Le storie corrono lungo il fiume

di Graziella Reggio

FIUMI è un viaggio fotografico lungo i principali corsi d’acqua europei, seguendo il flusso vitale che scorre nelle vene del continente. L’acqua è libera, imbrigliata, di nuovo libera quando raggiunge il mare. Il fiume è fonte di energia, via di trasporto e di comunicazione, segna confini, può essere minaccioso, persino devastante. Allo stesso tempo si offre alla contemplazione, crea uno spazio di silenzio. Il corso modifica il paesaggio urbano e naturale, ne è modificato a sua volta. Con questo progetto, su cui lavoro dal 2008, intendo documentare i diversi tipi di paesaggio, cercando una bellezza momentanea, transitoria, discreta nel costante dinamismo, nella costante trasformazione. In genere preferisco la pellicola e una macchina manuale – un mezzo lento, che richiede concentrazione.

 

Le sorgenti del Danubio
Le sorgenti del Danubio

 

Il Danubio a Regensburg
Il Danubio a Regensburg

 

Il Danubio a Ulm
Il Danubio a Ulm 

 

Il Reno a Coblenza
Il Reno a Coblenza

 

Il Reno a Coblenza
Il Reno a Coblenza

 

Il Danubio in Serbia
Il Danubio in Serbia

 

Valle del Rodano
Valle del Rodano

 

Delta del Rodano, in Camargue
Delta del Rodano, in Camargue

 

Delta del Po a Gorino
Delta del Po a Gorino

 

Delta del Po a Gorino
Delta del Po a Gorino

 

Brandisio, musica per il palato

ok-300x225di Alessandro Milani

Chissà se l’ammiraglio Horace Nelson, prima o dopo una battaglia non importa, guardando la linea dell’orizzonte pensava a casa.
Probabilmente sì, magari alla famiglia, agli amici, a una donna. Ma quando, pur essendo inglese, voleva festeggiare un trionfo, doveva ricorrere al Marsala prodotto in Sicilia.
Più facile invece che un ammiraglio nato qualche migliaio di chilometri più a sud del trionfatore di Trafalgar, soprattutto quando era particolarmente lontano dalle sue amate coste joniche, pensasse al vino di casa. Si dice che
più ci si allontana dal proprio paese e più emergono i ricordi positivi. Normale quindi per un nativo di Taranto ricordare quel Primitivo bevuto nella vigna dei nonni.
Meno facile immaginare che un alto ufficiale della Marina Militare decidesse di rientrare in Puglia e diventare un produttore vitivinicolo. È invece proprio quello che è successo a Oreste Tombolini, passato da ammiraglio a “creatore” del Brandisio.
Creatore, non semplice produttore, e vedremo il perché.
Forse per carattere, forse per la sua formazione militare, peraltro accentuata dal ricoprire un ruolo di prestigio e responsabilità, Oreste non si è avvicinato al mondo vitivinicolo con leggerezza o superficialità.

Si è messo a studiare, non solo la storia dei vini della provincia di Taranto, ma anche quei trattati di agricoltura che potevano giovargli in questa nuova avventura.
È così che Oreste ha compiuto una scoperta straordinaria, e, non contento, l’ha messa in pratica creando un prodotto davvero unico.
Il sistema che viene utilizzato nelle vigne di Monteparano consiste infatti nell’applicazione di una sintesi degli studi di due scienziati giapponesi, Teruo Higa e Masanobu Fukuoka. Essi, pur partendo da punti differenti e applicando metodologie diverse, arrivano a quella che può sembrare la scoperta dell’acqua calda, cioè l’affermazione del primato della coltivazione naturale delle piante.
Facile a dirsi, meno a farsi, perché nella loro accezione del termine naturale non c’è posto per la chimica e nemmeno per minerali come zolfo e rame, usatissimi in campo vitivinicolo. Quindi come fare?
Si-vendemmia1-300x225Visto che la bontà del vino deriva soprattutto dalla salute della vigna e quest’ultima è dovuta alla salute delle piante, il primo punto da affrontare deve essere la cura e la tutela dell’equilibrio biochimico del suolo.
Teruo Higa afferma che fornendo al terreno alcuni microorganismi effettivi, essi saranno efficaci nel permettere alle piante di crescere autonomamente sane, e addirittura di più: saranno in grado di rendersi quasi autoimmuni
alle malattie, in sostanza di curarsi da sole. Uno straordinario effetto collaterale consiste poi nel fatto che il terreno, grazie a questi microorganismi, combatte ed elimina eventuali tracce di diossina (ahimè largamente presenti
nei terreni di questa zona del Tarantino).
Il trattamento proposto dagli scienziati nipponici, che Oreste sta applicando da un paio di anni alla coltura della vite, permette di non usare anticrittogamici e concimi chimici. In questo modo si va addirittura oltre quel concetto – positivo, sia ben chiaro – di biologico che tanto si vuole sottolineare oggigiorno, ma la cui prassi talvolta prevede sostanze di sintesi qui completamente assenti.

Un aspetto assolutamente evidente del trattamento di Oreste alla sua vigna è dato dalle erbacce. Tutte quelle piante che crescono liberamente attorno alle viti, solitamente sfalciate (quando non eliminate con metodi decisamente più dannosi), qui vengono ignorate. Le viti che Oreste cura sull’unica collina presente in tutto il territorio del Primitivo convivono infatti in armonia con tutte le piante che la natura ha deciso di far germogliare tra i filari.

Le viti coltivate senza additivi conferiranno un’uva sana, dalla quale se ne può ora ricavare vino. Pensare che finisca qui l’originalità di quella che fin dall’inizio abbiamo definito la “creatura” di Oreste sarebbe però sbagliato: la raccolta è totalmente manuale e anche durante il processo di trasformazione da uva in vino viene evitato ogni prodotto chimico (a esclusione di una piccolissima aggiunta di bisolfito di potassio, che funge da antisettico). Dopo la raccolta anche l’intervento umano si limita al solo controllo della temperatura durante le due settimane di fermentazione, prima dell’affinamento in barriques di rovere francese.

E ancora non è finita: durante i 10 mesi nei quali il vino riposa in barrique, nella barricaia di Oreste risuonano le note di Mozart, Chopin e dei canti gregoriani, che creano un rapporto sinestetico tra il vino e la musica. Sembra infatti che il legame tra il frutto della vite e la musica classica si mantenga forte, e che, dopo un assaggio di Brandisio accompagnato dall’ascolto di una sinfonia, si crei un rimando tra l’uno e l’altra anche quando vengono sperimentati separatamente. Un’esagerazione? Non resta che mettersi alla prova.

Oreste ha infatti voluto che sulla contro-etichetta di ogni bottiglia venga precisato da quale opera musicale il vino è stato accompagnato nel suo riposo in barrique. A quel punto ognuno sarà in grado di giudicare la verità
dell’affermazione, nella quale noi crediamo ciecamente.
Non dovrebbero ora esserci dubbi sul perché abbiamo sempre parlato di “creazione” e di “creatura”.

HPIM1290-225x300Vediamo adesso come godere di questa prelibatezza rara, che prende il nome dal nonno materno di Oreste, Brandisio, il quale è un simbolo del ritorno all’antico, a quella terra alla quale l’ammiraglio aveva a lungo preferito il mare. La meraviglia che potrebbe nascere da questa storia è infatti nulla rispetto a quella che si prova, individualmente, se si ha la fortuna di assaggiare questo Primitivo. Una volta stappata la bottiglia, meglio almeno un paio d’ore prima di servire in tavola, e aver scaraffato il vino con l’ausilio di un colino per trattenere i depositi, è tempo di bere.

I depositi sono dovuti al fatto che il Brandisio non è stato filtrato, per non fargli perdere alcune importanti caratteristiche organolettiche, e consigliamo di non buttarli, ma utilizzarli magari per cucinare un risotto al Primitivo. Servito in adeguati balloon a calice ampio a una temperatura di 18/20 gradi, il Brandisio, a contatto con l’aria, inizierà a sprigionare i suoi aromi con il passare dei minuti e sarà pronto a sposare piatti saporiti, carni alla brace e formaggi di capra o pecora non molto stagionati.
Un vino straordinario al gusto e buono, anche per la salute: è stato dimostrato che le tecniche colturali di Oreste consentono un incremento del contenuto di polifenoli tale da stupire anche gli esperti del Centro enologico
di ricerca di Asti. Sono infatti i polifenoli, associati all’alcool, a produrre nell’organismo umano una maggiore concentrazione di Omega 3. Il tutto ottenuto semplicemente rispettando la natura e curando il terreno, senza violentarlo con la chimica o con colture intensive. Con tecniche antiche, come l’aratro di nonno Brandisio che Oreste ha fortemente voluto sull’etichetta.

Oltre il biologico, naturale.
Meno male che l’ammiraglio è tornato a terra per crearlo…

Per informazioni: www.brandisioilprimitivo.it

Randagi

di Giorgia Rozza

Questa è la storia di Antonio. Ma è anche la storia di Marco e di otto cani di tutti e di nessuno, otto cani nati per caso sulla strada, destinati a ingrossare le fila dei randagi del Sud, venuti al mondo solo per macinare chilometri di asfalto, prati gonfi di zecche sui quali pascolano ancora le pecore, e sì, ci sono ancora i pastori come nei presepi.

Antonio e i suoi tre cani

Cani nati senza che nessuno lo chiedesse per masticare nelle discariche quei rifiuti che mantengono ancora un vago ricordo dei cibo che contenevano o addormentarsi senza forze su un marciapiede a prendere la loro unica benedizione: il sole.

Li chiamano randagi: sono quelli che passano la loro breve e scomoda vita schivati dai passanti (ma a volte si può cambiare una consonante senza tema di sbagliarsi e scrivere “schifati”) a difendere il loro pezzo di niente. Il destino non è stato gentile con loro. Come non è stato gentile con Antonio. Anche lui non ha niente e ormai difende solo se stesso, che in realtà proprio niente non è.

Antonio quanti anni abbia nessuno lo sa. Forse lo sanno quelli dei servizi sociali che hanno visto il suo documento d’identità, sempre ammesso che ce l’abbia. Già, perché anni fa l’avevano individuato come potenziale soggetto beneficiario del loro lavoro visto che nella vita di Antonio di “sociale” non c’è proprio nulla e loro sono lì per reinserirti in questa benedetta società.

Antonio si è anche fatto ricoverare per qualche giorno ma poi è scappato e non si è più fatto prendere. La gente che lo vede tutte le mattine, seduto sempre sullo stesso marciapiede di un quartiere periferico sul mare, dice che ha una cinquantina d’anni, ma è solo un’ipotesi. Quelle rughe che gli solcano il viso come gravine essiccate sono state incise dalla strada, dal sole e dal vino cattivo, quello che costa poco e che fa male, quello nei tetrapack di plastica che fa linguacce sguaiate e provocatorie al vino buono, Doc e persino Docg, il vino degli intenditori, degli enologi e dei sommelier, delle degustazioni mondane, dei viaggi stampa per i giornalisti, delle grandi fiere e del business, ora perfino con la Cina. Tanto per guadagnare si fa di tutto, compreso permettere che il proprio gioiello enologico a casa propria severamente abbinato soltanto con risotto al Castelmagno, salvia di campo e burro valdostano accompagni i wanton. La Cina è il futuro, lo dicono tutti. Quale e soprattutto come sia questo futuro, però, nessuno lo sa.

Antonio beve il vino “di plastica” e anche per questo è un “emarginato”, come direbbero i giornali. Ma ancora non ha gettato la spugna. Non si è accasciato a terra senza più voglia di vedere un’altra alba e di sentire il vento frizzante che l’accompagna; sta invece lì seduto, fermo per ore sullo stesso marciapiede, con le scarpe da ginnastica rotte.

Eppure, anche se tutti lo schivano (o “schifano”, è uguale), anche se l’unico amico che aveva è morto in ospedale dopo che qualche brava persona di cui i servizi sociali non si occupano gli ha dato fuoco mentre dormiva su una panchina, anche se dopo questo lutto Antonio non parla più con nessuno e scappa come una bestia braccata se gli si avvicina qualcuno che non conosce, qualche cosa di buono Antonio nella vita ce l’ha. Qualche cosa che, quasi quasi, se non fosse una bestemmia per molti, si potrebbe definire “sociale”. Antonio ha, o meglio aveva, la compagnia di otto cani. Ora sono rimasti in tre. Randagi come lui.

randagi

Cani che non si è scelto, che non è andato a microchippare, che non sono suoi, che non ha conquistato con il cibo. Sono i cani che hanno scelto lui. Cani che lo vogliono nel loro branco. E lo seguono ovunque. Anche quando il sole cala, il canto dei grilli si sostituisce a quello delle cicale in estate, il cielo si fa arancio e Antonio si addentra tra gli ulivi e i campi di grano e va “a casa”, un posto che nessuno ha mai visto. Un posto dove riposa i suoi

pensieri e le sue ossa stanche su un rozzo materasso ma che è solo per lui e i cani.

Otto cani non potevano stare con lui, in mezzo alla strada. La società ha regole diverse da quelle del branco. E allora è intervenuto Marco insieme alle forze dell’ordine. “Forza” e “ordine”…. Parole così lontane dalla vicenda esistenziale di Antonio il randagio. All’inizio Antonio odiava Marco perché lo vedeva con i militari in divisa e perché anche lui gli voleva togliere i cani. Poi, piano piano, ha capito chi è Marco.

Marco non è un randagio ma ai randagi sta dedicando la sua vita. Con forza, passione, instancabile energia, cuore e cervello in una sintonia che non “stecca” mai, come in una jam session venuta bene. E Antonio è un randagio. Marco l’ha convinto senza nessuna presunzione, con dolcezza e fermezza, che non poteva stare in strada con otto cani, tra i quali cinque femmine, che avrebbero sfornato decine di cuccioli. Marco gli ha chiesto di poterle portare in canile per la sterilizzazione e poi gli ha detto che gliele avrebbe riportate: “Promesso”.

E così è stato perché Marco è un uomo di parola e porta i suoi 44 anni con la solida sicurezza di essere nel pieno della vita, una vita che sa di spendere bene anche quando è stanco morto e gli sembra di n

on farcela più. Anche quando le donne gli dicono “O me o i cani”. Poi, però, la gente si è lamentata: i cani di “quello lì” (che non sono suoi in verità) corrono dietro le biciclette, spaventano i bambini e chi fa jogging il mattino presto. E allora Marco è tornato a parlare con Antonio e si sono accordati. Tre glieli avrebbe lasciati. E così è stato veramente e definitivamente.

Ma prima che si accordassero Antonio ha piegato il viso in una smorfia strana, spianando le labbra e stringendo gli occhi che sono diventati due fessure di mare. E Marco credeva che ridesse. E invece piangeva. Piangeva perché gli stavano togliendo i cani.

Ero in auto con Marco quando abbiamo visto Antonio. Io vengo dal Nord dove di cani in strada non se ne vedono perché quelli indesiderati li chiudiamo per pudore e “civiltà” dietro le sbarre di carceri dure che spesso non assicurano nemmeno il vitto e trasformano creature viventi in ergastolani emaciati e ululanti armati solo di occhi infiniti per penetrarti l’anima.

randagi

Marco mi ha indicato Antonio, ha fermato l’auto e siamo scesi. Marco sorrideva, gli ha stretto la mano e gliel’ho stretta anche io. Ho notato le sue unghie lunghe come artigli, quasi fossero un’arma di difesa primordiale per proteggersi dalla gente, quel tipo di gente che ha ammazzato il suo amico. Anche Antonio sorrideva. Aveva con sé i tre cani del suo branco, quelli che la società ha consentito che vivessero insieme a lui.

Due piccoletti dall’aria fiera ci hanno guardato seri e vigili mentre ci avvicinavamo. Ci hanno lasciato fare ma vegliavano su Antonio come due leoni stilofori sul portale di una cattedrale romanica. Non so come sia possibile ma sono due cani bellissimi, ben curati, nutriti, con il pelo pulito, lo sguardo fiero. Uno grosso, un po’ più distante, si crogiolava nel sonno completamente rilasciato a terra.

Marco ha detto ad Antonio che era contento che ora fossero amici. Antonio ha annuito sorridendo ma non ha detto nulla. Marco gli ha allungato cinque euro, l’ho fatto anche io. Antonio era felice e stupito, ha sorriso e r

ingraziato. Marco l’ha salutato e gli ha ricordato di raccogliere e buttare nel cestino il tetrapack di plastica dal quale scendeva ancora un rivolo violaceo. Quel liquido di cui Antonio non può più fare a meno, quello a cui il “cattivo maestro” Baudelaire, come lo si definirebbe oggi in epoca di “politically correct” dedicò i versi: “Ubriacatevi. Di vizi o di virtù ma ubriacatevi”.

Poi ce ne siamo andati verso l’auto, verso il canile, il lavoro, i mille problemi da risolvere, verso la vita “sociale”. Ma prima di salire in auto mi sono girata un attimo e ho voluto dare un ultimo accorato sguardo a quel silenzioso quartetto. Nessuno si era mosso. Ma la Terra sì e non li inondava più di luce ma li aveva velati di una riposante ombra.

Un ultimo assaggio del “me Milan”: la Posteria Bertelli

eldaierieoggidi Giorgia Rozza

Nella multietnica via Imbonati, la “posteria” Bertelli resiste. Dal 1938.

Classe 1939, Elda Bertelli non ha molto tempo da perdere in chiacchiere. Riccioli canuti ben tenuti e un pulitissimo grembiule ceruleo, deve preparare i panini per i dipendenti delle vicine aziende Mondialpol e Zàini, industria cioccolatiera in attività dal 1913. Elda, però, non è la proprietaria di un bar, come si potrebbe arguire. Gestisce il negozio di alimentari Eredi Bertelli snc in via Imbonati al civico 45 aperto da suo papà Paolo nel 1938 e continuamente in attività dall’inaugurazione.

Il negozio resiste in quella via Imbonati che, negli ultimi dieci anni ha visto chiudere, uno dopo l’altro, falciati dall’inesorabile decadenza del Vecchio Continente, quasi tutti i punti vendita italiani. Resiste in mezzo ai negozi di kebab e di pizze egiziane “all’aroma di cartone” consegnate al volo a domicilio in motorino, resiste tra le “cineserie” che mostrano dietro le vetrine oggetti in vendita a pochi euro e tra i negozi di telefonia dove chi è venuto qui può sentire la voce di chi è rimasto a Casablanca, al Cairo o a Bucarest.

L’alimentari Bertelli è un piccolo gioiello della Milano che fu, un luogo mitico per i nostalgici delle atmosfere cantate dal tristemente appena scomparso

elda2 Enzo Jannacci e da Ornella Vanoni, di quel “me Milan”, rigorosamente di genere maschile, che sembra proprio destinato a scomparire come una spettrale falce di luna in cielo quando viene giorno.

«Fino al 2000 la nostra insegna portava il nome di “posteria”, perché questo siamo. Poi abbiamo dovuto rifare le vetrine, che rischiavano di crollare, e abbiamo tolto quel nome che in pochi ormai conoscono sostituendolo con la scritta “salumeria” su una luce e “alimentari” sull’altra. E anche gli eleganti infissi in ferro battuto Liberty se ne sono andati per far posto ai nuovi materiali isolanti, meno belli ma più funzionali».

Già, Bertelli è proprio una posteria anche se non ne porta più il nome, come quelle dei paesini di montagna, dove dalla porta aperta entra aria fredda e pulita che si mischia al profumo del prosciutto e all’odore delle scatole di cartone appena aperte. Forse è rimasto l’unico negozio a Milano che vende un po’ di tutto: dagli alimentari ai detersivi, senz’altro è l’unico gestito dalla stessa famiglia dalla fondazione.elda1

L’aria che entra dalla porta qui non è certo pulita: è densa e fuligginosa, avvelenata dal traffico che si spintona lento verso Piazza Maciachini o verso Affori ma, per il resto, gli odori e i prodotti della posteria ci sono tutti. Mentre Elda affetta i salumi per farcire i panini vedo spuntare un’altra nota felicemente anacronistica: su uno dei due banconi campeggia un cestino di metallo traforato ricolmo di uova sfuse che sembrano appena tolte dal pollaio, in barba ai rigidi dettami del prodotto che deve portare la data di scadenza. E anche la disposizione dello scatolame sugli scaffali è rigorosamente piramidale come imponeva la moda della vetrinistica degli anni Settanta.

Ma gli inizi di questa posteria quali sono? «Mio papà Paolo Bertelli nacque a Gessate e aprì qui il negozio nel 1938. Era bellissimo, tutti dicevano che assomigliava all’attore Amedeo Nazzari» racconta Elda mentre le si illuminano gli occhi. «Iniziò l’attività insieme a sua moglie, mia madre Giuseppina Morson, friulana, quando aveva 24 anni. Non vendeva solo alimentari pronti ma faceva anche il pane nel forno a legna. L’anno dopo nacqui io. Poco dopo, dovette dire addio alla famiglia, o meglio arrivederci, e partì per la guerra come soldato semplice. Fu deportato in Germania dopo l’Armistizio e tornò a casa quando io avevo sei anni” ricorda ancora Elda che non smette di lavorare mentre parla, incarnando il più comune degli stereotipi sui milanesi.

eldaoggiE continua: «Mia madre tenne aperta l’attività per tutto il periodo dell’assenza di mio padre, sotto le bombe, senza sfollare. Rimase in città con me e mio fratello abitando nell’appartamento sopra il negozio, che è ancora di famiglia. Per fare il pane, negli anni della guerra,  andava a comprare la farina in bicicletta in un mulino a La Chiarella, rischiando ogni volta la vita. È morta solo un anno fa, anzianissima e felice, mentre mio padre è scomparso giovane, a soli 47 anni». Con Elda lavorano il figlio Paolo e la cognata Raffaella. Dice Paolo con un po’ di rammarico: «Una decina di anni fa sono arrivati i cinesi e ci hanno chiesto se volevamo vendere. Mia nonna Giuseppina ha detto di no. Ma non è facile resistere sul mercato, i guadagni sono risicati, siamo un piccolo negozio, non possiamo competere con le catene della grande distribuzione. Ma tiriamo avanti». Infatti, per il momento, di clienti ce ne sono. Anziani, che si sentono a loro agio, certo, ma anche giovani signore che alternano la spesa al supermercato a quella fatta qui, forse, chissà, per risentire l’atmosfera di quei pomeriggi lontani, a fare la spesa con una nonna che non c’è più.

 

Alla riconquista del West

 

di Alessandro Milani

In nessun altro paese, nemmeno negli Stati Uniti dove si è soliti collocare la nascita stessa dei comics e dove è nato il mito della Frontiera, si è avuto un successo forte delle avventure a fumetti ad ambientazione western come in Italia. Per cercare di scoprire il motivo del successo di Tex Willer e soci bisogna ripercorrere le tappe principali del genere western nel campo delle “nuvole parlanti”.

I primi a riportare nelle strisce racconti più o meno di fantasia legati all’immaginario dell’epopea americana furono i giornali statunitensi di inizio ‘900, da un lato ambientando nel West alcune storie di eroi dei fumetti già esistenti (per esempio Crazy Cat e Arcibaldo e Petronilla, per citare i più noti in Italia) e dall’altro creando nuovi protagonisti a tutti gli effetti western.
Viene solitamente riconosciuto in Lariat Pete, un cowboy valoroso che difendeva i più deboli con l’aiuto del proprio nipotino, il primo eroe della Frontiera. Siamo nel 1900 ma già tre anni dopo le sue avventure finirono, proprio mentre cominciava la prima stagione d’oro del western cinematografico: il 1903 fu l’anno dell’esordio dell’attore Broncho Billy Anderson, la star del western per antonomasia, al punto che un esperto frequentatore del genere come Clint Eastwood intitolò col suo nome (nel 1980!) un film dedicato ai miti del pionierismo americano.

Già questi anni segnarono per sempre le sorti del fumetto western made in Usa: al nascere di un sempre maggior numero di strisce ed Tavola di Crazy Cateroi di carta dalla vita (fumettisticamente parlando) breve, si affiancarono produzioni cinematografiche dal crescente successo, e furono queste ultime a portare avanti nell’immaginario statunitense il mito della Frontiera, soprattutto dopo l’avvento del sonoro.
Proprio questa concorrenza “sleale” (in quanto a mezzi e impatto sul pubblico) del cinema portò però le avventure a fumetti a cercare nuove soluzioni e a toccare temi diversi da quelli dei western movies: mentre infatti i film, con i loro spettacoli d’azione e di abilità a cavallo, continuarono quella tradizione iniziata nell’800 con le horse operas, i rodei e gli spettacoli dei circhi (celeberrimi quelli di Buffalo Bill, giunto poi anche in Italia e del circense per antonomasia, Barnum), i comics cominciarono a tratteggiare meglio la psicologia dei personaggi, a prendere posizioni più vicine a quelle dei Nativi americani, e a descrivere in modo più realistico la vita degli abitanti della Frontiera, facendo anche tesoro dei reportages giornalistici e delle testimonianze dei diretti protagonisti.

Questo “aggiustamento di tiro”, per usare una metafora molto da cowboy, fu dovuto anche al fatto che, con la produzione
cinematografica in espansione e con il pubblico che abbandonava i vecchi eroi a fumetti, un precedente fallimentare tentativo dell’industria culturale statunitense era stato quello di sostituire le storie del Far West con altre di stampo meraviglioso/fantasy (che spesso finivano però per essere delle vere e proprie storie horror), che ebbero un enorme successo di pubblico ma che scatenarono nei loro confronti anche una fortissima pressione censoria, che avrebbe rischiato di far chiudere l’intera produzione fumettistica.
Tra le nuove storie di questo West de-mitizzato le più innovative vennero, come da tradizione, dalle rubriche di fumetti dei giornali: le strisce quotidiane o domenicali (solitamente anche a colori) ospitarono i personaggi più particolari (ironici pionieri alle prese con la vita di tutti i giorni, difensori degli indiani, ex militari) mentre gli albi continuavano a portare avanti anche le classiche storie d’azione.
Un po’ per il successo di questi nuovi anti-eroi di carta, un po’ per la visione del mondo di alcuni registi (Peckimpah e Arthur Penn per citare i grandi iniziatori) e in parte anche per il crescente aumento dei costi per le produzioni d’azione (business is business, del resto), anche il cinema virò in seguito (ma siamo nel secondo dopoguerra!) verso tematiche più apertamente sociali e verso l’introspezione psicologica dei personaggi: i diritti degli Indiani e l’avvento della società industriale sono tra i temi che segnarono la fine del mito della Frontiera così come era sorto a inizio secolo e i cosiddetti “Western crepuscolari” (due titoli su tutti: Sfida nell’alta Sierra di Peckimpah e Furia Selvaggia di Penn) diffusero la notizia della morte del mito del Far West al grande pubblico.

Il piccolo sceriffo

 

La caratteristica propensione per la serialità, tipica del fumetto, nel campo del western statunitense non coincise con una lunga vita

dei suoi protagonisti, né di carta né di celluloide, ma generò moltissime serie e questo fenomeno, nel momento in cui il nuovo media entrò nelle case degli americani, si trasmise immediatamente anche alle produzioni televisive. Invece di avere poche storie longeve si ebbero infatti numerosissimi serial (se ne possono contare quasi 200!) più o meno duraturi e più o meno di successo, alcuni dei quali con una successiva omonima versione a fumetti, che cercarono di portare avanti il più possibile, ognuna a suo modo, l’immaginario western, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, visto che molte di loro vennero presto esportate (il pubblico italiano giunse a conoscenza infatti di Laredo ,Bonanza , Zorro , David Crockett , Maverick , La casa nella prateria e molti altri).

In Italia la sostanziale differenza con gli Stati Uniti è data proprio dalla longevità del mito della Frontiera americana e di alcune storie western a fumetti in particolare.

Nato ufficialmente alla fine degli anni Trenta ma diffusosi soprattutto nel secondo dopoguerra il fumetto western italiano non ripartì certo dalle revisioni in chiave realistica operate in quel periodo negli Stati Uniti, ma da una visione mitica del Far West.
Non è un caso che il primissimo fumetto italiano di genere sia stato, nel 1935, “Ulceda, la figlia del Gran Falco della Prateria”, cioè una riduzione a fumetti di un omonimo romanzo di Salgari (l’autore fu l’illustratore Guido Moroni Celsi), che non aveva certo le caratteristiche di un veritiero romanzo storico; a esso seguirono altre versioni a fumetti di altri racconti “americani “ di Salgari (a opera di Rino Albertarelli) mentre storie originali ad ambientazione western, illustrate dal grande Walter Molino, trovavano spazio quasi esclusivamente su Il giornale di Salgari.

La chiave per capire la fortuna del genere western (non solo a fumetti) in Italia (ma anche in Europa e Sudamerica) credo sia
riconducibile proprio a questo “passaggio di testimone” tra il racconto popolare/avventuroso e il genere dei cowboys.
Infatti mentre negli Stati Uniti il mito della Frontiera occidentale era sì un mito ma anche una pagine fondamentale della storia locale e della memoria collettiva (e come tale condivisa al punto da poter variare sul tema in senso più o meno realistico), in Europa questo mito restava puramente mito. Anzi, poteva diventare “il mito” adatto a sostituire il caro vecchio romanzo di viaggi e avventure, in un’epoca nella quale il mondo era diventato “più vicino” e dove – purtroppo a causa della guerra – molti italiani erano entrati in contatto con popolazioni di tutto il mondo.

Come si sa la conoscenza di altre culture le arricchisce reciprocamente ma inaridisce i miti, soprattutto se legati a un esotismo da cartolina (quale era stato per molto tempo quello dettato dai romanzi salgariani e da pubblicazioni come Il Giornale Illustrato di Viaggi ). Dunque l’immaginario europeo e italiano in particolare aveva bisogno di nuova linfa, e la trovò nelle storie di un period

o che era estremamente lontano nello spazio, ma anche nel tempo (ricordiamo che storicamente l’epopea dei pionieri del Far West è collocabile tra il 1840 e il 1890), di modo che anche l’eventuale contatto con gli americani contemporanei non potesse in alcun modo “smentire” il nuovo mito che stava sorgendo.

Si accennava, a fianco di una longevità del genere western anche a un duraturo successo di pubblico per alcuni personaggi in particolare; anche questo fatto sembra essere chiaramente riconducibile alla visione classica del mito, che il più delle volte comprende un eroe.

Mentre se si vuole ricreare il clima di un’epoca si cerca di dare tutte le sfumature possibili di quello che in quell’epoca accadde, se si vuole invece rafforzare un’idea, un concetto, in questo caso un mito, la figura migliore è quella dell’eroe, incarnazione del bene contro le mille insidie del male e contro i casi sfortunati della vita.

Attorno a lui si può poi costruire anche un mondo, ma il punto fermo di questo mondo non sarà mai messo in discussione.

Questo procedimento, che è anzitutto un procedimento narrativo, porta facilmente all’affezione da parte del pubblico più per il personaggio (il suo carattere, la sua abilità, anche le sue debolezze) che per le sue vicende.

Tex Willer

In Italia non si può parlare di Far West (in generale, non solo in campo fumettistico) senza fare riferimento a personaggi come Kit Carson, il Piccolo Sceriffo, Pecos Bill e soprattutto Tex Willer.
Anche per il Tex Willer di Gianluigi Bonelli si conferma la teoria della discendenza prettamente avventurosa del personaggio: infatti se la sua prima striscia “Il totem misterioso” comparve nelle edicole già nel 1948, egli fu anche, qualche anno dopo, nel 1956, il protagonista di un romanzo di avventure “Il massacro di Goldena”, sempre di Gianluigi Bonelli, naturale prosecuzione creativa delle precedenti opere dell’autore, dai significativi titoli di “Il Crociato nero”, “Le tigri dell’Atlantico” e “I fratelli del silenzio”, usciti tra il 1936 e il 1940, che portavano avanti l’avventura di ambientazione medievale (il primo), quella di ambientazione esotica (il terzo) e il romanzo di guerra (il secondo). Lo stesso Gianluigi Bonelli dichiarò anni dopo di essere stato un divoratore dei libri di Jack London, Edgar Wallace, Zane Grey (il quale si era cimentato a sua volta nel fumetto western negli Stati Uniti) e dei film d’avventura americani, senza tralasciare i maestri narratori italiani, tra i quali stravedeva per Yambo e il solito Salgari. Le fortune di Bonelli furono due: la prima (legata a filo doppio alla sua bravura) fu quella di diventare dapprima direttore di testate famose (esempio Il Vittorioso) e poi editore in proprio (la sua prima casa editrice si chiamava, visti i tempi, Audace), avendo così la possibilità di dare spazio a quel tipo di storie (a fumetti e no) che più lo appassionavano e sulle quali stava lavorando personalmente, e la seconda fu quella di incontrare il disegnatore giusto per portare a compimento queste storie a fumetti: Aurelio Galleppini. Il loro sodalizio durò a lungo e segnò la fortuna della serie e del personaggio di Tex.

A fianco di Tex Willer, dagli anni 50 a oggi si sono affiancati altri personaggi significativi del mondo del fumetto italiano, dai già citati Pecos Bill e Piccolo Sceriffo a Capitan Miki al Grande Blek, alcuni dei quali con un discreto successo di pubblico; per lungo tempo però il fumetto western italiano non mise in discussione a livello di contenuto.

L’unica variante al tema classico dell’eroe buono (che spesso esce anche dal contesto “storico-geografico” nel quale è nato per andare Cocco Billin zone ancora più esotiche: ad esempio Tex ha avventure fino persino in Polinesia!) è quindi spesso data da suoi alter-ego comico/satirici.  A fianco dei fumetti-western classici nascono così una serie di personaggi che vivono le loro avventure divertenti nel Far West: da Lucky Luke (del belga Morris ma che ebbe grande successo in Italia) a Pedrito El Drito di Antonio Terenghi fino al celeberrimo Cocco Bill di Jacovitti.

L’esistenza di versioni parodistiche e caricaturali degli eroi del West è però funzionale ancora una volta alla diffusione e perpetuazione del mito della Frontiera: salvo rare e recenti eccezioni (ad esempio Magico Vento con le sceneggiature di Gianfranco Manfredi) infatti il mito non fa i conti con se stesso e non viene messo in discussione, così come avvenuto negli Stati Uniti. In Italia, al massimo, appunto con le parodie, si giunge a mettere in discussione la figura dell’eroe, ma il mito della Frontiera resiste; parallelamente l’industria culturale statunitense (si pensi soprattutto a quella dell’entertainment e in modo particolare al cinema hollywoodiano) non sembra essere ancora pronta a far uscire da un visione stereotipata temi e periodi storici precipuamente “europei” quali la Grecia classica, l’Impero romano e il Medioevo, senza parlare della pressoché totale inattendibilità storica dei film basati sui classici delle letterature antica e medievale.

Ognuna delle due culture (che soprattutto in questo ambito sono difficilmente raggruppabili sotto la comune denominazione di “cultura occidentale”) si tiene stretto il proprio esotismo (con gli stereotipi a esso legati) e continua a ripropor-selo. Il problema sorge quando il fruitore di questa rappresentazione non ha altri mezzi a disposizione per conoscere la verità storica che giace oltre il mito o quando l’industria culturale si propone di rendere universali dei processi storico-mentali assolutamente esclusivi del proprio paese.

Articolo già pubbicato su “erewhon, arti, letteratura, scienze”. 

La regina Loana e i cortocircuiti della memoria – Umberto Eco e la narrativa atto V

 

di Alessandro Milani

Dopo la pubblicazione (spesso accompagnata dal successo editoriale di critica e pubblico) de Il nome della rosaIl pendolo di FoucaultL’isola del giorno prima e Baudolino, l’approccio/apporto alla narrativa da parte di Eco si concretizza in un romanzo autobiografico, La misteriosa fiamma della regina Loana.
Dietro il protagonista Yambo, libraio antiquario di origine piemontese che vive a Milano, non si fa infatti fatica alcuna a rintracciare la figura dell’autore.

In estrema sintesi la trama del romanzo narra di un antiquario di mezza età che, nel momento in cui si riprende da un malore, scopre di non ricordare nulla, o meglio, di aver perso una parte della propria memoria, quella legata ai ricordi personali, al vissuto, quella che viene definita come memoria “autobiografica”.
Per cercare di recuperarla torna nella casa di campagna dei nonni, sulle colline del Piemonte, dove visse gran parte della propria fanciullezza, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale.
Qui, cercando tra le vecchie casse del nonno (a sua volta una figura di rigattiere/antiquario/collezionista), trova sia i libri/fumetti/riviste che leggeva da piccolo, sia i propri quaderni, fotografie e oggetti personali.
La memoria comincia a tornare, ma non in modo immediato e continuo, ma per flash, o meglio a fiammate (facendo riferimento a uno dei molteplici significati del termine usato nel titolo) e l’anziano Yambo fa conoscenza di sé stesso da giovane.
La ricerca della propria identità perduta incontra parecchi ostacoli, ma questo lo lasciamo volentieri scoprire al lettore, che altrimenti troverebbe poco altro di godibile nel romanzo.

La misteriosa fiamma della regna Loana

La trama infatti sembra avvincere, ma ben presto s’inceppa in un meccanismo un po’ farraginoso che si regge su un’unica trovata letteraria (il “cammino” a ritroso nel tempo alla ricerca della memoria perduta), congeniale forse per un racconto breve, ma che si dimostra invece fragile e inadeguata a sostenere uno svolgimento di oltre 400 pagine.
Il romanzo si difende finché può facendo una panoramica su un ventennio di memoria collettiva, raccontandone canzoni, trasmissioni radiofoniche e libri, riviste e fumetti: si tratta naturalmente di una panoramica che non è esaustiva né vuole esserlo, ma è l’escamotage del quale Eco si serve per contestualizzare la vicenda del se stesso bambino/ragazzo e per raccontarci quali letture lo abbiano formato, da quelle più serie a quelle più divertenti.

E qui si potrebbe obiettare che, forse, di fronte alla possibilità di scoprire quali letture abbiano influenzato uno dei più importanti e stimati (anche da chi scrive) intellettuali italiani, sia deludente arrivare ad avere l’elenco di libri e riviste letti da Eco soltanto dai sei ai sedici anni.
Queste “rivelazioni” non ci dicono granché, infatti, delle passioni successive dell’autore, fatta salva forse quella per il fumetto, ancor oggi bistrattato da molti maitres a penseè italiani, e che invece Eco ha sempre dimostrato di apprezzare come forma letterale e culturale a pieno titolo (firmando per esempio numerose introduzioni a volumi di fumetti, anche di autori sconosciuti come una raccolta di fumettisti cinesi edita in Italia negli anni ’70).
Ma la critica più forte che mi preme di rivolgere a Eco non è relativa a questa riluttanza a raccontare la propria formazione successiva (tema che in ogni caso spero tratti in seguito, sotto forma narrativa o saggistica), ma il non credere fino in fondo in un libro autobiografico di ricordi.

Cerco di spiegarmi meglio: quando Yambo si sveglia dal coma, a inizio romanzo, ricorda perfettamente le voci enciclopediche e le capitali degli stati, ma – come si è detto – non ricorda nulla di sé, non riconosce la moglie, le figlie, gli amici e non ha ricordi personali. Con la progressiva scoperta del suo passato di lettore e dopo un nuovo malore fisico, invece, il protagonista comincia a ricordare e quindi a raccontare anche episodi personali, legati alla scuola, alle amicizie, al primo amore, al nonno e ad avvenimenti occorsi durante la guerra, con particolare riferimento alla Resistenza.

Le pagine dedicate a questi ricordi sono tanto piene di vita, quanto sono fredde quelle relative alle fasi iniziali della “riscoperta”.
Se vogliamo ben vedere è segno di una grande talento letterario (ma su questo non avevamo dubbio alcuno) il sapere usare un tono assai diverso quando si sta raccontando un’esperienza vissuta in terza persona (per il protagonista del romanzo, infatti, il proprio passato è come se fosse quello di un estraneo) rispetto a quando si raccontano esperienze dichiaratamente e gelosamente personali, ma il romanzo questo doppio tono non sembra reggerlo, e la prima parte del libro è a tratti molto noiosa.
Viene quindi da domandarsi se anche l’autore non soffra un po’ della strana malattia/condizione del protagonista: così come Yambo non ricorda, Eco non osa raccontare e ciò rischia di far sbilanciare il romanzo verso un freddo inventario di letture, nascondendo alcuni passaggi autobiografici splendidi.

È inutile negare, infatti, che in confronto al nonno capace di prendersi la rivincita sul fascista del paese non c’è Flash Gordon che tenga e che la fiamma della regina Loana avrebbe brillato molto di più se il racconto del vissuto avesse avuto la meglio sull’enciclopedismo (seppure popolare) di cui è affetto gran parte del libro.

 

Articolo già pubbicato sulla rivista on line “Erewhon. Arti, letteratura, scienze”. 

Il ‘Pret de Ratanà”

 

di Alessandro Milani

 

Giuseppe Gervasini nacque nel 1867, per l’esattezza il primo di marzo, a Sant’Ambrogio Olona, un paesino in provincia di Varese.

Fin da piccolo visse a Milano, dove giunse al seguito dei genitori, che facevano gli osti in città. Rimasto orfano, visse con uno zio che lo fece studiare. Fin dai tempi della scuola il piccolo Giuseppe si appassionò alla botanica, alla medicina, insomma alle scienze, con una passione curiosa che coltivò anche durante il servizio militare.

Soltanto dopo il periodo trascorso nelle fila dell’esercito Giuseppe decise di consacrarsi al sacerdozio.

Le notizie delle sue gesta cominciano proprio da quando il nostro ragazzotto di provincia diventa Don Giuseppe; infatti inizia a correre veloce per tutta la città (e non solo) la fama di un prete che guarisce le persone, specialmente i poveri che possono rivolgersi a lui in quanto non chiede alcun compenso per il suo operato.

Tra le tante leggende metropolitane sorte sul conto di Don Gervasini ce n’è una che lo vuole ‘nemico dei ricchi’; in realtà amici benestanti (si parla addirittura di membri di famiglia Pirelli) ne aveva; noi riteniamo che il fatto di guarire anche le persone meno abbienti, che in quegli anni (tra il 1920 e l’inizio della guerra) non avevano altro modo per farsi medicare, abbia spinto a vedere in lui un benefattore dei poveri a discapito dei più ricchi.

La sua fama di guaritore (e si narra anche di veggente e ‘stregone’) e forse anche certi suoi modi bruschi (che riservava in modo particolare alle donne) lo resero però presto inviso a certa parte del clero milanese che lo ‘confinò’ dapprima nel paesino di Retenate (da cui presumibilmente prese il soprannome di Pret de Ratanà – che lui non amava- anche se la questione del nome è controversa) e poi lo sospese a divinis. Ma don Gervasini non uscì mai completamente dalla Chiesa Cattolica, continuò a dire messa privatamente anche quando gli era stato inibito di farlo in pubblico e venne infine reintegrato a tutti gli effetti, forse grazie all’intercessione diretta del Cardinal Ildefonso Schuster (del quale si narra fosse uno dei beneficati del prete).

La tomba del pret de Ratanà

Il ‘pret de Ratanà’ viveva quasi con nulla, indossava un saio molto liso (spesso con le maniche rimboccate) e offriva tutto quanto riceveva ai più poveri (si dice che facesse sfornare a sue spese tutti i giorni grandi quantità di pane che poi lasciava a disposizione dei bisognosi in una cesta davanti all’uscio della sua casa) ma, a conferma del fatto che anche tra i ricchi aveva degli estimatori, abitava in una villetta nei pressi della cascina Linterno (nel quartiere milanese di Baggio), donatagli appunto da un ricco beneficato.

Qui, nell’ampio orto retrostante l’abitazione, il sacerdote si dedicava ai suoi studi preferiti, cioè quelli relativi alle erbe e al loro possibile impiego medico; studi per nulla teorici e molto immediati.

Grazie ai suoi ritrovati molte persone guarirono, ovviamente da mali leggeri. Il prete, che venne investito poi da un alone di fascino e mistero legati a suoi possibili miracoli, era in realtà un omeopata all’avanguardia, in un periodo dove la chimica non si era ancora sposata con la medicina dando vita alla farmacologia moderna.

In questo senso, grazie alle sue intuizioni e al suo spirito democratico che lo portava a vivere come i poveri e al fianco dei poveri, la sua figura è davvero da venerare come un esempio di benefattore della cittadinanza di Milano.

Molti, al momento della sua morte, avvenuta il 22 novembre 1941, vollero ringraziarlo facendone scolpire un busto a grandezza naturale da porre sulla sua tomba, al Cimitero Monumentale.

E ancor oggi, a 60 anni dalla sua scomparsa, la sua tomba è meta continua di pellegrinaggi di beneficati e di devoti che ne chiedono l’intercessione, ricoprendone la lapide (che porta incisa la frase: ‘la fiumana dei tuoi beneficati così ti ricorda e ti ricorderà sempre’) di fiori, lumini ed ex voto.

Per questo motivo anni fa la sua tomba, inizialmente posta all’inizio del cimitero, è stata traslata in fondo, per l’esattezza al campo XX, di modo che i suoi numerosissimi visitatori non intralcino i parenti delle persone delle tombe adiacenti. E, credenti o non credenti, vedere questo piccolo tempio ricoperto di fiori in mezzo a tanti sepolcri scarni e monumentali, provoca una certa emozione.

 

Articolo già pubblicato sul sito “Muvi – Museo Virtuale della memoria collettiva di una regione”.

Tarcisio Vergani, masseur

 

di Alessandro Milani

Esiste sicuramente una fotografia che più di tante altre ha rappresentato la storia del ciclismo e ha finito per documentarne l’essenza: due campioni rivali si scambiano una borraccia preziosa lungo una delle faticose salite del Tour de France.
Sì, proprio la celeberrima immagine di Coppi, in maglia gialla, e Bartali scattata durante la ‘Grand Boucle’ del 1952.
Quella foto, che testimonia lo spirito vero, autentico dello sport del pedale, con due acerrimi avversari che si aiutano nel momento del bisogno, ha fatto il giro del mondo, percorrendo forse addirittura più chilometri di quanti non ne abbiano fatti sulle bici i campioni ritratti.

Ogni amante del ciclismo credo ne abbia una riproduzione in casa. Non a tutti capita però di averne una, in formato poster e a colori, con la firma in calce di uno dei due campioni. A casa di Tarcisio Vergani, su una parete del suo salottino invece questa firma c’è, e non solo la firma! Il manifesto infatti recita testuale: ‘All’amico Tarcisio Vergani. Gino Bartali. Tour 1952’.

Cosa ha fatto il signor Tarcisio per meritarsi la dedica del Ginettaccio nazionale?
Semplicemente il suo lavoro, il massaggiatore, anzi, suona bene alla francese, il masseur. E non un masseur qualunque! Sotto le sue mani, quelle stesse mani che rapidamente si muovono, a 91 anni compiuti, per sfogliare le pagine di un album di fotografie gonfio di ricordi e di campioni di vari sport, sotto le sue mani sono passati ciclisti del calibro di Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Louison Bobet, Jimenez e poi ancora Motta, Simpson, Magni, Terruzzi e tantissimi altri, italiani e stranieri, campioni su strada o su pista.

Entrare nella casa del signor Tarcisio significa entrare in una sorta di museo del ciclismo, e non solo per la fotografia di cui si diceva sopra, a proposito della quale lo stesso Vergani ci svela un fraintendimento divenuto storico. Lui, che proprio di Coppi è stato massaggiatore e a volte anche confidente (come spesso avveniva tra atleta e massaggiatore ai tempi in cui la figura professionale del masseur comprendeva anche quelle di medico, meccanico e uomo di fiducia), mi fa avvicinare al poster e mi chiede di osservare bene le biciclette di Bartali e di Coppi, in modo particolare le borracce.
“Guarda” – esclama – “Bartali ha ancora due borracce piene, una appena sotto il manubrio e una vicino al cambio, mentre Fausto ha soltanto in una mano il tappo di una delle sue. Perché Coppi avrebbe dovuto passare dell’acqua a Bartali, che già ne aveva di suo? La borraccia ghe l’ha pasada Bartali a Coppi, minga me disen!”.

Coppi e Bartali

Eh sì, il signor Tarcisio ha ragione, anche se ormai è stata consegnata alla storia come un bel gesto di Fausto Coppi.In realtà il gesto, compiuto da Bartali, diventa ancora più significativo: basti pensare che in quel momento Coppi è primo in classifica generale, come testimonia la maglia gialla di leader, e il suo rivale potrebbe approfittare di una sua eventuale crisi (magari dovuta proprio ala sete) in salita per attaccarlo, ma non lo fa e gli porge la borraccia.

Ma questo è il ciclismo, per Tarcisio Vergani la passione di una vita.
Un passione nata attorno ai 18 anni, dopo essersi distinto negli 80 metri piani e anche nella ginnastica con la Pro Italia di Milano.
Un passione che lo ha visto correre nei dilettanti di piccole società ciclistiche di Milano e Sesto San Giovanni.
Ma proprio a Sesto nasce invece la sua ‘carriera’ di massaggiatore, nelle squadre di calcio della Breda prima, della Pro Sesto, in serie B, poi. Retrocessa in C la Pro Sesto dalla sua casetta di Rapallo il signor Tarcisio entra in contatto con la Sampdoria di Brighenti, ma dopo poco se ne va.

Il problema è che, in quegli anni (e quanti ne sono passati se si guarda il mondo del pallone oggi!), nel calcio di soldi non ne girano.
Siamo nel 1948 e i veri eroi nazionali sono i ciclisti, anche perché l’anno successivo il destino si porterà via la squadra del Grande Torino lasciando il calcio italiano orfano di un simbolo di fama mondiale.
Attorno alle due ruote cominciano a muoversi invece la radio, i giornali, le passioni della gente e anche il business.
Le squadre professioniste hanno già lo sponsor e questo permette loro di contendersi i corridori più forti e anche i tecnici più preparati.

Tarcisio Vergani

Tra loro anche Tarcisio Vergani: “Mi cercavano tutti. Tutte le squadre cercavano di avermi, e anche se non ero il massaggiatore della squadra, i ciclisti più importanti venivano da me, magari la sera, in albergo, dato che spesso uno stesso albergo ospitava più di una equipe. E io li massaggiavo tutti. I francesi mi dicevano ‘Verganì, con i tuoi massaggi si vola’ e infatti vincevano. Ad esempio ricordo quando morì Coppi, e io ero suo massaggiatore fin dai tempi della Clorodont, mi chiamarono da Parigi quasi il giorno successivo i dirigenti di Anquetil chiedendomi di non prendere impegni perché avrei dovuto seguire il campione francese. E così avvenne. Con me Jacques vinse al Tour e anche il record dell’ora.”

E a proposito della morte di Coppi, che ha visto di recente rispuntare una strana ipotesi che vorrebbe il campione italiano avvelenato, Tarcisio ha le idee chiare: “Fausto prima di partire per l’Africa era agitato, non solo perché da quando aveva conosciuto la Dama Bianca non era più spensierato come prima e aveva un po’ perso la testa, ma anche perché lui la malaria l’aveva già contratta, in forma lieve, poco tempo prima. Io non ho dubbi, morì di malaria. La moglie di Geminiani, che contrasse anch’egli il morbo in Alto Volta, dalla Francia, chiamò l’ospedale di Tortona spiegando come stessero curando suo marito con delle pastiglie. Qui non le diedero retta, cercarono di curarlo con le punture e lui morì.”

 

Articolo già pubblicato sul sito “Muvi – Museo Virtuale della memoria collettiva di una regione”.

 

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Libri

Innamorato della luna. Antonio Rubino e l’arte del racconto, a cura di Martino Negri, Scalpendi, 2012 (autore del capitolo dedicato al rapporto tra Rubino e il fumetto).

Qui mangiava Garibaldi. Guida eno-gastro-bellica al Risorgimento, a cura di Paolo Paci, De Agostini, 2011 (autore del capitolo dedicato a Cesare Battisti).

Le meraviglie della natura salvata, UTET/DeAgostini, 2011.

Anteprima Menù. La rivista della ristorazione DOP oriented realizzata per il Consorzio Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana DOP, 2010.

Volume istituzionale del Consorzio Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana DOP, 2010.

Vini doc, Consorzio dei Vini DOC Caluso, Carema e Canavese, 2009.

Guide Chatwin: Barcellona, New York, Venezia (2010); Londra (2009), Library/RCS

Le eccellenze d’Italia, 2009, UTET/DeAgostini

Atlante geografico-economico, 2008-09, 12 voll., DeAgostini/IlSole24Ore

Annuario dei Mondiali di Calcio 2006, 2006, DeAgostini (coautore e caporedattore)

Annuario del Calcio Italiano 2005/06, 2005, DeAgostini (caporedattore)

1924-2006, da Chamonix a Torino, 2005, DeAgostini (caporedattore)

Dizionario di Inglese Garzanti Moderno, 2000, Garzanti

L’enciclopedia dei personaggi, 1999, Compact DeAgostini.


Documentari

BZ308 – Una storia italiana, 2005

Cormano racconta la Resistenza – Partigiani in Val Grande, 2004

Cormano racconta la Resistenza – Partigiani in città, 2003

Cormano racconta – le storie, 2002-2015


Radio

Radio Popolare, Muvi – storie della memoria collettiva di una regione, la Lombardia
Radio Orange Cormano, podcast di informazione locale – https://www.spreaker.com/user/radioorangecormano


Spettacoli teatrali

BZ308 – Un racconto italiano (2010), finalista al Festival Narrazioni di Poggibonsi (SI) nel 2010.

Ohi belle…ciao! (2005).

Hanno ammazzato il Mario in bicicletta (2015).