di Ornella Tommasi
Il giornalista chiede al ragazzo sdraiato sul fondo della barca, quasi trent’anni e all’attivo almeno quattro tentativi di traversata tutti falliti e tutti seguiti da rimpatrio forzato, il perché di tanta ostinazione. Lui sorride e con l’aria più naturale del mondo spiega che “…lo dice la parola stessa, clan-destino, l’emigrazione è il mio destino…”. Mektub, in arabo: quello che sta scritto e non si può cambiare.
A cambiare sono le rotte, che oggi si estendono a Grecia, Turchia, perfino Croazia. Non cambiano i luoghi di provenienza, Maghreb, Corno d’Africa e Africa Subsahariana, solo per considerare il continente più vicino all’Europa Occidentale. Con impennate stagionali, secondo le condizioni del mare, e nuove emergenze come quella siriana.
Oggi è Lampedusa, all’epoca dell’intervista al ragazzo della barca erano Ceuta e Melilla, avamposti spagnoli in territorio marocchino. Ma volti e scenari si somigliano sempre. E a noi sembrano tutti uguali. Anche la storia di Patrice somigliava a quella di migliaia di altri, ma il caso ce l’aveva improvvisamente avvicinata, come il dettaglio di un’immagine che sfugge a una prima occhiata.
Autunno del 2006, foto di gruppo di frontiera. A Ceuta, con le nuove recinzioni di 6 metri sullo sfondo, in fila vicino alla scaletta dell’aereo per il rimpatrio, seduti accosto a un muro o mentre escono dai nascondigli a mani alzate. Sui giornali e nelle immagini televisive si assomigliano tutti, senegalesi, maliani e nigeriani: berretti, finte Nike e sacchetti di plastica sformati. Poi capita che qualcuno esca dalla foto, e per fortuna non sempre nel modo più tragico. A Patrice è successo mentre era ancora nella foresta di Belyounech, vicino alla frontiera di Ceuta, prima degli “assalti”. Erano in quasi duemila accampati nel bush in una sorta di villaggio neolitico, plurietnico e plurireligioso, recinzioni fatte di rami per delimitare la moschea, la chiesa cattolica e il luogo delle assemblee generali.
Lui viene dal Camerun, ha solo 22 anni e un fisico robusto senza il quale a Belyounech non avrebbe potuto resistere per due anni interi. Ma quando per un’improvvisa emorragia allo stomaco comincia a vomitare sangue i suoi compatrioti si preoccupano e lo convincono a raggiungere la zona del bosco dove si fanno trovare periodicamente i Medici Senza Frontiere. La diagnosi è un’ulcera gastrica, troppe aspirine a stomaco vuoto per curare tutti i tipi di dolori. Al pronto soccorso di Tangeri lo tengono una notte, un paio di flebo e analisi che portano a una diagnosi rassicurante: “Tutto a posto, venite a riprendervelo”, annuncia qualcuno all’équipe di MSF. Ma Patrice non si regge in piedi, i medici ripetono le analisi in un laboratorio privato e risulta una gravissima anemia, subito affrontata a forza di trasfusioni in un altro ospedale. Nel primo hanno evidentemente sostituito il referto con quello di qualcun altro. Un bravo gastroenterologo lo cura con attenzione e in una settimana Patrice è pronto per essere dimesso. Ha riflettuto, non se la sente di continuare nella sua odissea, vuole tornare in Camerun. Ma a Tangeri non ne vogliono sapere, secondo polizia e militari “non è sotto la giurisdizione giusta”. Un commissario di polizia promette di raggiungerlo in ospedale ma poi non si fa vivo. L’unica soluzione sarebbe quella di farsi arrestare, ma allora dev’essere nel posto “giusto”. A Nador, frontiera di Melilla, a 350 km di distanza ma non più a piedi come all’andata, stavolta non ce la farebbe. Così finisce che i Medici Senza Frontiere lo mettono su un pullman di linea, con tanto di regolare biglietto, destinazione la caserma di Nador dove sono detenuti i “rimpatriandi”.
Lui sorride sempre, anche di questo paradosso burocratico che deve suonargli come un beffa, dopo anni passati a cercare di sfuggire alle polizie di mezza Africa. Il pullman parte solo la sera tardi, c’è un pomeriggio intero un intero per raccontare, sfogliare i giornali di queste settimane e riconoscere nelle foto compagni feriti e leggere anche di qualcuno che ci ha lasciato la pelle. “Ogni rivoluzione ha i suoi morti”, commenta. La sua, di rivoluzione, per ora l’ha persa. Alla famiglia ancora non vuole telefonare, “per fargli una sorpresa” ma anche, confessa, per non sentirsi dire che deve restare, tentare ancora, perché in tanti hanno sperato che ce la facesse a migliorare la sua vita e magari ad aiutare un po’ anche la loro. Per questo non si aspetta una grande accoglienza. Quando sarà lì tenterà di fare qualcosa, lui dice “autoimpiegarsi” visto che è fuori discussione che un lavoro glielo possa dare qualcun altro.
Eppure aveva cominciato bene, Patrice. A Douala, la capitale economica del Camerun, dopo la maturità ha frequentato per un anno l’Università, facoltà di biochimica. Ma in famiglia ci sono cinque figli, lui è il più grande e quando il padre muore le tasse d’iscrizione diventano insostenibili: l’equivalente di 120 euro all’anno, in un Paese in cui il salario medio sfiora solo i 40. Prova a cercare un lavoro, non viene fuori niente. È a quel punto che si affaccia l’idea dell’Europa: “Per continuare a studiare e avere qualche chance in più…Ma per uscire legalmente ti chiedono un conto in banca esorbitante. Se uno avesse tutti quei soldi a emigrare non ci penserebbe nemmeno. Ho fatto qualche risparmio, ho venduto una radio e un paio di pantaloni e ho preso la strada verso Nord”.
In concreto significa attraversare Nigeria, Niger, Libia e da lì l’Algeria verso il Marocco: mezza Africa, insomma, con in mezzo il deserto del Sahel e il Sahara. Il percorso Patrice ce l’ha stampato nel corpo e nella memoria, ma per indicarlo estrae da un borsellino gonfio di foglietti una fotocopia formato A4 della carta dell’Africa fisica, senza neanche i confini tra Stati, tutta spiegazzata. Le città, Zinder, Marad, Arlit e poi su verso Ghat e Ghadames, sono segnetti sulla carta. “Sì, c’è un momento in cui ti rendi conto che i pochi soldi sono finiti e non sei neanche a metà strada, ma a quel punto non puoi più tornare indietro…Ti fermi da qualche parte quando trovi un po’ di lavoro, metti insieme qualcosa per pagare il prossimo passeur. Impari anche a diffidare degli imbroglioni, in gergo “korsé”, che ti promettono di portarti direttamente in Spagna…è un commercio che comincia già in Niger, con la complicità della polizia, e noi siamo la merce. Arrivano ben vestiti, con belle macchine, ti prospettano due giorni di viaggio ma poi scopri che le distanze sono almeno di sette, ti lasciano nel deserto con le provviste che bastano solo per due giorni, ti dicono di continuare a piedi in una certa direzione ma tu non sai nemmeno dove sei… Ti affidano a una specie di guida, la nostra non ha fatto una piega quando siamo stati assaliti dai banditi che ci hanno fatto spogliare faccia a terra per prenderci tutto…al mio amico Eric hanno spaccato la testa, e nel caso nascondessi qualcosa nel corpo ti fanno ingoiare una mistura di acqua e farina che scatena subito una diarrea terribile, così possono controllare. Partiti loro, la notte stessa è sparita anche la guida. Eravamo una trentina, abbiamo camminato dieci giorni nel deserto bevendo quel po’ di acqua che a volte resta imprigionata tra le rocce. Ogni tanto sul percorso compariva qualcuno a offrirci di comprare cibo e acqua, ma dopo l’attacco dei banditi non avevamo più un soldo”. All’alba dell’undicesimo giorno Patrice e gli altri vedono le luci del primo villaggio libico, un contadino che li sfama a riso e tapioca e poi i primi fratelli neri. Lui riesce a trovare qualche compatriota, ma nel frattempo ha perso l’unghia di un piede e deve fermarsi. Riparte dopo due o tre giorni con un paio di sandali trovati tra i rifiuti e aggiustati con un po’ di fil di ferro e i vestiti che ha lavato nel frattempo, direzione Tripoli. Ma arrivato a Ghat non riesce a proseguire, resta due mesi in ospedale curato da un medico egiziano “molto gentile”.
Nel suo racconto Patrice usa spesso questo termine, il “gentil” che in francese ha un significato più ampio della semplice “gentilezza”, ed è come se nella sua storia mancassero proprio i “cattivi”. Da Ghat a Ghadames, Belbes, Ghardaya, Maghnaya e da lì 4 giorni di marcia per Nador, nella foresta di Guruguru, prima tappa in territorio marocchino. Li attraversa proprio tutti, Patrice, i punti caldi della cronaca recente: la frontiera con Melilla prima degli “assalti”, la strada che porta a Ceuta, 21 giorni a piedi sulla carta ma 35 nella realtà, per approdare alla foresta di Belyounech quando c’erano ancora quasi 2000 subsahariani, tra i quali molti del Camerun, tanto che a ricordare quel momento dice che si era sentito finalmente “al sicuro” . Qualche tentativo notturno di attraversare la barriera di Ceuta, regolarmente fallito, e quasi un anno nella foresta, assediata per mesi dalla polizia, per arrivare a oggi, e a questo paradosso che la polizia è lui a doverla andare a cercare, a Nador.
Convalescente dall’ulcera, jeans seminuovi, una camicia celeste a motivi floreali, e la pacata constatazione di aver perso la guerra: “Quando gli Europei chiudono le frontiere è una guerra che fanno contro i neri, e loro sono i più forti. Siamo in tanti che avremmo preferito restarcene a casa con 200 euro al mese piuttosto che partire per venire a guadagnarne 1000 in casa vostra. L’Africa è il continente più ricco del mondo, ma l’Europa deve smetterla di mettere i nostri Paesi l’uno contro l’altro, di sostenere i governi corrotti”.
Il pullman per Nador chiude le porte, il viaggio della speranza all’incontrario è cominciato.