voce di chi è rimasto a Casablanca, al Cairo o a Bucarest.

L’alimentari Bertelli è un piccolo gioiello della Milano che fu, un luogo mitico per i nostalgici delle atmosfere cantate dal tristemente appena scomparso

elda2 Enzo Jannacci e da Ornella Vanoni, di quel “me Milan”, rigorosamente di genere maschile, che sembra proprio destinato a scomparire come una spettrale falce di luna in cielo quando viene giorno.

«Fino al 2000 la nostra insegna portava il nome di “posteria”, perché questo siamo. Poi abbiamo dovuto rifare le vetrine, che rischiavano di crollare, e abbiamo tolto quel nome che in pochi ormai conoscono sostituendolo con la scritta “salumeria” su una luce e “alimentari” sull’altra. E anche gli eleganti infissi in ferro battuto Liberty se ne sono andati per far posto ai nuovi materiali isolanti, meno belli ma più funzionali».

Già, Bertelli è proprio una posteria anche se non ne porta più il nome, come quelle dei paesini di montagna, dove dalla porta aperta entra aria fredda e pulita che si mischia al profumo del prosciutto e all’odore delle scatole di cartone appena aperte. Forse è rimasto l’unico negozio a Milano che vende un po’ di tutto: dagli alimentari ai detersivi, senz’altro è l’unico gestito dalla stessa famiglia dalla fondazione.elda1

L’aria che entra dalla porta qui non è certo pulita: è densa e fuligginosa, avvelenata dal traffico che si spintona lento verso Piazza Maciachini o verso Affori ma, per il resto, gli odori e i prodotti della posteria ci sono tutti. Mentre Elda affetta i salumi per farcire i panini vedo spuntare un’altra nota felicemente anacronistica: su uno dei due banconi campeggia un cestino di metallo traforato ricolmo di uova sfuse che sembrano appena tolte dal pollaio, in barba ai rigidi dettami del prodotto che deve portare la data di scadenza. E anche la disposizione dello scatolame sugli scaffali è rigorosamente piramidale come imponeva la moda della vetrinistica degli anni Settanta.

Ma gli inizi di questa posteria quali sono? «Mio papà Paolo Bertelli nacque a Gessate e aprì qui il negozio nel 1938. Era bellissimo, tutti dicevano che assomigliava all’attore Amedeo Nazzari» racconta Elda mentre le si illuminano gli occhi. «Iniziò l’attività insieme a sua moglie, mia madre Giuseppina Morson, friulana, quando aveva 24 anni. Non vendeva solo alimentari pronti ma faceva anche il pane nel forno a legna. L’anno dopo nacqui io. Poco dopo, dovette dire addio alla famiglia, o meglio arrivederci, e partì per la guerra come soldato semplice. Fu deportato in Germania dopo l’Armistizio e tornò a casa quando io avevo sei anni” ricorda ancora Elda che non smette di lavorare mentre parla, incarnando il più comune degli stereotipi sui milanesi.

eldaoggiE continua: «Mia madre tenne aperta l’attività per tutto il periodo dell’assenza di mio padre, sotto le bombe, senza sfollare. Rimase in città con me e mio fratello abitando nell’appartamento sopra il negozio, che è ancora di famiglia. Per fare il pane, negli anni della guerra,  andava a comprare la farina in bicicletta in un mulino a La Chiarella, rischiando ogni volta la vita. È morta solo un anno fa, anzianissima e felice, mentre mio padre è scomparso giovane, a soli 47 anni». Con Elda lavorano il figlio Paolo e la cognata Raffaella. Dice Paolo con un po’ di rammarico: «Una decina di anni fa sono arrivati i cinesi e ci hanno chiesto se volevamo vendere. Mia nonna Giuseppina ha detto di no. Ma non è facile resistere sul mercato, i guadagni sono risicati, siamo un piccolo negozio, non possiamo competere con le catene della grande distribuzione. Ma tiriamo avanti». Infatti, per il momento, di clienti ce ne sono. Anziani, che si sentono a loro agio, certo, ma anche giovani signore che alternano la spesa al supermercato a quella fatta qui, forse, chissà, per risentire l’atmosfera di quei pomeriggi lontani, a fare la spesa con una nonna che non c’è più.