Il 14 febbraio del 2004 muore Marco Pantani. Pochi giorni dopo – per la precisione, il 20 – nel contesto di una serie di interviste a personaggi dello sport chiamati a dare il loro perché, se esiste un perché, sulla tragica parabola del Pirata, capita di sentire, all’altro capo del telefono, Romeo Benetti.
Occhio: se si va su google e si digita il suo nome, il motore di ricerca ti suggerisce anche “Benetti macellaio”. E, certo, in rete trovi anche l’intervista a Franco Liguori, il mediano del Bologna cui Benetti spezza la gamba il 10 gennaio del 1971, di fatto spezzandogli anche la carriera.
Ma, qui, piace riproporre una conversazione tanto pacata quanto intrisa di una sottile malinconia, non disgiunta da una saggezza che è forse figlia di quella indiscutibile rudezza.
Perché per noi, malati di calcio, Benetti sarà sempre la diga insormontabile contro la quale gli inglesi cozzarono invano, nel 1973, a Wembley, quando Fabio Capello uccellò i figli di Albione (non perfidi come un tempo, ma quasi). E quei baffoni e quel sorriso un po’ duro, un po’ da film western (massì, lo avremmo visto bene a fianco di Bud Spencer e Terence Hill) sono rimasti nell’iconografia del calcio italico. E quella foto, qualcuno l’ha scordata quella foto? Il rude Romeo Benetti – classe 1945, esordio a 17 anni nel Bolzano, in serie D: in quel campionato 63-64 giocò 32 volte e segnò 10 reti, trampolino verso una carriera memorabile – se ne sta a rimirare la gabbietta con i canarini.
Romeo Benetti. Centinaia e centinaia di partite in serie A, 55 volte in azzurro. In morte di Marco Pantani, un signore che conosce l’animo degli uomini – dei deboli e dei forti – dice una verità sacrosanta. Vittorino Andreoli: “Pantani era un eroe della bicicletta. Una volta sceso da quel destriero, si è perso, si è smarrito, non ha accettato di essere qualcosa di diverso”.
Ma ci sono stati, e ci sono, campioni che smettono di essere tali, che vedono le luci dei riflettori spegnersi sopra di loro e che, tranquillamente, iniziano un nuovo cammino. Romeo Benetti è uno di questi. Il vocione è quello di sempre, è quello di allora, inconfondibile. Dalla Liguria racconta: “Per fortuna è la stragrande maggioranza degli atleti, in qualsiasi sport, che accetta l’inesorabile legge del tempo. Perché noi, su questa terra, siamo di passaggio, mica siamo eterni”.
Allora, signor Benetti, nessun problema nel giorno in cui ha appeso le scarpe al chiodo? “Macché. Lo sappiamo: per un processo naturale le qualità che ti hanno fatto campione, vengono meno. Certo, ci vuole una preparazione mentale per accettare tutto questo. Però a me è successa una cosa semplicissima: da quando ho smesso di giocare a calcio ho avuto tali e tante attività, che i problemi e le preoccupazioni sono semmai aumentati”.
Allora per il biondo Romeo, par di capire, i riflettori spenti non sono stati un trauma. “No. Certo che no. Mi fa piacere che la gente mi ricordi per quello ho fatto sui campi di gioco. Ma so che il calcio da copertina appartiene a chi ha l’età. E questo vale per tutti gli sport”.
E’ troppo tranquilla, la conversazione con Benetti. Ti dispiace quasi di averlo disturbato. Poi, però, ti regala una immagine folgorante. “Lo sa? Io, a casa, non ho neppure una mia foto appesa. Intendo una foto che mi veda in azione, da calciatore. Mi disturba l’idea di averne. Neppure quando giocavo amavo tenere ritagli di giornale o le immagini delle partite”.
Questa è bella. A uno che ha vinto due scudetti e si è fatto due mondiali, concedereste una parete intera di trionfi e ricordi. Ed invece… “Non mi è mai piaciuto pensare all’ieri. Mi interessa il domani, sempre. Quanto alla vita, quella vera comincia quando si spengono i riflettori”.
Adesso Romeo Benetti istruisce i futuri allenatori. Parla di uomini che devono usare l’intelligenza, che sanno di doversi mettere sul mercato – magari dopo una brillante carriera – avendo la capacità di prevedere l’attività futura in forma diversa rispetto al passato. Inevitabile, il discorso ritorna là dove era iniziato. Marco Pantani. C’è una incrinatura triste nella voce di Benetti. “Le cronache impietose di questi giorni ci parlano di un Pantani che nessuno conosceva. Circondato da ceffi loschi. Sono sorpreso. Il mio ricordo è quello di un campione che pedalava in bicicletta e che era amato dal suo pubblico. Quando ho saputo, ho provato un gran dispiacere”.
Ricordate le gambe del Romeo? Le sue sgroppate lungo il campo? Quel suo pudico parlare? Eppure, Carrarmato, lo chiamavano. Palla lunga e pedalare. Già: ma quando il discorso scivola sul Pirata, grinta e forza lasciano spazio a una compassione tutta speciale. E capisci che se solo potesse, il rude Romeo parlerebbe a Pantani così come parlava ai canarini di quella foto ingiallita dal tempo. Gli direbbe la sua verità di campione che non vuole foto per ricordare, perché la vita è avanti.
Ma di fronte al mistero e al dolore, anche il rude Romeo si inchina. C’è chi sa passare dalle 350 partite in serie A agli allenamenti sui campetti federali, felice di quel che ha. Lieto se qualcuno gli ricorda le partite di un tempo. Ma del Pirata che conquistò pedalando l’Italia e la Francia e che oggi riposa nel triste cimitero degli eroi dello sport, anche il rude Romeo non può che dire la verità di tutti. “Non so. Non capisco. Ho solo una grande tristezza, nel pensare a questa vicenda”. Già. Per Romeo Benetti di Albaredo d’Adige, la vita è avanti. Per Marco Pantani di Cesenatico è dietro, e per sempre.
Categoria: Pedala, pedala!
Quando l’Aspirina trasforma un ciclista in scrittore
di Carlo Martinelli
Diciamocelo. Sul fatto che sia stato un campione leggendario, non ci piove. Ed anche la sua traiettoria in politica é cosa nota. Per non dire dei successi imprenditoriali, una volta lasciata l’attività agonistica: dalle biciclette al vino. Ma quanti sanno che Francesco Moser – ché è di lui, del campione trentino di Palù di Giovo che si parla – è stato, per una volta, anche scrittore? Incredibile, ma vero. C’è un volume a dimostrarlo, è stato pubblicato nel 1990 dalle edizioni L’Ariete. Si intitola I racconti dell’Aspirina, e nacque per celebrare i primi 90 anni di successo di uno dei farmaci più conosciuti. A volerlo, ci vuole poco a capirlo, la casa produttrice tedesca che di Aspirine ne ha piazzate, nel frattempo, a miliardi. E che al tempo chiese a sedici esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport di parlare appunto dell’Aspirina. Si trovò in buona compagnia, nell’occasione, il Checco mondiale. Perché a formare il sommario di quell’anomala antologia furono nientemeno che Giulio Andreotti, Alessandro Bergonzoni, Livio Berruti, Gianni Brera, Carlo Castellaneta, Silvio Ceccato, Camilla Cederna, Gianfranco Ferré, Mariapia Garavaglia, Jas Gawronski, Roberto Gervaso, Luca Goldoni, Luca di Montezemolo, Giuseppe Pittanò, Vittorio Sgarbi, Enzo Spaltro. Beh, come compagnia letteraria – per quanto una tantum per non dire una per semper – niente male, ne converrete. Certo, il libro è, per dirla in gergo, una marchetta. Ma ha una sua sostenibilità.
Aggiungiamo che il racconto di Francesco Moser si fa leggere, sicché non appare blasfemo pensare alla revisione di un amico giornalista (potrebbe essere un gioco divertente scoprire chi fu) una volta che il campione fornì le coordinate della sua narrazione. Tra l’altro il racconto, Un cocktail di sospetti, titolo quanto mai adatto all’ambiente che ha fatto di Moser un idolo, gratificava al meglio il ricco potente committente, vale a dire la Bayer. Leggiamo il finale: “Ricordo che di Coppi si favoleggiava – scrisse Moser versione autore – perché fu il primo ad avere il medico onnipresente. Coppi è stato il primo che ha trasformato l’Italia del pedale, forse è stato l’archetipo per eccellenza dello sport che ha scelto. So per certo che Bartali diventava matto, convinto com’era che il suo più acerrimo rivale avesse, dalla farmacologia, aiuti decisivi, determinanti, tutti illeciti. Coppi, invariabilmente, rispondeva che un’Aspirina non può far male. Riflettendo, non mi riesce di capire come mai, con questi presupposti, la Bayer non si sia mai messa a costruire biciclette”. Diciamocelo: Moser scrittore è sorprendente. E ad ogni buon conto non è di certo l’Aspirina che ha segnato la storia dei sospetti farmacologici in bicicletta. Aveva ragione Coppi, opportunamente citato dal ciclista trentino. Un’Aspirina non può far male.
Anzi: a Francesco Moser ha fatto bene, trasformandolo – il tempo di un racconto di tre pagine – in uno scrittore.
PS: il 6 ottobre 2013 il sito Abebooks – libri usati, libri antichi, libri fuori catalogo – ha due Racconti dell’Aspirina a disposizione. Rispettivamente a Rivoli e Brescia. Rispettivamente 25 e 14 euro. Per la precisione.
Tarcisio Vergani, masseur
di Alessandro Milani
Esiste sicuramente una fotografia che più di tante altre ha rappresentato la storia del ciclismo e ha finito per documentarne l’essenza: due campioni rivali si scambiano una borraccia preziosa lungo una delle faticose salite del Tour de France.
Sì, proprio la celeberrima immagine di Coppi, in maglia gialla, e Bartali scattata durante la ‘Grand Boucle’ del 1952.
Quella foto, che testimonia lo spirito vero, autentico dello sport del pedale, con due acerrimi avversari che si aiutano nel momento del bisogno, ha fatto il giro del mondo, percorrendo forse addirittura più chilometri di quanti non ne abbiano fatti sulle bici i campioni ritratti.
Ogni amante del ciclismo credo ne abbia una riproduzione in casa. Non a tutti capita però di averne una, in formato poster e a colori, con la firma in calce di uno dei due campioni. A casa di Tarcisio Vergani, su una parete del suo salottino invece questa firma c’è, e non solo la firma! Il manifesto infatti recita testuale: ‘All’amico Tarcisio Vergani. Gino Bartali. Tour 1952’.
Cosa ha fatto il signor Tarcisio per meritarsi la dedica del Ginettaccio nazionale?
Semplicemente il suo lavoro, il massaggiatore, anzi, suona bene alla francese, il masseur. E non un masseur qualunque! Sotto le sue mani, quelle stesse mani che rapidamente si muovono, a 91 anni compiuti, per sfogliare le pagine di un album di fotografie gonfio di ricordi e di campioni di vari sport, sotto le sue mani sono passati ciclisti del calibro di Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Louison Bobet, Jimenez e poi ancora Motta, Simpson, Magni, Terruzzi e tantissimi altri, italiani e stranieri, campioni su strada o su pista.
Entrare nella casa del signor Tarcisio significa entrare in una sorta di museo del ciclismo, e non solo per la fotografia di cui si diceva sopra, a proposito della quale lo stesso Vergani ci svela un fraintendimento divenuto storico. Lui, che proprio di Coppi è stato massaggiatore e a volte anche confidente (come spesso avveniva tra atleta e massaggiatore ai tempi in cui la figura professionale del masseur comprendeva anche quelle di medico, meccanico e uomo di fiducia), mi fa avvicinare al poster e mi chiede di osservare bene le biciclette di Bartali e di Coppi, in modo particolare le borracce.
“Guarda” – esclama – “Bartali ha ancora due borracce piene, una appena sotto il manubrio e una vicino al cambio, mentre Fausto ha soltanto in una mano il tappo di una delle sue. Perché Coppi avrebbe dovuto passare dell’acqua a Bartali, che già ne aveva di suo? La borraccia ghe l’ha pasada Bartali a Coppi, minga me disen!”.
Eh sì, il signor Tarcisio ha ragione, anche se ormai è stata consegnata alla storia come un bel gesto di Fausto Coppi.In realtà il gesto, compiuto da Bartali, diventa ancora più significativo: basti pensare che in quel momento Coppi è primo in classifica generale, come testimonia la maglia gialla di leader, e il suo rivale potrebbe approfittare di una sua eventuale crisi (magari dovuta proprio ala sete) in salita per attaccarlo, ma non lo fa e gli porge la borraccia.
Ma questo è il ciclismo, per Tarcisio Vergani la passione di una vita.
Un passione nata attorno ai 18 anni, dopo essersi distinto negli 80 metri piani e anche nella ginnastica con la Pro Italia di Milano.
Un passione che lo ha visto correre nei dilettanti di piccole società ciclistiche di Milano e Sesto San Giovanni.
Ma proprio a Sesto nasce invece la sua ‘carriera’ di massaggiatore, nelle squadre di calcio della Breda prima, della Pro Sesto, in serie B, poi. Retrocessa in C la Pro Sesto dalla sua casetta di Rapallo il signor Tarcisio entra in contatto con la Sampdoria di Brighenti, ma dopo poco se ne va.
Il problema è che, in quegli anni (e quanti ne sono passati se si guarda il mondo del pallone oggi!), nel calcio di soldi non ne girano.
Siamo nel 1948 e i veri eroi nazionali sono i ciclisti, anche perché l’anno successivo il destino si porterà via la squadra del Grande Torino lasciando il calcio italiano orfano di un simbolo di fama mondiale.
Attorno alle due ruote cominciano a muoversi invece la radio, i giornali, le passioni della gente e anche il business.
Le squadre professioniste hanno già lo sponsor e questo permette loro di contendersi i corridori più forti e anche i tecnici più preparati.
Tra loro anche Tarcisio Vergani: “Mi cercavano tutti. Tutte le squadre cercavano di avermi, e anche se non ero il massaggiatore della squadra, i ciclisti più importanti venivano da me, magari la sera, in albergo, dato che spesso uno stesso albergo ospitava più di una equipe. E io li massaggiavo tutti. I francesi mi dicevano ‘Verganì, con i tuoi massaggi si vola’ e infatti vincevano. Ad esempio ricordo quando morì Coppi, e io ero suo massaggiatore fin dai tempi della Clorodont, mi chiamarono da Parigi quasi il giorno successivo i dirigenti di Anquetil chiedendomi di non prendere impegni perché avrei dovuto seguire il campione francese. E così avvenne. Con me Jacques vinse al Tour e anche il record dell’ora.”
E a proposito della morte di Coppi, che ha visto di recente rispuntare una strana ipotesi che vorrebbe il campione italiano avvelenato, Tarcisio ha le idee chiare: “Fausto prima di partire per l’Africa era agitato, non solo perché da quando aveva conosciuto la Dama Bianca non era più spensierato come prima e aveva un po’ perso la testa, ma anche perché lui la malaria l’aveva già contratta, in forma lieve, poco tempo prima. Io non ho dubbi, morì di malaria. La moglie di Geminiani, che contrasse anch’egli il morbo in Alto Volta, dalla Francia, chiamò l’ospedale di Tortona spiegando come stessero curando suo marito con delle pastiglie. Qui non le diedero retta, cercarono di curarlo con le punture e lui morì.”
Articolo già pubblicato sul sito “Muvi – Museo Virtuale della memoria collettiva di una regione”.