Berlino, la storia d’amore più bella (1)

berlinodi Henry J. Ginsberg (alias Marco Pontoni)

(Prima parte)
Questa è ovviamente la storia d’amore più bella che abbia mai sentito.

Alle 18.53 del 9 novembre 1989 il corrispondente Ansa da Berlino Est, Riccardo Ehrman, chiese al ministro della propaganda della Ddr Günter Schabowski quando sarebbero entrate in vigore le nuove misure per i viaggi all’estero che erano state appena annunciate nel corso della conferenza stampa. Il ministro Schabowski, che non aveva ricevuto istruzioni in proposito dal suo governo, lasciò intendere che esse erano da considerarsi in vigore fin da subito e che i posti di blocco fra Berlino Est e Berlino Ovest sarebbero stati rimossi. Migliaia di persone si precipitarono verso i varchi. Fra queste, anche Hanna.

Voi cosa fareste se foste costretti a vivere tutta la vita dietro una vetrina, senza mai avere il permesso di entrare nel negozio? Vi buttereste dentro il prima possibile, a meno di non essere abbastanza snob da considerare l’apertura di quelle porte un imbroglio. Hanna era una snob, ma non tanto da resistere. Con migliaia di suoi concittadini passò il checkpoint, sotto gli sguardi attoniti dei Vopos, le guardie di frontiera, e fu dall’altra parte. Tempo dopo, si sarebbe chiesta perché non era successo prima. Se migliaia, decine di migliaia di cittadini della Germania Est si fossero presentati, tutti assieme, in Friedrichstraße, cosa mai avrebbe potuto fare il loro governo? Farli uccidere tutti? Ma si sa, la psicologia delle folle non funziona così. Se funzionasse così, non si capirebbe perché i dittatori riescono a tenere per anni in scacco interi popoli.

Sia come sia, e non voglio divagare, Hanna, con una sua amica e migliaia di altri, passò dall’altra parte. In un istante, passò dal mondo delle Trabant a quello delle Mercedes, dei punk e delle griffe.

Io non so cosa stessero facendo, a Berlino Ovest, quella notte. Folla si era radunata da entrambe le parti del Muro fin dal primo pomeriggio, la novità, ovviamente, era nell’aria. Ma a me piace immaginare che per molti fosse una sera come tutte le altre. Mi piace pensare che quel ragazzo fosse ad un concerto, uno dei tanti che animavano le notti della Berlino alternativa. Un concerto di Nick Cave, ecco. Era in città, all’epoca, Nick Cave? Non lo so. Ma mi piace pensarlo, mi piace pensare che stesse suonando in un locale come quello in cui è stato immortalato da Wim Wenders in un suo film. E mi piacer pensare che il ragazzo stesse bevendosi la sua seconda birra, in piedi, tranquillamente appoggiato ad una colonna, un po’ lontano dal palco, battendo il tempo con il piede. Anche lui era un po’ uno snob. Ma non abbastanza da non fiondarsi all’aperto con tutti gli altri, quando arrivò la voce, e di correre là dove un solido, pesante passato veniva fatto a pezzi da un incerto, anfetaminico futuro.

muro di BerlinoOltre il Muro, a ridosso del muro, le due folle si mescolavano. Unite dalla lingua e dai precedenti storici, divise da tutto il resto. I locali cominciarono a dar fuori da bere gratis. Tutto fu subito festa, happening, abbracci, riconoscimenti, oblio.

Non era la giornata giusta per Hanna, quella mattina aveva litigato con il suo ganzo e nel pomeriggio le era venuto mal di pancia, ma si sa, la storia non è un pranzo di gala. Così si lasciò trasportare dalla corrente che sgorgava inarrestabile da ogni recesso di Berlino Est. Dal principio erano a piedi, ma dietro di loro si stava mettendo in marcia l’esercito di Trabant crepitanti, che puntava al valico di frontiera di Schönefeld e voleva assolutamente raggiungere la Ku’damm. Avevano tagli di capelli sbagliati, occhi sgranati, e qualcuno sembrava uscito da un film in bianco e nero. Avevano vitalità repressa e sogni dalla loro parte.

Hanna si lasciò alle spalle i picconatori, che stavano già mettendosi all’opera. Scivolò e inciampò e rotolò addosso ad una quantità di persone, prese in mano i boccali che le porgevano, fu issata sulle spalle di un colosso di 150 chili, si tenne stretta la sua amica, si diede un contegno, baciò uomini e donne, si sentì bella e desiderata per com’era, com’era lei, con il suo aspetto di Hellersdorf, con quel tipo di scarpe. E infine, finì letteralmente fra le sue braccia. O almeno, così le è sembrato, dopo. Sotto ad un’insegna al neon che reclamizzava un walkman della Sony.

Lui fu veloce nel parlare. Hanna dice sempre che le parole gli uscivano fuori a raffica. L’aveva riconosciuta come una dell’Est, e per molto tempo sarebbe stato così, sarebbe stato facile riconoscersi. Col senno di poi, forse era già ubriaco, o fatto di qualcosa. Parlò e parlò tutto il tempo, trascinandola in giro, per mano, lontano dal Muro, e anche se lei aveva sentito da qualcuno che l’avrebbero richiuso, che chi era passato dall’altra parte non avrebbe più potuto fare ritorno a casa, ci pensò solo un istante. Di là dal Muro c’erano cinema, teatri, gente, luci, altre vetrine. Di là dal Muro la festa stava crescendo. Di là dal Muro gente spiritosa come questo ragazzo. Di là dal muro musica!

muro di BerlinoLui era alto, allampanato. La strappò via da quelli con cui stava, la strappò via dall’amica che le era venuta dietro incespicando (e che avrebbe rivisto solo due giorni dopo, disfatta), la portò in un parco, un pub, nella sala da concerto dove Nick Cave stava ancora suonando il suo blues crepuscolare, se Nick fosse stato in città quella sera, chiedendole sempre: “Ti piace? Ti piace?”. Era come se si sentisse l’ambasciatore dell’Ovest, ride adesso Hanna, come se si sentisse in dovere di farle vedere tutto, di spiegarle in breve ma con dovizia di particolare in cosa consiste lo stile di vita occidentale, con i suoi indubbi benefici e le sue inevitabili docce fredde, e la differenza fra la Barclay James Harvest e i Nirvana, e da che parte punta il vero coccodrillino della Lacoste, e di quali droghe non ti puoi assolutamente fidare, e in quali quartieri puoi forzare una porta e prenderti un appartamento senza che ti caccino subito, si chiama squatting, lo sai, non lo sai? “Vuoi vedere? Vuoi uno squat per i primi giorni? Non vorrai mica tornare laggiù, vero? Con me, magari, sì, con me, domani, o dopodomani, ci faremo una bella scorta di pezzi di muro, ricordati, fra un po’ varranno una fortuna, dobbiamo andare lì con un bel piccone, e in fretta, ma non adesso, adesso andiamo, dai, l’importante è andare, la vuoi la tua parte di cielo, la vuoi con vista sulla Sprea, la vuoi a Kreuzberg? Vai d’accordo con i turchi?”.

(Fine prima parte – segue)

(Racconto tratto da Henry J. Ginsberg, Vengo via con te – storie d’amore e latitudini, Valentina Trentini ed., Trento, 2012.)

 

Caducità delle foglie, caducità della vita: è l’autunno, bellezza!

funerale ecologicodi Alessandro Milani

Ebbene sì, ancora oggi, nel magma pubblicitario nel quale siamo immersi, un cartellone può attirare l’attenzione. E almeno per i pubblicitari il suo dovere l’ha fatto. Il messaggio che veicola, ecco, quello può essere discutibile.

E in certi casi anche un po’ da decifrare.

Uscendo da una delle porte dell’Ospedale Cà Granda di Milano, meglio noto con il nome del quartiere in cui è stato costruito illo tempore nel ventennio, cioè Niguarda, ci si scontra, quasi fisicamente con la pubblicità di Gaia Funeral.

L’immagine: un bosco dagli splendidi colori autunnali. Al centro, in grande, la scritta Gaia Funeral (senza la i finale, quindi in inglese, o volendo, in dialetto milanese). Appena sotto, il pay off che dovrebbe spiegare l’unicità del servizio: il funerale ecologico. In alto, il messaggio: Salva un albero con l’ultimo gesto d’amore.

Ora ci vengono offerte due possibilità: la prima è quella di affrontare il tema del trapasso e della sua rappresentazione nelle cerimonie funebri. In un periodo nel quale il funerale viene discusso in tutta la sua valenza simbolica più che pratica, da quello per i somali e gli eritrei morti nelle acque del Mediterraneo di fronte a Lampedusa, a quello contestatissimo al criminale nazista impenitente Priebke.
In questo caso si dovrebbe parlare del senso della morte nel cattolicesimo, e forse addirittura in tutta la cultura occidentale, da Epicuro in su, magari condendo il discorso con un po di humour nero, per non venir meno al sentire comune per il quale della morte (e dei suoi annessi e connessi pratici) è meglio non parlare.

Ci ripromettiamo di farlo, magari rispolverando la storia di quel giornalista sportivo torinese che un dì decise di fondare addirittura una rivista dedicata al tema della morte, intesa sia filosoficamente, sia, soprattutto, come evento della vita.

funerale a milano nel 1952Oppure abbiamo una seconda ipotesi: quella di cercare di capire di più quale servizio e quale comunicazione offrono, ai morituri e a tutti noi curiosi, i signori della Gaia Funeral.

Premesso che i loro servizi, quand’anche fossero i migliori sulla piazza, non ci interessano e speriamo continuino a lungo a non interessarci, veniamo alla “proposta”.

Anzitutto il termine ecologico. Ormai siamo abituati a sentirlo praticamente in ogni contesto: ci sono cibi, vestiti, detersivi ecologici, soluzioni ecologiche per la casa e per le nostre città, persino le automobili ecologiche (anche quelle che non lo sono). Ma il funerale ecologico?

Qualcuno hai dubitato che le fasi alle quali assistiamo dalla morte di una persona alla sua sepoltura non siano addirittura “bio”?
Rifletto: il corpo umano, anche nel caso in cui fosse stato riempito di farmaci a causa della malattia, dovrebbe restare bio, bio la cassa di legno, bio la terra. Ancora più bio la cenere.

grande lebowskiLe onoranze funebri al massimo offrono soluzioni più o meno economiche e più o meno “di classe” (qui lo humour nero è tutto loro), magari per sottolineare lo status della famiglia (come succedeva una volta con il carro con i cavalli bardati di nero). Oppure le scelte riguardano aspetti “accessori” come i tributi floreali al defunto (“non fiori, ma opere di bene”) e la scelta o meno per la cremazione (anche qui con varie possibilità, sulle quali si rimanda alla scena de Il Grande Lebowski dei fratelli Cohen relativa alla scelta dell’urna per le ceneri).

In che cosa consiste la scelta ecologica?

All’interrogativo risponde solo parzialmente il messaggio che invita al gesto d’amore verso un albero con l’ultimo gesto finale. Rinunciare al legno, però, può non essere di per sé una scelta bio. Anzi, una cassa in eternit sarebbe molto peggio.

Il messaggio apre inoltre a un’ulteriore domanda: a chi si rivolge? L’ultimo gesto d’amore è allestire il funerale per un parente? Quali altri aspetti del funerale possono essere più o meno ecologici?

Scartata l’ipotesi di chiamare il telefono verde, abbiamo cercato di rispondere accedendo al sito internet gaiafuneral.org: qui finalmente capiamo che Gaia funeral anzitutto non offre un servizio di onoranze funebri (su questo stesso cartellone faceva mostra di sé, qualche anno fa, un’offerta di “funerale completo a 1000 euro”), ma produce bare ecologiche. Di esse vengono illustrate le caratteristiche (cellulosa da fibre naturali non lignee e cortame di legno) e qualità (molto più leggera, meno consumo di legname, meno consumo energetico nella cremazione, mancato uso di vernici ecc).

Il sito, che in realtà consta di una sola pagina web, entra poi nel tecnico, illustrando i test ai quali sono state sottoposte le bare e la concessione del Ministero della Salute a commercializzarle.

Ok, ci avete convinto, la scelta è ecologica. Resta aperto l’altro fronte: nella pagina web non compare (né tanto meno lo fa nel manifesto pubblicitario) il prodotto offerto, cioè la bara ecologica.

funerale ecologico

No, sempre e solo un bosco in autunno.

Non dico un defunto, ma almeno una bara. Siamo quasi ad Halloween, ne vedremo molte di più nei cartoni animati. In effetti non ricordo di aver mai visto l’immagine di una bara usata a fini commerciali. Ma dovremo pur vedere l’unico prodotto che producono, o no?

Vorremmo farci un’idea, almeno attraverso una foto photoscioppata se i suoi 17 kg possono competere con i 70/80 delle bare tradizionali. No, nemmeno una bara.

Anche la Gaia Funeral si è scontrata con il problema di fondo: di certe cose è veramente difficile parlare, ancora di più illustrandole. Anche la pagina web che a un certo punto parla di “valutazioni della biodegradabilità aerobica/anaerobicha ultima secondo norma UNI EN14046”, pensa davvero che sia questo a muovere le scelte delle persone? Ma, soprattutto, che ciò possa diventare anche solo lontanamente oggetto di discussione?

No, si torna sempre a Epicuro e alla sua idea che della morte nulla ci deve importare, perché quando ci siamo noi, non c’è lei, e quando c’è lei, ormai noi non ci siamo più. Bara ecologica o meno.

Epicuro lo faceva per indirizzare al pieno godimento della vita, noi lo facciamo più per paura, temo…ma tra il filosofo di Samo e noi ne sono cadute di foglie, non soltanto in autunno…

 

 

La fotografia del funerale è di Paola Ziccardi per MuVi, www.muvilo.it e ritrae un funerale in via Padova a Milano a inizi anni ’50.

Patrice e il miraggio all’incontrario

l'Africa di Patricedi Ornella Tommasi

Il giornalista chiede al ragazzo sdraiato sul fondo della barca, quasi trent’anni e all’attivo almeno quattro tentativi di traversata tutti falliti e tutti seguiti da rimpatrio forzato, il perché di tanta ostinazione. Lui sorride e con l’aria più naturale del mondo spiega che “…lo dice la parola stessa, clan-destino, l’emigrazione è il mio destino…”. Mektub, in arabo: quello che sta scritto e non si può cambiare.

A cambiare sono le rotte, che oggi si estendono a Grecia, Turchia, perfino Croazia. Non cambiano i luoghi di provenienza, Maghreb, Corno d’Africa e Africa Subsahariana, solo per considerare il continente più vicino all’Europa Occidentale. Con impennate stagionali, secondo le condizioni del mare, e nuove emergenze come quella siriana.

Oggi è Lampedusa, all’epoca dell’intervista al ragazzo della barca erano Ceuta e Melilla, avamposti spagnoli in territorio marocchino. Ma volti e scenari si somigliano sempre. E a noi sembrano tutti uguali. Anche la storia di Patrice somigliava a quella di migliaia di altri, ma il caso ce l’aveva improvvisamente avvicinata, come il dettaglio di un’immagine che sfugge a una prima occhiata.

Autunno del 2006, foto di gruppo di frontiera. A Ceuta, con le nuove recinzioni di 6 metri sullo sfondo, in fila vicino alla scaletta dell’aereo per il rimpatrio, seduti accosto a un muro o mentre escono dai nascondigli a mani alzate. Sui giornali e nelle immagini televisive si assomigliano tutti, senegalesi, maliani e nigeriani: berretti, finte Nike e sacchetti di plastica sformati. Poi capita che qualcuno esca dalla foto, e per fortuna non sempre nel modo più tragico. A Patrice è successo mentre era ancora nella foresta di Belyounech, vicino alla frontiera di Ceuta, prima degli “assalti”. Erano in quasi duemila accampati nel bush in una sorta di villaggio neolitico, plurietnico e plurireligioso, recinzioni fatte di rami per delimitare la moschea, la chiesa cattolica e il luogo delle assemblee generali.

mappa di Ceuta

Lui viene dal Camerun, ha solo 22 anni e un fisico robusto senza il quale a Belyounech non avrebbe potuto resistere per due anni interi. Ma quando per un’improvvisa emorragia allo stomaco comincia a vomitare sangue i suoi compatrioti si preoccupano e lo convincono a raggiungere la zona del bosco dove si fanno trovare periodicamente i Medici Senza Frontiere. La diagnosi è un’ulcera gastrica, troppe aspirine a stomaco vuoto per curare tutti i tipi di dolori. Al pronto soccorso di Tangeri lo tengono una notte, un paio di flebo e analisi che portano a una diagnosi rassicurante: “Tutto a posto, venite a riprendervelo”, annuncia qualcuno all’équipe di MSF. Ma Patrice non si regge in piedi, i medici ripetono le analisi in un laboratorio privato e risulta una gravissima anemia, subito affrontata a forza di trasfusioni in un altro ospedale. Nel primo hanno evidentemente sostituito il referto con quello di qualcun altro. Un bravo gastroenterologo lo cura con attenzione e in una settimana Patrice è pronto per essere dimesso. Ha riflettuto, non se la sente di continuare nella sua odissea, vuole tornare in Camerun. Ma a Tangeri non ne vogliono sapere, secondo polizia e militari “non è sotto la giurisdizione giusta”. Un commissario di polizia promette di raggiungerlo in ospedale ma poi non si fa vivo. L’unica soluzione sarebbe quella di farsi arrestare, ma allora dev’essere nel posto “giusto”. A Nador, frontiera di Melilla, a 350 km di distanza ma non più a piedi come all’andata, stavolta non ce la farebbe. Così finisce che i Medici Senza Frontiere lo mettono su un pullman di linea, con tanto di regolare biglietto, destinazione la caserma di Nador dove sono detenuti i “rimpatriandi”.

Lui sorride sempre, anche di questo paradosso burocratico che deve suonargli come un beffa, dopo anni passati a cercare di sfuggire alle polizie di mezza Africa. Il pullman parte solo la sera tardi, c’è un pomeriggio intero un intero per raccontare, sfogliare i giornali di queste settimane e riconoscere nelle foto compagni feriti e leggere anche di qualcuno che ci ha lasciato la pelle. “Ogni rivoluzione ha i suoi morti”, commenta. La sua, di rivoluzione, per ora l’ha persa. Alla famiglia ancora non vuole telefonare, “per fargli una sorpresa” ma anche, confessa, per non sentirsi dire che deve restare, tentare ancora, perché in tanti hanno sperato che ce la facesse a migliorare la sua vita e magari ad aiutare un po’ anche la loro. Per questo non si aspetta una grande accoglienza. Quando sarà lì tenterà di fare qualcosa, lui dice “autoimpiegarsi” visto che è fuori discussione che un lavoro glielo possa dare qualcun altro.

villaggio nel Sahel

Eppure aveva cominciato bene, Patrice. A Douala, la capitale economica del Camerun, dopo la maturità ha frequentato per un anno l’Università, facoltà di biochimica. Ma in famiglia ci sono cinque figli, lui è il più grande e quando il padre muore le tasse d’iscrizione diventano insostenibili: l’equivalente di 120 euro all’anno, in un Paese in cui il salario medio sfiora solo i 40. Prova a cercare un lavoro, non viene fuori niente. È a quel punto che si affaccia l’idea dell’Europa: “Per continuare a studiare e avere qualche chance in più…Ma per uscire legalmente ti chiedono un conto in banca esorbitante. Se uno avesse tutti quei soldi a emigrare non ci penserebbe nemmeno. Ho fatto qualche risparmio, ho venduto una radio e un paio di pantaloni e ho preso la strada verso Nord”.

In concreto significa attraversare Nigeria, Niger, Libia e da lì l’Algeria verso il Marocco: mezza Africa, insomma, con in mezzo il deserto del Sahel e il Sahara. Il percorso Patrice ce l’ha stampato nel corpo e nella memoria, ma per indicarlo estrae da un borsellino gonfio di foglietti una fotocopia formato A4 della carta dell’Africa fisica, senza neanche i confini tra Stati, tutta spiegazzata. Le città, Zinder, Marad, Arlit e poi su verso Ghat e Ghadames, sono segnetti sulla carta. “Sì, c’è un momento in cui ti rendi conto che i pochi soldi sono finiti e non sei neanche a metà strada, ma a quel punto non puoi più tornare indietro…Ti fermi da qualche parte quando trovi un po’ di lavoro, metti insieme qualcosa per pagare il prossimo passeur. Impari anche a diffidare degli imbroglioni, in gergo “korsé”, che ti promettono di portarti direttamente in Spagna…è un commercio che comincia già in Niger, con la complicità della polizia, e noi siamo la merce. Arrivano ben vestiti, con belle macchine, ti prospettano due giorni di viaggio ma poi scopri che le distanze sono almeno di sette, ti lasciano nel deserto con le provviste che bastano solo per due giorni, ti dicono di continuare a piedi in una certa direzione ma tu non sai nemmeno dove sei… Ti affidano a una specie di guida, la nostra non ha fatto una piega quando siamo stati assaliti dai banditi che ci hanno fatto spogliare faccia a terra per prenderci tutto…al mio amico Eric hanno spaccato la testa, e nel caso nascondessi qualcosa nel corpo ti fanno ingoiare una mistura di acqua e farina che scatena subito una diarrea terribile, così possono controllare. Partiti loro, la notte stessa è sparita anche la guida. Eravamo una trentina, abbiamo camminato dieci giorni nel deserto bevendo quel po’ di acqua che a volte resta imprigionata tra le rocce. Ogni tanto sul percorso compariva qualcuno a offrirci di comprare cibo e acqua, ma dopo l’attacco dei banditi non avevamo più un soldo”. All’alba dell’undicesimo giorno Patrice e gli altri vedono le luci del primo villaggio libico, un contadino che li sfama a riso e tapioca e poi i primi fratelli neri. Lui riesce a trovare qualche compatriota, ma nel frattempo ha perso l’unghia di un piede e deve fermarsi. Riparte dopo due o tre giorni con un paio di sandali trovati tra i rifiuti e aggiustati con un po’ di fil di ferro e i vestiti che ha lavato nel frattempo, direzione Tripoli. Ma arrivato a Ghat non riesce a proseguire, resta due mesi in ospedale curato da un medico egiziano “molto gentile”.

deserto in MaroccoNel suo racconto Patrice usa spesso questo termine, il “gentil” che in francese ha un significato più ampio della semplice “gentilezza”, ed è come se nella sua storia mancassero proprio i “cattivi”. Da Ghat a Ghadames, Belbes, Ghardaya, Maghnaya e da lì 4 giorni di marcia per Nador, nella foresta di Guruguru, prima tappa in territorio marocchino. Li attraversa proprio tutti, Patrice, i punti caldi della cronaca recente: la frontiera con Melilla prima degli “assalti”, la strada che porta a Ceuta, 21 giorni a piedi sulla carta ma 35 nella realtà, per approdare alla foresta di Belyounech quando c’erano ancora quasi 2000 subsahariani, tra i quali molti del Camerun, tanto che a ricordare quel momento dice che si era sentito finalmente “al sicuro” . Qualche tentativo notturno di attraversare la barriera di Ceuta, regolarmente fallito, e quasi un anno nella foresta, assediata per mesi dalla polizia, per arrivare a oggi, e a questo paradosso che la polizia è lui a doverla andare a cercare, a Nador.

Convalescente dall’ulcera, jeans seminuovi, una camicia celeste a motivi floreali, e la pacata constatazione di aver perso la guerra: “Quando gli Europei chiudono le frontiere è una guerra che fanno contro i neri, e loro sono i più forti. Siamo in tanti che avremmo preferito restarcene a casa con 200 euro al mese piuttosto che partire per venire a guadagnarne 1000 in casa vostra. L’Africa è il continente più ricco del mondo, ma l’Europa deve smetterla di mettere i nostri Paesi l’uno contro l’altro, di sostenere i governi corrotti”.

Il pullman per Nador chiude le porte, il viaggio della speranza all’incontrario è cominciato.

SUC, l’unica lotta che si perde è quella che ti fa perdere la socialità

spazio ufficio condivisodi Alessandro Milani

Milano, Isola-Garibaldi. Il quartiere di storie potrebbe raccontarne per ore e ore, anzi, per giorni interi.

Basta guardare fuori dalla finestra per vedere una stratificazione edilizia, commerciale, sociale e umana che altrove la città non ha, o nasconde, o ha completamente perso.

Qui, fino a pochi anni fa, prima che la speculazione sui terreni dell’“Area Garibaldi” portasse ai grattacieli della “Nuova Milano” che guarda all’Expo 2015 imbrattata di cemento e calcestruzzo, c’era la stecca degli artigiani.

Può essere solo apparentemente un caso se la Rete Redattori Precari (Re.Re.Pre. per gli amici) abbia deciso di compiere qui un salto di qualità. Un salto non nel vuoto, quello purtroppo è già garantito dall’asfittica editoria italiana (per lo meno la cosiddetta “grande” editoria, quella che a Milano dava lavoro a centinaia di redattori, internamente o attraverso i service editoriali).

No, il salto di qualità è concreto: passare dalle lotte di denuncia verso situazioni lavorative ben sopra il limite della decenza e dalla preziosa assistenza sindacale, legale, umana ai redattori precari all’offrire un servizio concreto, prezioso.

Tra il dire al fare c’è di mezzo il mare. Balle. Anche grazie alla collaborazione con San Precario, che utilizza a sua volta i locali di via Confalonieri 3 (con Pianoterralab.org e un Gruppo di Acquisto Solidale), oggi, 9 ottobre 2013, nasce SUC – Spazio Ufficio Condiviso.

quartiere isola milanoDopo 6 mesi di “studio” e attesa, vede la luce, come recita il “sottotitolo”, il primo coworking solidale. Completamente gratuito, sia lo spazio, sia il wi-fi (velocissimo), offre – per ora solo al mercoledì dalle 10 alle 19 – un posto dove lavorare, lontano dalla solitudine e dall’atomizzazione del lavoro alla quale sta portando il precariato.

Che bello lavorare in proprio, con partita IVA, in tutta libertà e da casa propria. Provatelo e poi ne riparliamo: senza voler citare i ritmi da consegne serrate e l’impossibilità di ammalarsi, già l’adeguamento della propria casa (familiari in primis) per un’attività lavorativa e il compenso da fame portano a un’alienazione che persino a Marx sarebbe sembrata fantascientifica.

Tanti ne discutono, oggi (ma la situazione è soltanto peggiorata con la crisi, non è nata di recente, purtroppo), ma pochi fanno concretamente qualcosa.

san precarioTanti si lamentano, ma si fermano lì. È quello che mi dice subito Laura, redattrice da 6 anni (tutti precari) per un grande colosso editoriale italiano, la quale passa da un contratto a progetto a uno a ritenuta d’acconto in barba a qualsiasi regolarizzazione lavorativa. La sua storia è ahimè paradigmatica: laurea, viaggio all’estero, atterraggio in nazione precaria. Mi racconta del suo mondo del lavoro facendo anzitutto riferimento alle possibilità (mancate) di organizzarsi all’interno delle case editrici anzitutto affinché non si arrivasse a questo livello di sfruttamento: mai uno sciopero dei redattori, mai un “no” alle proposte – spesso indecenti – che ti vogliono veder lavorare anche la sera e nel weekend. Perché tanto, per un redattore che dice no, ce ne sono altri 10, forse 100, pronti ad accettare, per non parlare di quelli senza lavoro pronti a prendere il tuo posto, anche se precario.

Anche il gruppo dei Redattori Precari risente di questo iato tra chi si informa sulla loro attività (su Facebook o attraverso la mailing list) e chi poi partecipa attivamente alle riunioni: si parla di un rapporto di 2000 a 10, mas o menos. La voce grossa la fa ancora una volta la paura: si teme di più il mostrarsi pubblicamente attivi per difendere i propri diritti rispetto al temere una vita fatta di costanti prevaricazioni, ansie, medicinetuttiigiorni, impossibilità di stare male e soprattutto di progettare il proprio futuro.

Non è tanto diversa la storia di Alessia, laurea, esperienze all’estero, master e poi redattrice da 4 anni, e da 4 anni con partita IVA per un altro grande editore milanese “di cultura” e attiva fin da subito nella Rete e in San Precario.

Così vale per anche per Serena, Simona e tante altre redattrici e redattori.

lavoro culturale

Perché tante donne tra le redattrici precarie? Forse perché a tutti i motivi di sfruttamento citati sopra, va aggiunto il fatto che una donna che sceglie questo mestiere non può pensare di avere figli; altrimenti smette immediatamente i panni della redattrice precaria per indossare quelli della mamma disoccupata. Quanti possono permetterselo? Economicamente e a livello di dignità, umore, progetti di vita. Quale società ti mette di fronte alla scelta obbligata tra lavoro (attenzione: il lavoro non la “carriera”, secondo lo stereotipo che ci hanno venduto fino agli anni ’90) e famiglia? È tutta colpa della crisi?

Domande senza risposte, almeno convincenti.

L’unica soluzione possibile è fare, e non farsi schiacciare. Meglio se lo si fa restando uniti, recuperando almeno parte di quel tessuto di relazioni umane che si sta via via perdendo nelle città, nei quartieri, persino nelle redazioni del “lavoro culturale”.

Resistere, bisogna resistere, umanamente prima di tutto, perché l’uomo è (ancora) un animale sociale.

A pochi giorni dalla scomparsa del generale Giap che in Europa portò a coniare lo slogan 10-100-1000 Vietnam, oggi che il nostro orizzonte si è purtroppo ristretto anche politicamente, cerchiamo di salvare il salvabile gridando 10-100-1000 SUC!
Almeno.

 

La neve della Valpolicella

Valpolicella - vignetidi Alessandro Milani

Ci sono storie che in alcune zone, talvolta nemmeno geograficamente ristrette, sembrano scontate da quanto siano risapute; le stesse storie, anche a soli pochi kilometri di distanza, risultano invece sconosciute e sbalorditive.
Devono aver pensato questo i giornalisti dell’Arena di Verona quando, negli anni 60 del secolo scorso, hanno pubblicato un articolo sulla Valpolicella dal titolo “A Fumane nevica anche d’estate!”.

Gli abitanti del piccolo paese e della valle intera, invece, lo sapevano benissimo che a Fumane nevicava anche d’estate, e non un anno soltanto. E più di ogni cosa sapevano che la sostanza che imbiancava i campi, le strade e i tetti delle case non era neve, anche se da lontano ne aveva l’aspetto.

Non erano nemmeno i petali bianchi dei fiori del melo, che sembrano innevare le valli dedite alla pomicoltura nel mese di maggio…

No, purtroppo ciò che rendeva bianca questa zona della Valpolicella anche nei mesi estivi era la cenere prodotta dal cementificio di Fumane.

nevica d'agosto - locandina

Non era quindi una sostanza buona come la neve, sotto la quale la saggezza contadina vede nascondersi il pane.

Proprio i contadini erano invece i primi a pagare scelte produttive come quella che aveva portato al cementificio di Fumane. La Valpolicella, infatti, è famosa soprattutto per i prodotti della sua terra, in particolare le uve che servono agli ottimi vini che portano il nome della valle in tutta Italia e oltre, con Recioto e Amarone come punte di diamante.

Il dibattito, che ha preso spesso le sembianze dello scontro tra quali forme di produzione, quali diverse forme di visione del progresso stesso, cominciò a Fumane e oggi è ancora più vivo che mai. La valle, quasi un laboratorio dentro quel laboratorio più grande che è il NordEst della crisi, un NordEst post-postindustriale, continua infatti a vedere tra loro contrapposte idee, ideali e valori diversi.
Tutti gli abitanti della Valpolicella sono parte in causa, non soltanto gli attori istituzionali e gli imprenditori.

Il progresso in chiave industriale, che ha portato al cementificio (e non solo) oggi sembra perdente, ma non tutti vogliono rendersene conto. C’è chi non ha orecchi per intendere e c’è, come sempre, chi ha tutto l’interesse per non farlo.

La valle è infatti interessata a/e/da una nuova visione del progresso, così innovativa che fa tesoro del passato (agricolo) del territorio. Un progresso che non passa ma addirittura parte della valorizzazione del paesaggio, naturale e umano, o meglio, antropizzato: cultura del territorio, sapere contadino, turismo enogastronomico. Su tutto, la diminuzione del consumo del territorio, se non nel senso culturale del termine: bere Valpolicella e berne le storie, le tradizioni.

Sono questi i punti di partenza (la storia di Fumane) e arrivo (nuovi orizzonti della valle) di un documentario che si annuncia davvero interessante: Nevica d’agosto.
Prodotto dall’associazione culturale Nuvolanove (www.nuvolanove.it), in particolare dall’attrice e regista Lucilla Tempesti e dal giornalista Luca Martinelli, il documentario racconta la storia della Valpolicella attraverso la metafora delle diverse stagioni dell’anno.

Valpolicella - uveFiduciosi che l’ultima stagione del video, la primavera, risulti quella vittoriosa, il progetto si è già guadagnato il patrocinio di Slow Food Italia e quello del Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.

L’associazione Nuvolanove si è subito attivata anche nel partecipare agli eventi e alle manifestazioni che si susseguono in Valpolicella riguardo le “scelte” ambientali. Perché fare cultura oggi significa anche questo.

Il video non è ancora disponibile, perché attende il contributo di tutti: è infatti una “produzione dal basso” e l’associazione ha attivato diversi canali per raccogliere i fondi necessari a coprire almeno parte delle spese di realizzazione.
Chi sosterrà il progetto, oltre a ricevere copia del documentario, avrà subito in cambio i migliori prodotti della valle.
Sì, tranquilli, quando parliamo dei prodotti migliori parliamo dei vini, non del cemento. Lo avevate capito? Che il tesoro della Valpolicella stia nell’enogastronomia per fortuna ormai lo ha capito anche il progresso…

Per informazioni e per sostenere il progetto:

http://www.nuvolanove.it/n/spettacoli-2/video/nevica-dagosto/

http://www.nuvolanove.it/n/tag/nevica-dagosto/

Raccontare Storie rilancia il gusto di narrare

Archivio Martinelli

Dopo un fin troppo lungo periodo di riflessione, su di sé, sul senso della sua presenza in rete, una rete già di suo propensa al raccogliere storie, Raccontare Storie riparte, come un’ala in contropiede.

Lo fa anzitutto con due grandi, importanti novità: sarà la sede online dell’antienciclopedismo situazionista dell’Archivio Martinelli.
E si avvarrà della collaborazione di Carlo Martinelli stesso. Giornalista e scrittore trentino, appassionato di storie e divulgatore del (buon) gusto di leggere e narrare, Carlo curerà la sezione dell’Archivio, ma contribuirà anche ad arricchire l’intera rivista alla sue maniera, cioè con spunti originali, stimolanti, mai banali.

Un grande benvenuto a Carlo, al quale mi lega un ormai più che decennale rapporto di stima e amicizia, ma con il quale non avevo mai avuto la fortuna e il piacere di collaborare professionalmente. Ma si sa, le vie dell’underground sono infinite…

Buona lettura

Alessandro Milani

A Sonny piaceva il blues

SonnyListon_sportillustrateddi Roberto Mottadelli

St. Louis, Missouri, Novembre 1952.

Fuori gli uomini del quartiere, stretti negli impermeabili scuri e aggrappati alle loro sigarette, mormorano il nome esotico dell’atollo di Bikini, immancabilmente seguito da quello assai più familiare di “Ike”. Ike Eisenhower.

Dentro, in una piccola palestra di periferia, rimbalza tra corde e pareti il sassofono triste di Jimmy Forrest. Cullato dal riff struggente di Night Train, un giovane pugile colpisce il suo sacco. Il ragazzo ha pugni enormi e occhi spenti. Fin troppo facile intuire che non gli importa nulla né del nuovo presidente degli Stati Uniti né dell’esplosione della prima bomba all’idrogeno.

Due uomini osservano compiaciuti i suoi movimenti. Sono Monroe “Muncey” Harrison e Frank Mitchell. Muncey ha un passato importante, è stato lo sparring partner prediletto dell’immenso Joe Louis e l’allenatore di Archie Moore.

In un angolo, con la sua bibbia in mano, sta seduto padre Edward Schlattmann. Accenna un sorriso quando nota lo sguardo soddisfatto di Harrison e Mitchell: sa che, se quei tre uomini si trovano in quella palestra, il merito è suo. E del Signore, ovviamente. Perché è stato Lui a metterlo sulla strada di quel ragazzo nero dai muscoli spaventosi.

Forse, per farli incontrare, il buon Dio avrebbe potuto scegliere percorsi meno accidentati, ma le sue vie sono infinite. E non sta scritto da nessuna parte che un carcere non possa rientrare nel grande disegno divino. Padre Edward è il cappellano della prigione di Jefferson City. Cerca di dare una mano ai poveracci che finiscono dietro le sbarre: ogni tanto ci riesce ed è felice. Questa volta è felice e orgoglioso, perché non era semplice ottenere il rilascio di Charles, offrire un’altra possibilità a un nero analfabeta condannato a cinque anni. Però lui ha saputo intuire le potenzialità pugilistiche di quel ragazzo e lo ha aiutato ad allenarsi, finché non è diventato il campione della prigione; e solo allora ne ha parlato al suo amico Muncey. Che, insieme a Frank Mitchell, direttore di un giornale locale e titolare di una piccola scuderia di pugili, gli ha trovato un lavoro e una stanza in città, requisiti indispensabili per ottenere la scarcerazione.

Mentre lo guarda bersagliare il sacco, il sacerdote pensa al giorno in cui Charles è arrivato nel “suo” carcere. Rivede quello sguardo muto e quelle cicatrici fresche sul volto. Segni che non c’erano, prima che Charles fosse arrestato dalla polizia di St. Louis: per i solerti agenti bianchi addetti agli interrogatori, convincerlo a confessare e a tradire i suoi amici doveva essere stato – come dire? – assai faticoso. Meno complicato era stato arrestarlo: la sua mole non passava inosservata; per giunta, lui aveva compiuto le sue rapine a mano armata e i suoi brutali borseggi da quattro soldi indossando sempre la stessa, riconoscibilissima, camicia gialla.

SonnyListonIl ragazzo conosceva solamente il suo nome, Charles L. Liston, ma non sapeva scriverlo. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva la data e il luogo di nascita dava una risposta differente: non perché volesse mentire, ma perché davvero ignorava dove e quando avesse visto la luce. Ogni volta pronunciava il nome di un diverso paese dell’Arkansas e indicava un giorno a caso, in genere compreso tra il 1928 e il 1932. Secondo lui, nemmeno sua madre Helen ricordava sotto quali stelle fosse nato. Quanto al padre, Tobe Liston, il taciturno Charles non lo nominava quasi mai; nelle rarissime circostanze nelle quali ne parlava, pronunciava la stessa frase: “l’unica cosa che il mio vecchio mi ha dato, sono le botte”.

Charles Liston, o “Sonny”, come lo chiamavano i compagni di galera, è uscito nella notte di Halloween; padre Edward è certo che ora sia in buone mani e che possa provare a giocarsi le sue carte in modo onesto.

Padre Edward si sbaglia. Non sa che Frank Mitchell, l’uomo che ha trovato lavoro a Sonny nella Vitale Cement Contractors, dietro una facciata da irreprensibile paladino della comunità nera nasconde compromettenti amicizie; non sa nemmeno che il signor John Vitale, titolare dell’omonima ditta, è il poco legale rappresentante degli interessi della mafia a St. Louis. Mettendo le mani su Liston, Mitchell ha fatto un grosso affare: con un’unica mossa si è procurato un pugile promettente e un gigante che odia la polizia, abituato a picchiare duro e a non fare troppe domande, perfetto per risolvere gli affari sporchi di John, il capo.

Per Sonny comincia una doppia vita. Da un lato una serie di combattimenti sui ring dei dilettanti, tutti vinti in pochi minuti con impressionante facilità; dall’altro, pestaggi notturni ai danni di chi cerca di opporsi alla cosiddetta organizzazione. Lo stesso sinistro di devastante potenza si abbatte su chiunque abbia la sventura di trovarselo di fronte.

In poco tempo Liston colleziona quattordici arresti, uno dei quali per aver picchiato a sangue un poliziotto, e un’infinità di vittorie per KO, una perfino sul campione olimpico dei pesi massimi Ed Sanders.

Ben presto Mitchell e Vitale decidono di cominciare a trarre profitto anche dall’attività legale di Liston e, dopo meno di un anno di preparazione, lo iscrivono tra i professionisti: il suo primo avversario va al tappeto dopo 33 secondi. I successi a ripetizione suscitano l’attenzione di uno dei capi della mafia di Chicago, Frank Carbo detto il Grigio. Carbo controlla gran parte della boxe americana e trae immensi profitti dalle scommesse sugli incontri e dai guadagni dei pugili che, più o meno legalmente, gestisce; nel loro numero entra anche Liston.

Sonny ListonSul ring Sonny è spaventoso. La sua forza è pari solamente alla sua rabbia. Gli avversari sono letteralmente terrorizzati dal suo sguardo e dalla sua mancanza di scrupoli. “Quello ti fa male quando ti respira addosso. Mi ha colpito come nessun uomo merita di essere colpito” dichiara Marty Marshall, che ha avuto la disgrazia di battere Liston in un match probabilmente truccato e che si è trovato contro la sua furia nell’incontro di rivincita. “Quando gli vengono le sue rabbie, c’è da aver paura solo a guardarlo”, afferma Foneda Cox, sparring partner e amico di Liston.

Fuori dal ring, il pugile trascorre il tempo in compagnia di alcuni degli individui meno raccomandabili di Chicago, con i quali beve, corre in automobile e spesso si trova a trascorrere noiose giornate nelle patrie galere. Violenze, oltraggi e resistenze alle forze dell’ordine, ubriachezza molesta e guida pericolosa sono solo alcuni dei reati che gli vengono contestati.

Liston sa che i soldi che Carbo gli concede sono una minima parte di quelli che il padrino ricava dalle borse e dai contratti televisivi dei suoi combattimenti. Ma non cerca di sottrarsi al controllo del boss; nipote di schiavi e figlio di emarginati sfruttati, sembra non contemplare nemmeno l’idea della libertà. Dà per scontato che ci sia sempre un uomo bianco a impartire ordini e a raccogliere i frutti del sangue e del sudore dell’uomo nero: lo ha imparato da piccolo, quando tagliava cotone nei campi.

Allora ha imparato anche che gli uomini si dividono in due categorie: quelli che vengono picchiati e quelli che picchiano. Sa che, soprattutto per un nero, l’unico modo per non prendere botte è darle, nella vita come sul ring. Per questo Sonny non boxa: combatte. Prima di ogni incontro pensa solamente a distruggere il corpo dell’avversario e lo dice a chiare lettere.

Il pubblico lo detesta. Lo odiano sia i bianchi, per i quali incarna i peggiori stereotipi del nero criminale, sia i neri, che non vogliono essere rappresentati da un analfabeta, per giunta pregiudicato e in stretti rapporti con la mafia.

Liston sarà anche analfabeta, ma capisce con straordinaria lucidità le ragioni dell’ostilità che suscita. Dichiara: “Esistono i buoni e i cattivi. Io sono cattivo. I cattivi dovrebbero perdere. Io rompo la regola: vinco”. La sua storia, la sua stessa persona sono nello stesso tempo un’intollerabile atto d’accusa per i bianchi e una provocazione per i neri alla ricerca di integrazione. Liston è la cattiva coscienza dell’America, l’incarnazione di un passato tanto tragico quanto recente, fatto di schiavismo e brutalità: un passato che tutti gli americani preferirebbero rimuovere.

Floyd Patterson, il detentore della corona dei pesi massimi, è invece amatissimo dal pubblico. Colto, gentile, emblema del nero emancipato, è sostenuto da tutti. Nessuno vuole che perda il titolo: per questo, nonostante le ripetute sfide di Sonny, i suoi manager e la stampa riescono per qualche tempo a evitare lo scontro tra i due. Ma Liston è di gran lunga il più forte tra i pretendenti e non può essere evitato in eterno.

Alì-ListonIl 25 settembre 1962 Liston è in uno spogliatoio del Comiskey Park di Chicago. Il rumore del pubblico copre le note di Night Train: sono passati dieci anni dai tempi della polverosa palestra di Saint Louis, il blues si è evoluto e questa volta non è Jimmy Forrest, ma James Brown l’interprete dell’amata melodia. Nello spogliatoio accanto Floyd Patterson sente la paura montare nello stomaco. Sa che l’altro è più forte, ma non ha idea di quanto sia più forte. Sul ring, al cattivo bastano due minuti e sei secondi per stendere definitivamente il buono. Un anno più tardi, nell’incontro di rivincita, impiega solamente diciassette secondi in più.

Sonny Liston è il nuovo, indiscusso campione del mondo dei pesi massimi. Nessuno può batterlo: lo sostengono tutti gli esperti, a partire da Joe Louis, il più grande peso massimo della storia, e da Art Laurie, il più esperto arbitro di boxe in attività. Eppure il pubblico non si abitua all’idea che Liston sieda sul trono dei massimi. Un pugile con una fedina penale così sporca non può rappresentare gli Stati Uniti; soprattutto, non li può rappresentare un uomo che afferma di vergognarsi di essere americano, come fa Liston quando scopre che una bomba razzista ha ucciso quattro bambine di colore in una chiesa di Birmingham. Dopo l’assassinio di John Kennedy, la nazione ha un disperato bisogno di vedere vincere un bravo ragazzo per recuperare fiducia in se stessa.

Frank Carbo sa fiutare il vento e comprende che Sonny si sta trasformando in un cattivo affare.

Il 25 febbraio 1964 Liston sale sul ring per affrontare il giovane Cassius Clay, uno sfidante il cui talento è pari all’arroganza. Clay pare non avere la minima possibilità di vincere contro quello che lui stesso ha definito “un brutto orso cattivo”; sia il pubblico sia i giornalisti sono convinti che tra i due atleti non ci sia confronto: solo sedicimila persone pagano il biglietto per assistere all’evento.

Liston è nettamente favorito anche per bookmakers: alcuni quotano la sua sconfitta 5,5 a 1, altri addirittura 8 a 1. Ma pochi minuti prima dell’incontro, nello stesso istante, le ricevitorie di diverse città registrano puntate esorbitanti su Clay: la quota di Liston si riduce improvvisamente a 2 a 1. Chi frequenta il pugilato non ha bisogno di spiegazioni per comprendere quello che sta accadendo e per intuire come finirà il match. Gli uomini di Carbo hanno scommesso una fortuna sullo sfidante e lo sfidante vincerà. Carbo non perde mai i suoi soldi.

All’inizio del settimo round Sonny resta fermo al suo angolo e dice all’arbitro di essersi infortunato a un braccio. Liston, l’orso che ha saputo combattere anche con la mascella fratturata, si ritira a causa di un presunto tendine dolorante.

La combine è fin troppo evidente. Viene aperta un’indagine ufficiale che, secondo le migliori tradizioni, non approda ad alcun risultato: il popolo è felice, questo è ciò che conta. Gli Stati Uniti hanno il loro nuovo campione, un giovane, moderno, che sa parlare e cura la sua immagine. Gli Stati Uniti ancora ignorano che quel ragazzo si è convertito all’Islam e che presto si rifiuterà di prestare servizio in Vietnam.

L’inevitabile incontro di rivincita tra Liston e Clay, che ora si fa chiamare Mohammed Ali, crea grossi problemi a chi lo deve organizzare. Nessun grande impianto vuole ospitare la riedizione della farsa di febbraio, nessuno è disposto a pagare il biglietto per vedere uno spettacolo dall’esito scontato. Il match viene organizzato nella piccola città di Lewiston, con la miseria di 2432 spettatori sugli spalti. Il 25 maggio 1965, al terzo pugno scagliato da Ali (un pugno che a giudizio di molti non raggiunge nemmeno il bersaglio), Liston cade goffamente al tappeto. È il più improbabile e plateale dei KO, subito per giunta al primo round.

Pochi giorni dopo la sconfitta, Sonny è seduto in un bar. Chiacchiera con i soliti amici, uomini duri, gente con un passato e un futuro dietro le sbarre. Gente che ripensa a quando, un anno prima, Clay era entrato nel loro locale per fare una delle sue piazzate da pagliaccio. Quel ragazzino se l’era letteralmente fatta sotto quando Sonny si era voltato con il suo sguardo da assassino e la stecca da biliardo in mano. Sonny non aveva avuto bisogno di dire nemmeno una parola, oltre a quel “porta il tuo culo nero fuori di qui” pronunciato a mezza voce.

Sonny Liston

Ora gli amici sono perplessi. Non perché il campione abbia perso contro quel provocatore: conoscono le regole del gioco, sanno bene che, anche volendo, Liston mai potrebbe opporsi agli ordini di Carbo, perché solamente il mafioso di Chicago è in grado di tenerlo fuori dal carcere. Questione di avvocati, conoscenze altolocate e capacità di mettere a tacere i testimoni più scomodi. Piuttosto, sono stupiti dal suo atteggiamento, si aspetterebbero di vederlo più inquieto e rabbioso dopo la perdita del titolo.

Ma Sonny ha una buona ragione per essere così sereno. Poco prima del primo incontro con Clay ha firmato un contratto con i manager dell’avversario. Gli amici non sanno nulla, ma quel contratto gli assegna una ricca percentuale sugli incassi delle prossime sfide del rivale. Liston non ha studiato, però ha capito che gli incontri di un nuovo campione, giovane e amato dalla folla, sono assai più redditizi di quelli di un vecchio orso mal sopportato da tutti. La sconfitta, almeno in teoria, è stata un affare: perdendo, si è posto nelle condizioni di guadagnare più di quanto avrebbe potuto fare conservando il titolo. Liston, forse per la prima volta nella vita, avverte la sensazione di essere un uomo ricco e soprattutto libero.

Ma nessun individuo può sfuggire al suo destino, e le stelle che splendevano sulla nascita di Sonny, in qualsiasi giorno essa sia avvenuta, non sono le stesse che brillano nel cielo degli uomini felici.

Nel 1967, a causa delle posizioni assunte circa la guerra del Vietnam, Mohammed Ali viene privato del titolo ed escluso dal mondo della boxe; per quattro anni non guadagna un dollaro. Liston si ritrova costretto a continuare a soffrire sul ring, ad affrontare di nuovo l’ostilità della stampa e del pubblico. Nonostante le continue vittorie, e nonostante i 72 punti di sutura al volto ai quali, nel giugno 1970, deve ricorrere uno dei suoi avversari (il quotato Chuck Wepner), nessuno gli concede la possibilità di battersi per la riconquista del titolo più prestigioso.

Il 6 gennaio 1971 Sonny Liston è disteso sopra un tavolo di marmo in un ospedale. Accanto a lui c’è il medico legale della Palm Mortuary di Las Vegas. Il coroner sta scrivendo un referto nel quale spiega che Sonny è morto da alcuni giorni per anossia miocardica, probabilmente causata da un’overdose di eroina. Sul suo foglio annota molte altre cose, per esempio che sulla schiena di Sonny ci sono tracce di frustate inflittegli molti anni prima, probabilmente quando era ancora bambino.

Quel foglio e la successiva indagine della polizia raccontano molte cose sulla vita di Liston, ma non spiegano in modo esaustivo né quando né perché il campione sia morto. Per esempio, non dicono come mai un poliziotto abbia dichiarato di aver visto Liston vivo il 30 dicembre 1970, mentre secondo i risultati dell’indagine sarebbe morto il 29. Non chiariscono come solo pochi mesi prima un presunto tossicodipendente sull’orlo dell’overdose abbia potuto distruggere un atleta di razza come Wepner. Soprattutto, non dicono come avrebbe potuto iniettarsi dell’eroina un uomo che aveva un terrore patologico degli aghi, secondo quanto testimoniano tutti gli amici e i medici che in diversi momenti sono stati accanto a Sonny. Liston, infatti, non si sottoponeva ad anestesia nemmeno per le devitalizzazioni dei denti; un medico afferma addirittura di aver rischiato di essere preso a pugni mentre, poco tempo prima, tentava di iniettargli dei farmaci in seguito a un incidente automobilistico.

Curiosamente, nessuno dei detective che indagano sulla morte di Liston osserva che, dopo quattro anni di esilio forzato, proprio in quei giorni Mohammed Alì sta ottenendo la possibilità di tornare sul ring. I suoi manager si apprestano a firmare contratti milionari.

Il 9 gennaio 1971 gli amici di una vita accompagnano la salma di Sonny Liston nel Paradise Memorial Garden di Las Vegas. Qualcuno di loro pensa a quanto Sonny sarebbe felice di sapere che al suo funerale c’è, in lacrime, anche la grande Ella Fitzgerald.

Davanti agli occhi dell’interprete di St. Louis Blues, sulla tomba del campione viene deposta una lapide sulla quale compare solamente la scritta “a man”. Forse è giusto così, che l’ultimo degli schiavi giaccia sotto una pietra anonima.

 

(Per la prima immagine: Sonny Liston to Challenge Floyd – Boxing February 12, 1962 credit: Mark Kauffman – contract; per la seconda: Boxer Sonny Liston winner heavy weight bout, photo by Robert W. Kelley//Time Life Pictures/Getty Images; per la quarta: www.britannica.com)

Umori d’Albione: Il libro dei nonsense di Edward Lear

Lear, libro dei noinsensedi Martino Negri

Alice cominciava a non poterne più di stare sulla panca accanto alla sorella, senza far niente; una volta o due aveva provato a sbirciare il libro che la sorella leggeva, ma non c’erano figure né dialoghi, «e a che serve un libro», aveva pensato Alice, «senza figure e senza dialoghi?» [1]

Il libro dei nonsense di Edward Lear, finalmente pubblicato da Einaudi in edizione economica [2], con testo a fronte, è una raccolta di brevi componimenti in versi accompagnati da altrettante vignette disegnate dall’autore, alle quali i primi sono indissolubilmente legati. Caratterizzati da una medesima, rigorosa struttura compositiva e da un gusto letterario eminentemente ludico, i limericks – come sono universalmente conosciuti, sebbene Lear non li abbia mai chiamati in tal modo [3]– si inseriscono nella ricca tradizione britannica della letteratura nonsense: scevra da ogni impegno di natura didascalica o morale e intesa piuttosto al puro diletto degli occhi e del pensiero.

Lear iniziò a disegnare «buffi animali e omini, spesso accompagnando i disegni con versucoli scherzosi, che rappresentano il seme delle future rime nonsensical»[4], negli anni ’30 dell’Ottocento, a uso e consumo dei nipoti e pronipoti di Lord Stanley, dodicesimo conte di Derby, dal quale aveva ottenuto l’incarico di raffigurare gli animali che vivevano nel serraglio della sua tenuta di Knowsley Hall.

Pubblicati tra il 1846 (A Book of Nonsense) e il 1871 (More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.), ilimericks di Edward Lear, o learics come alcuni li chiamano [5], sono considerati un classico della letteratura britannica per l’infanzia.
Il merito di Lear fu quello di portare a una più rigida codificazione, nonché a una maggior diffusione, una forma letteraria che affondava le sue radici nella tradizione orale – filastrocche, ninna-nanne – ma che aveva, già al suo tempo, conosciuto l’onore della carta stampata; tra il 1820 e il 1822 erano infatti comparsi tre volumetti di poesie illustrate che presentavano la struttura metrica e i temi tipici dellimerick leariano: The History of Sixteen Wonderful Old Women, illustrated by as many engravings: exhibiting their principal Eccentricities and Amusements (1820), Anecdotes and Adventures of Fifteen Gentlemen (1821) e Anecdotes and Adventures of Fifteen Young Ladies (1822)[6], i quali si inserivano nel contesto dello straordinario sviluppo che la prima editoria illustrata di massa – appoggiata «sull’invenzione e la messa a punto della litografia e sul perfezionamento della tecnica riproduttiva delle incisioni su legno» [7]– ebbe proprio nel terzo decennio del XIX secolo.

Il limerick, dunque – inteso come forma poetica mista di versi e disegni, con caratteristiche formali e tematiche riconoscibili e costanti – esisteva già molto tempo prima che Lear cominciasse a scriverne, anche se furono proprio i suoi a decretare il definitivo successo e la straordinaria diffusione del “genere”. Consistenti in singole strofette di cinque righe[8], con versi a ritmo giambico anapestico – comune nella poesia ‘umoristica’ inglese – e schema di rime aabba, ilimericks hanno tre versi di tre piedi (i primi due e l’ultimo) e due più brevi, di soli due piedi (terzo e quarto verso).

There was an Old Person of Pinner,
As thin as a lath, if not thinner,
They dressed him in white,
And roll’d him up tight,
That elastic Old Person of Pinner. [9]

Ogni composizione introduce un personaggio bizzarro che agisce o patisce situazioni che esorbitano dalla sfera della logica e del buon senso comune, lasciando il lettore di stucco. L’eccentricità di comportamenti o situazioni è il perno intorno al quale ruota il meccanismo del divertimento; ma a innescarlo sono il tono del racconto – «ovvio, tranquillo, privo di qualsiasi moto di stupore» [10] – e la presenza dei disegni, che danno corpo visibile al cortocircuito logico suggerito dalle parole. Significativo, in questo senso, appare il titolo della più antica raccolta dilimerick conosciuta – la già citata Storia di Sedici Meravigliose Vecchiette, illustrate con altrettante incisioni: le quali mostrano le loro principali Eccentricità e Spassi – nel quale è sottolineata l’importanza che in tale forma poetica assumono sia l’elemento visivo (le incisioni, tante quante sono le storie) sia il motivo dell’eccentricità, ovvero di una distanza dalla norma che disorienta e produce allegria, divertimento. Lear stesso decise di aprire il suo primo volume di rime ‘senza senso’ con un limerick che pare quasi una dichiarazione di poetica:

Lear, libro dei noinsenseThere was an Old Derry down Derry,
Who loved to see little folks merry;
So he made them a book,
And with laughter they shook
At the fun of that Derry down Derry.[11]

Egli dunque non inventò il “genere”: si limitò piuttosto a perfezionare ciò che la tradizione gli offriva, limitando le varianti possibili allo schema di base e accompagnando i versi con illustrazioni stilizzate e surreali, connotate – in senso espressivo – assai più di quelle presenti nelle prime raccolte pubblicate. Ed è facile notare come la maggior parte dei limericksleariani non solo segua rigorosamente lo schema di rime e il ritmo stabiliti dalla tradizione, ma utilizzi anche alcune “formulae verbali” – come le chiama Marco Graziosi – ricorsive e limitate [12].

Il primo verso introduce il personaggio, del quale – o della quale – è generalmente indicato il luogo di provenienza o quello in cui si sviluppa la sua azione:

a) There was an Old Man of the Hague,

b) There was an Old Man in a Marsh

Nel secondo verso trova spazio la caratterizzazione del personaggio, del quale si raccontano abitudini insolite o particolarità fisiche e d’indole:

a) Whose ideas were excessively vague;

b) Whose manners were futile and harsh;

Terzo e quarto verso sono in genere strettamente narrativi, assumendo addirittura, spesso, la forma dialogica: mentre il primo e il secondo verso offrono una visione in qualche modo extra-temporale del personaggio, questi ultimi lo collocano in un punto preciso del tempo, il momento cruciale della sua fulminea esistenza, quello, anzi, in cui il suo destino pare compiersi e trovare un senso o, ancor meglio, un ‘non senso’.

a) He built a balloon
To examin the moon,

b) He sate on a Log,
And sang Songs to a Frog,

L’ultimo verso, infine, ricalcato sul primo, chiude la composizione riportando l’attenzione sul personaggio, al quale viene ora attribuito un aggettivo nel quale, come in un emblema, sia racchiusa la sua natura più profonda.

a) That deluded Old Man of the Hague.[13]

b) That instructive Old Man in a Marsh. [14]

Edward LearSignificativa – tra le ‘formule verbali’ ricorrenti – quella iniziale, ‘There was…’: presente in tutti i limericksleariani, la sua funzione è la stessa che riveste, nelle fiabe di ogni tempo, l’espressione italiana del “C’era una volta…” [15] , ovvero di introdurre il lettore in un mondo altro, una dimensione parallela ma distanziata nello spazio e nel tempo, in cui non vigono le categorie, immaginative e razionali, alle quali abitualmente ci si attiene.
L’universo in cui vivono i personaggi di Lear, infatti, è «l’incongruità trionfante. È l’assurdo trasportato in un’atmosfera poetica. È una felice vacanza dal mondo dei sensi, un rapido scorcio d’un altro mondo…»[16].

Un rapido scorcio di un altro mondo, scrive John Boynton Priestley, utilizzando un’espressione che se da un lato sottolinea l’immediatezza, la rapidità con la quale Lear riesce a tratteggiare i suoi personaggi – la cui vita pare condensarsi in un unico gesto o avventura emblematici – dall’altro induce alla tentazione di accostarlo a un suo contemporaneo francese, inventore anch’egli di universi paralleli: Grandville, che dava alle stampe il suo libro più complesso, il celebre e bellissimo Un autre monde, nel 1844, giusto un paio d’anni prima del Book of Nonsense di Lear.
Fitta, in entrambi, la presenza di pesci, uccelli e altre bestie con i quali una varia umanità interagisce, dando vita a situazioni paradossali, o ai quali le persone finiscono per assomigliare [17]: eppure Lear non si serve degli animali, come invece fa Grandville, per portare avanti un discorso fortemente polemico – per quanto stemperato dalla satira – nei confronti della società del suo tempo [18].

Legata senza dubbio alle inclinazioni personali dell’artista, che fin dalla prima giovinezza s’era distinto per le sue abilità nella raffigurazione del mondo zoologico, la forte presenza di animali nei limericksleariani è dovuta anche, io credo, al peso di una tradizione favolistica millenaria nella quale – si pensi anche solo a Esopo, oppure a Fedro – proprio loro sono i protagonisti delle storie: con la differenza che nessuna intenzione didascalica, moralistica o pedagogica, muove l’estro di Lear, per il quale parole e figure sono semplicemente trampolini di lancio per qualche felice capriola del pensiero.

There was an Old Man who said, ‘Hush!
I perceive a young bird in this bush!’
When they said, ‘Is it small?’
He replied, ‘Not at all!
It is four times as big as the bush!’ [19]

Oppure

There was an Old Person of Skye,
Who waltz’d with a Bluebottle Fly:
They buzz’d a sweet tune,
To the light of the moon,
And entranced all the people of Skye. [20]

Edward LearNel 1861 A Book of Nonsense venne pubblicato in edizione ampliata e fu accolto con straordinario favore dal pubblico: tale successo segnò la consacrazione definitiva della forma poetica e dell’uomo che l’aveva saputa coltivare e distillare, Edward Lear, consideratone spesso non solo il maestro, ma addirittura l’inventore. Da quel momento in poi il genere ha conosciuto sempre più estimatori, e non solo fra i comuni lettori, ma anche fra i grandi della letteratura contemporanea, che ne sperimentarono spesso, e con gusto, anche la declinazione erotica o addirittura triviale [21]:

There was a young plumber of Leigh
Who was plumbing a girl by the sea.
She said: “Stop your plumbing,
there is somebody coming!”
Said the plumber, still plumbing, “It’s me!” [22]

In qualche misura debitore di Lear è persino, io credo, l’americano Tim Burton, che nel 1997 pubblicava The Melancholy Death of the Oyster Boy & Other Stories, uno scarno volumetto di poesie illustrate che si presenta come una galleria tragicomica di creature allucinate ed emarginate, delle quali sono raccontate le vicende amare e straordinarie: ogni poesia introduce un personaggio ed è accompagnata da uno o più disegni dell’autore, a seconda della sua lunghezza [23];ma se in Lear ogni cosa pare fatta d’aria e di luce, di scintilla e di sorriso (anche laddove la morte fa la sua comparsa), in Burton è tutto ctonio e caliginoso, intriso d’angoscia esistenziale e solitudine:

There once was a morose melonhead,
who sat there all day
and wished he were dead.

But you should be careful
about the things that you wish.
Because the last thing he heard
was a deafening squish. [24]

E d’altra parte, lo humour che pervade i suoi versi tende a essere tetro più che nero, a volte persino raccapricciante:

The Boy with Nails in his Eyes
put up his aluminium tree.
It looked pretty strange
because he couldn’t really see. [25]

Libro delle follieIn Italia la fortuna del limerick è iniziata molto più tardi che in Inghilterra, naturalmente. I pochi che ne conoscevano l’esistenza li facevano girare tra gli amici[26], componendone magari a loro volta, soprattutto di salaci, ma fu proprio Carlo Izzo, traduttore nonché curatore dell’edizione tascabile Einaudi, a darne per primo notizia al pubblico, nel 1935, sul numero di novembre dell’Ateneo Veneto:
E fu ancora Izzo a portare a compimento la prima traduzione in lingua italiana di tutti i limericks del poeta britannico, pubblicata nel 1946 dalla casa editrice Il Pellicano di Vicenza con il titolo di Il libro delle follie [27]; nel 1954 l’editore fiorentino Neri Pozza – che un paio d’anni più tardi avrebbe pubblicato la prima edizione della Bufera di Montale – ne rimise in circolazione [28]le copie invendute, ritirate poco tempo prima dall’editore vicentino che aveva chiuso i battenti.
Nel 1970, infine, Einaudi ripubblicò la traduzione di Izzo – con testo originale a fronte – nella prestigiosa collana “I millenni”, sancendone definitivamente il successo anche nel bel paese [29]: nella stessa collana figuravano i maggiori classici della letteratura per l’infanzia, dalle favole di La Fontaine alle fiabe dei fratelli Grimm, da L’isola del tesoro di Stevenson alGiro del mondo in ottanta giorni di Verne [30].

Era stato nell’autunno tragico del 1943 che Izzo, su sprone di alcuni amici[31] aveva deciso d’imbarcarsi nel progetto della traduzione completa dei limericksleariani, trasformando in una sorta di dovere morale quello che fino a quel momento era stato solo un divertimento privato, un’occasione, tutt’al più, per amicali buffi parlamenti. Nel dicembre dello stesso anno aveva già terminato la traduzione. Una traduzione che è diventata, a sua volta, un “classico” della nostra letteratura, nonostante l’inevitabile perdita – nel passaggio alla lingua italiana – di tutta una serie di elementi di natura ritmico musicale nei quali risiede una parte non certo esigua del fascino originario dei limericks.

Perché leggere, oggi, le poesie nonsensical di Edward Lear? Raccontano ancora qualcosa della realtà che ci circonda? L’hanno mai fatto? Non lo so. Eppure sono convinto che leggere – o rileggere – oggi Il libro dei nonsense potrebbe rivelarsi una sana operazione di igiene mentale: viviamo in un’epoca in cui l’oppressione dell’individuo si manifesta in forme più sottili e subdole di quando un gruppo d’amici convinceva un giovane studioso di letteratura inglese a tradurre un’opera folle e intraducibile. Il pregio maggiore del volume di Lear è forse proprio quello di essere semplicemente un libro, un bel libro scritto con piacere, con amore per le parole e i disegni. Punto.
«Ehi! – direbbe molto probabilmente Alice – Ci sono dialoghi… e anche figure!»
Cosa si può desiderare di più da un libro?

Note

1 L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Milano, Longanesi, 1971, p. 27.



2 E. Lear, Il libro dei nonsense, Torino, Einaudi, 2004. Il volume è stato curato e tradotto da Carlo Izzo.



3 Lear chiamava queste sue composizioni nonsense rhymes o anche nonsense rhymes and pictures; e d’altra parte, la parolalimerick compare per la prima volta – a quanto scrive l’Oxford English Dictionary – in una lettera di Aubrey Beardsley nel 1896, quando Lear era già morto da alcuni anni.



4 C. Izzo in E. Lear, op. cit., p. XIX.



5 Learic deriva dalla fusione di Lear e di lyric (che in inglese significa poesia, lirica) e vorrebbe indicare un genere di poesia – il limerick appunto – avvertita come specificamente leariana; non dimentichiamo, tuttavia, che i limericks non rappresentano che una porzione della ben più ampia produzione letteraria e figurativa dell’autore.



6 Tutte le informazioni sulla storia e l’evoluzione del limerickcome forma poetica sono desunti dal saggio di Marco Graziosi e da altri suoi contributi presenti nel sito: www.nonsenselit.org/Lear/index.html.



A. Negri, Grandville, in Grandville, Un autre monde, Milano, Mazzotta, 1982 (ristampa anastatica dell’omonimo volume pubblicato nel 1844), p. V.



8 A volte, per fare economia di spazio i versi vengono stampati in tre righe, accorpando il primo col secondo e il terzo col quarto, oppure in quattro, unendo solo il terzo col quarto: in tali casi, naturalmente i versi neonati presenteranno una rima al mezzo.



9 «C’era un vecchio di Corfù/ Sottile come un’asse e forse più;/ Gli misero un càmice bianco/ E lo arrotolarono su tutto quanto,/ Quell’elastico vecchio di Corfù». ». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 256-7.



10 C. Izzo, Umoristi inglesi, Torino, Eri, 1962, p. 71.



11 «C’era un vecchio Din Din di Rindini/ Cui piaceva veder ridere i bambini;/ Fece allora un bel libro coi pupazzi,/ Fin che risero tutti come pazzi/ Alle trovate di quel Din di Rindini». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 2-3.



12 Graziosi nota, ad esempio, che l’aggettivo old (vecchio) è quasi invariabilmente associato a man (uomo) o person(persona), laddove young è sempre associato a lady (signora) o, in alternativa, a person; person – prosegue – è la variante bisillabica di man, utilizzata da Lear per ragioni di natura ritmica e metrica quando la parola che indica il luogo di provenienza è monosillabica o bisillabica ma accentata sulla prima sillaba (l’assenza di una variante monosillabica per lady spiegherebbe a questo punto la predominanza di figure maschili nei limericksleariani). La prima linea – conclude Graziosi – segue dunque uno schema semplice e rigoroso nella stragrande maggioranza dei casi (88 su 112 in A book of Nonsense e 84 su 100 in More Nonsense, Pictures, Rhymes, Botany, etc.):

There was    a(n)     Old         Man     of     X
Young      Lady
Person


13 «C’era un vecchio di Praga/ Dalla mente quanto mai vaga;/ Costruì un aeronave di fortuna/ Per osservare la luna,/ Quell’illuso vecchio di Praga». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 150-1.i>



14 «C’era un vecchio di Palude/ Di natura futile e rude;/ Seduto su di un rocchio/ Cantava stornelli a un ranocchio,/ Quel didattico vecchio di Palude». Ivi, pp. 258-9.



15 Dal “C’era una volta” delle fiabe tradizionali, che già Collodi, nella seconda metà dell’Ottocento, citava come formula costituita (e in questo senso possibile oggetto di parodia, oppure variazione) – «C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.» – all’analoga espressione ingleseOnce upon a time… con la quale si apre – nel contesto della mitologia contemporanea – una delle saghe cinematografiche più amate di tutti i tempi, quella di Star Wars: «Once upon a time/ in a galaxy so far…». G. Lucas, Star Wars, Twentieth Century Fox, 1977.



16 J.B. Priestley, citato in C. Izzo, Umoristi inglesi, cit., p. 75.



17 Ciò accade in 37 limerick su 109 nella sua prima raccolta e in 39 su in 103 nell’ultima. Sarebbe interessante a questo proposito indagare se Lear avesse maturato interessi fisiognomici analoghi a quelli goethiani o se semplicemente si divertisse a rimarcare i tratti comuni di uomini e bestie.



18 «Animali vestiti da uomini raccontano i vizi, le passioni, le debolezze, le idiosincrasie del tempo. Ma dietro il tono da favola, che oggi più facilmente si coglie, le tavole di Grandville erano già ricche di allusioni politiche così precise da essere immediatamente vietate dalla censura». A. Negri, op. cit., p. V.



19 «C’era un vecchio di Brusuglio/ Che scoprì un uccellino in un cespuglio;/ Quando gli chiesero: «È ancora da nido?»/ «No, davvero! – rispose indispettito – / È quattro volte più grande del cespuglio!». E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. 158-9.



20 «C’era un vecchio di Ripatransone/ Che valzeggiava con un moscone:/ Zufolavano amabili ballate/ Sotto la luna d’estate,/ E incantavano tutta Ripatransone». Ivi, pp. 420-1.



21 Scrissero limericks persino James Joyce e Isaac Asimov.



22 «C’era un giovane idraulico di Leigh/ che stava impiombando una ragazza in riva al mare./ “Fermati – disse la ragazza –/ qualcuno sta venendo!”/ Rispose l’idraulico, senza fermarsi, “Sono io!”». Si tratta di un limerick che si regge principalmente sul meccanismo del doppio senso: da quello più banale del verbo to come (venire), a quello difficilmente traducibile del verbo to plumb, che significa sia ‘impiombare’ ovvero ‘sigillare con il piombo’ (il termine, tecnico, è legato al mestiere dell’idraulico, ma è anche ampiamente utilizzato, in senso metaforico, per indicare l’atto sessuale), sia ‘scandagliare’ ovvero ‘misurare la profondità’ di qualcosa, che arricchisce la scena con ulteriori sfumature di senso. È stato attribuito a William Cosmo Monkhouse (1840-1901), autore di svariate raccolte di versi, tra le quali una intitolata proprioNonsense Rhymes (London, R. Brimley Johnson, n. d.), illustrata da Gilbert Chesterton.



23 A differenza dei limericks leariani, le poesie di Tim Burton non rispettano un rigoroso schema compositivo né ritmico e hanno lunghezze molto variabili.



24 «C’era una volta una cupa testa di melone/ che se ne stava seduta tutto il giorno/ desiderando d’essere morta./ Ma bisogna fare attenzione/ con le cose che si desiderano./ Perché l’ultima cosa che sentì/ fu un assordante squish». Melonhead, in T. Burton, The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories, New York, Morrow, 1997, pp. 94-5.



25 «Il ragazzino con i chiodi negli occhi/ montò il suo albero di alluminio. / Aveva un aspetto assai strano/ perché egli, in verità, non poteva vedere». The Boy with Nails in his Eyes, in T. Burton, op. cit., pp. 22-3.



26 Fosco Maraini, ad esempio, racconta di averli usati come espediente per tener desta l’attenzione dei suoi allievi d’inglese, i cadetti dell’Accademia Navale di Livorno. Cfr. F. Maraini, Case, amori, universi, Milano, Mondadori, 1999, p. 260.



27 Ne furono stampate solo mille copie, centocinquanta delle quali numerate e rilegate.



28 Con una nuova copertina.



29 Altre traduzioni italiane sono quelle di Renato Bellabarba (Nonsensi, Roma, G. Bardi, 1961) e Ottavio Fatica (Limericks, Roma-Napoli, Theoria, 1994; Einaudi, 2000); nel 1972 era anche uscita un’edizione Einaudi con illustrazioni di Luciana Rosselli (Poesie senza senso, Torino, Einaudi, 1972).



30 E d’altra parte, con il diffondersi del genere, anche l’Italia, come tutti gli altri paesi del mondo, ha conosciuto estimatori dellimerick salace. Tra i tanti, l’ubiquo Federico Gobbo, fondatore – al principio degli Novanta – della Società dei Poeti Viventi: percelebre addirittura il suo limerick dedicato all’amica di Nonna Speranza di gozzaniana memoria: «Ormai vecchia e rugosa è l’amica/ di Nonna Speranza, grommata la fica/ dal gusto un po’ amaro/ ch’appasta i baffi, raro/ aroma antico d’anziana e d’amica».



31 Tra i quali anche il futuro editore Neri Pozza: si tratta di Aldo Camerino, Manlio Dazzi e Antonio Pellizzari. Izzo ne parla in un passo della sua introduzione al volume. Cfr E. Lear, Il libro dei nonsense, cit., pp. XXII-III.

I tangerine dreams del cibo di strada

cibo di strada a Tangeritesto e foto di Ornella Tommasi, da Tangeri

 

Il carrettino percorre i vicoli della vecchia Medina almeno due volte al giorno, con su quattro o cinque teglie impilate, per mantenere caldi gli strati sottostanti. Una moneta da 1 dirham, poco meno che 10 centesimi di euro, per una fetta di shruna, la regina dei cibi di strada qui a Tangeri, nel Nord del Marocco. Farina di ceci impastata con acqua, un filo d’olio, un passaggio rapido nel forno tradizionale di strada che le dà quel bel colore abbrustolito in superficie senza toglierle la consistenza morbida, quasi cremosa. I cibi viaggiano con gli uomini, e basta ricordarsene per risalire al pedigree di questa shruna, aggettivo arabo che sta per “calda”: “caliente” in spagnolo, a un solo braccio di 15 chilometri di mare da qui e, via via risalendo, “bell’e calda” in Liguria, “farinata” e “cecina” riscendendo di nuovo fino alla Toscana.
Non ne abbiamo le prove, ma ci piace immaginarcela come la traccia profumata e appetitosa lasciata da quel manipolo di genovesi sbarcati su questa costa africana al seguito di Garibaldi, in esilio volontario tra l’inverno del 1849 e la primavera del 1850.

cibo di strada a Tangeri

Il viaggio della shrouna finisce qui, inutile cercarla a Sud di Tangeri, città di frontiera da cui la Spagna si vede a occhio nudo, quando la luce è favorevole. La pastilla spagnola, triangolini di pasta sfoglia ripiena di carne di piccione, ormai quasi del tutto rimpiazzato dal pollo, aromatizzati alla cannella e spolverati di zucchero a velo, viaggia su un vassoio offerto ai passanti ma anche ai clienti dei caffè’ all’aperto o al chiuso: qui non vale l’interdizione dei “cibi propri” da consumare seduti al tavolo, la pratica è diffusa e per niente malvista. Cambi di poco la postazione, verso la grande piazza che segna il limite della città vecchia, e entri nel territorio delle lumache: altra tipologia di carrettino, pentoloni fumanti accanto alla pila di scodelline dove si versano assieme al loro brodo speziato e qualche stuzzicadenti per estrarle dal guscio a completare il kit. E volendo, anche se l’abbinamento non è dei più raffinati, un contorno di fave e ceci lessati venduti a cartoccetti, vago rimando ai lupini, la fusaja dei romani di una volta. Un po’ dovunque, in città, grandissima scelta di dessert: ciambelle, bomboloni, dolci al sesamo, pasticcini di mandorle. Niente a che vedere con le montagne di dolci sgocciolanti miele, gli sbakia tipici di Ramadan, il mese sacro che porta con sé tutto un menu caratteristico, di forte valore simbolico, specifico per la rottura del digiuno.

Ma per quello bisogna aspettare qualche settimana.

Di padre in figlio come nelle botteghe medievali: la Ferramenta Orini di via Imbonati

Ferramenta Orini, Milanodi Giorgia Rozza

Una wunderkammer di cinquecentesca memoria, piccola come lo studiolo di un nobile collezionista di bizzarre mirabilia, oppure una bottega che avrebbe fatto la gioia di un dadaista, zeppa di oggetti: alcuni riconoscibili anche a chi non è appassionato di bricolage, altri misteriosi. Parti di rubinetti, caschi da lavoro, pinze di ogni tipo, forbici per il giardinaggio, graffettatrici, crick per cambiare le gomme dell’auto, flessibili, chiodi, rivetti e bulloni sembrano accatastati in apparente disordine e invece al suo interno, un interno che odora di gomma e ferro, si muovono a completo agio Luigi Orini, classe 1942, calvo e accigliato e suo figlio Davide, 38 anni, un viso dolce e pulito sopra il camice blu di ordinanza.

C’è poco spazio per muoversi all’interno della Ferramenta Orini, perché di gente che compra ce n’è eccome e fa la fila nell’ingresso con il pavimento di marmo scuro disegnato a grosse losanghe e mai  sostituito dagli anni Quaranta. I clienti sembrano tanti perché lo spazio è ridotto, in realtà sono solo tre alla volta ma il flusso è contino. Anche se è facile immaginare che non spendano molto per quelle poche ferraglie che acquistano, impacchettate con cura in fogli di carta pesante da Luigi e Davide e poi chiuse con lo scotch, il lavoro non manca. Sono venticinque metri quadrati di negozio ma, tolto il bancone e gli altri mobili, non ci si muove quasi. Poi c’è l’ancor più piccolo retrobottega dove si fa fatica a entrare perché interamente occupato da sporgenti mensole sulle quali fanno bella vista di sé centinaia di scatolette di cartone impolverato di varie misure che contengono, mi dice Luigi, soprattutto bulloni.

Ferramenta Orini, Milano

Un’atmosfera d’antan quella che si respira dagli Orini che fa il curioso e singolare paio con quella dell’adiacente Posteria Bertelli ininterrottamente aperta dal 1939 sulla via Imbonati dove sono rimasti quasi solo questi due negozi italiani, guarda caso entrambi con una lunga storia familiare alle spalle. La ferramenta è un po’ più giovane: f,u aperta nel 1945, quando le bombe alleate smisero di fischiare sui cieli di Milano e la gente era in festa per la fine della guerra. “Non ho iniziato io questa attività” – dice Luigi mentre continua a lavorare senza guardarmi – “Io sono ferramenta perché lo erano i miei che, a loro volta, presero in mano l’attività dei miei nonni Anna e Felice che aprirono negli anni Venti un grande punto vendita in zona Porta Nuova. Allora, ovviamente, il negozio riforniva le aziende più che i privati. E lo facevo anche io in questa piccola bottega  fino agli anni Ottanta. Poi è arrivata l’era dei  grandi centri commerciali e le officine, le fabbriche e gli artigiani non si sono fatti più vedere qui.  A noi, da almeno vent’anni, è rimasta solo la vendita al dettaglio, al cliente privato”.

Ferramenta Orini, Milano

Ed è proprio verso la fine degli anni Ottanta che Davide, allora quindicenne, entra nel negozio di famiglia per imparare il mestiere. Non è solo l’aspetto della bottega che ha qualcosa di antico ma anche questo naturale passaggio del testimone da una generazione all’altra nella gestione della piccola azienda di famiglia. Una scelta in controtendenza quella di Davide la cui fede d’oro luccicante al dito contrasta un po’ con il  suo viso dai lineamenti infantili. La maggioranza degli adolescenti della sua generazione  non avrebbe fatto la sua scelta. Era la fine del decennio dell’apparenza e dell’euforia economica, dell’edonismo e del culto del divertimento. Anche del lavoro certo. Ma non del lavoro di ferramenta. I più avevano altro per la testa che chiudersi in una piccola bottega con papà per portare avanti quel mestiere che non offriva certo prospettive entusiasmanti. E quello era proprio il decennio dell’entusiasmo.  Era facile, per chi veniva da una famiglia minimamente abbiente fare le superiori e poi iscriversi in massa a quella facoltà così in voga in quel momento, quella che se non la facevi sembrava non volessi assicurarti un futuro prestigioso a livello professionale, personale ed economico: economia e commercio, i cui riti accademici si svolgevano nel capoluogo lombardo nei due “templi” della Bocconi e dell’Università Cattolica. “Ma io non avevo nessuna voglia di studiare” – dice Davide ridacchiando. Forse proprio questo l’ha salvato dal mito di cartapesta della finanza, di cui stiamo pagando il conto salatissimo tutti noi per lo meno da un quinquennio o forse più. Quando Davide era adolescente, tutti si immaginavano donne e uomini d’affari, o meglio, come si diceva allora, “in carriera” a fare interminabili riunioni e a girare con la ventiquattro ore il mondo salendo e scendendo dagli aerei per fare non si sa bene cosa. Lo facevano anche nei film culto del decennio come Wall Street, pellicola del 1987 interpretata da Michael Douglas, volto-icona  hollywoodiano del periodo.
Niente sogni di gloria per Davide  ma un tranquillo apprendistato nella bottega  paterna e qui le lancette del tempo sembrano andare ancora più a ritroso e riportarci nel mondo medievale delle gilde artigiane dove al padre succedeva automaticamente il figlio. Figlio che tuttora non ha una mail e lo dice sorridendo mentre  il padre, con gli occhi fissi su un aggeggio del quale non comprendo l’utilizzo, afferma orgoglioso che lui non ha nemmeno il cellulare.

Ferramenta Orini, MilanoPrima di andarmene cerco di sgusciare nel retro, scansando le tre persone che occupano interamente lo spazio della bottega. In fondo lì dò un po’ fastidio. Lì non si chiacchiera, si lavora. Un’ultima occhiata alla parete più interna del negozio e scorgo quella che potrebbe essere un’installazione artistica, questa volta contemporanea: una serie di piccoli cassettini di legno dalla perfetta geometria, laccati di vernice verde acqua con tante manigliette in ottone.  Mentre fotografo mi giunge la voce di Luigi: “Quella cassettiera  non è degli anni Quaranta ma degli anni Venti,  l’abbiamo recuperata dal vecchio negozio di Porta Nuova”. Non so se sia stata ridipinta, so solo che è tenuta perfettamente ed è bella, tinta di quel fresco colore, oltre a essere misteriosa perché evidentemente ogni cassettino contiene della ferraglia di tipo diverso da quella contenuta in quello attiguo.

Chissà come fanno Luigi e Davide a metterci le mani con competenza. Segreti del mestiere che solo loro conoscono. Per sapere se li conosceranno anche i figli di  Davide è troppo presto. Anche se la  storia aziendale incarnata nei muri di questa bottega sembra voler tornare indietro nel tempo, siamo giunti sul crinale della fine del potere mondiale dell’Occidente e immaginare il futuro, anche quello più immediato, è solo una chimera.