Quando parlare di cucina ha senso

cucina del sensodi Alessandro Milani

Affrontare oggi, anno 2013, il tema della cucina in maniera originale ormai è quasi impossibile.

Siamo infatti immersi, o meglio, sommersi – tanto è forte la sensazione di trovarsi in una situazione pervasiva e fuori dal proprio controllo – da trasmissioni tv, riviste, libri che trattano dell’argomento.

Anche tralasciando le derive ultra pop e molto trash dei cosiddetti vip alle prese con i fornelli e di quelle persone che vip lo sono diventate proprio grazie ai fornelli, senza esser mai stati non dico cuochi ma nemmeno camerieri, resta comunque la mole di informazioni che quasi quotidianamente (se avete un contratto a canali satellitari togliete pure il “quasi”) ci viene fornita.
Ricette, ricette e ancora ricette. Qualche volta presunti trucchi, quasi mai educazione alimentare.

Perché tutto questo? Perché vende, sono le leggi del mercato. Laddove i prodotti di qualità non vengono pagati e sempre meno anche commissionati, si punta al prodotto facile, vendibile, e realizzabile con tanta passione e meno soldi.

Difficile trovare un altro motivo, un altro senso.

Ecco perché, dopo questa lunga e forse banale premessa, che è poi ciò che mi passa per la testa ogni volta che sento la notizia di un nuovo evento mediatico a tema enogastronomico, trovare un volume che parli di cucina in modo completamente diverso è un vero miracolo.

Quale la chiave di lettura nuova? Quella più semplice, mi verrebbe da dire quella “intelligente”, nel senso letterali del termine. Quella cioè che prova a trovare un senso. Ed è ciò che riesce a “La cucina del senso”, edito da Mimesis e curato da Gianfranco Marrone e Alice Giannitrapani.

La casa editrice milanes/sestese si connota per una preparata predilezione per testi filosofici, e qui ci offre quello che sulla carta, anzi, a la carte, sembrerebbe un’antologia di testi di semiotica relativi al tema “cucina”.
Non è soltanto questo, fortunatamente. Fortunatamente perché il volume ha così la possibilità di aprirsi a un pubblico più vasto di quello formato dai semiologi, che pur non rimarranno certo delusi dal livello scientifico dei vari saggi.
Il volume, che nasce anche grazie al Master in Cultura e Comunicazione del Gusto dell’Università di Palermo, è infatti una raccolta di contributi in parte di grandi antropologi, semiologi e filosofi ormai diventati veri classici, e in parte una collezione di interventi di giovani ricercatori, anche italiani (eh, sì, esistono ancora ricercatori italiani!).

Il libro non ha così la pretesa di essere letto in toto per trasmettere il suo senso, ma può offrire spunti interessanti, anche per il semplice curioso, digiuno o quasi di studi filosofici o di comunicazione.

A fianco dei saggi di Barthes, Lévi-Strauss e Bastide – i quali, concedetemelo, danno ossigeno a un laureato in filosofia appassionato di cucina e vittima di clericiumi, parodianesimi e mastersceffismi – ci sono interventi più mirati a individuare quel “senso” nascosto sotto quella narrazione che mira a toccare gli altri “sensi” e che non noteremmo facilmente.

Narrazione televisiva, narrazione testuale, ma anche narrazione attraverso immagini e simboli, ovviamente.

provacuocoEcco quindi, per esempio, il saggio del primo curatore del volume, quel Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica a Palermo, il quale, da buon siciliano, si concentra su La forma dell’arancino; Marialaura Agnello affronta una delle icone pop più famose al mondo in Un Don Giovanni felice. Intorno al logo di McDonald’s, Alice Giannitrapani cerca di capire la comunicazione della Bialetti con il lancio della “moka” Mukka Express, mentre il contributo, assai tecnico, di Algirdas Julien Greimas, La zuppa al pesto o la costruzione di un oggetto di valore, cerca di individuare il PN (il programma narrativo) di una ricetta.

Quelle ricette che ci circondano, che ci stuzzicano, che ci stufano, che riempiono i palinsesti, le riviste e le librerie. Apparentemente senza “senso”…

 

La cucina del senso. Gusto, significazione, testualità. A cura di Gianfranco Marrone e Alice Giannitrapani, Mimesis editore, Sesto San Giovanni (MI), 2012.

www.mimesisedizioni.it

 

Caducità delle foglie, caducità della vita: è l’autunno, bellezza!

funerale ecologicodi Alessandro Milani

Ebbene sì, ancora oggi, nel magma pubblicitario nel quale siamo immersi, un cartellone può attirare l’attenzione. E almeno per i pubblicitari il suo dovere l’ha fatto. Il messaggio che veicola, ecco, quello può essere discutibile.

E in certi casi anche un po’ da decifrare.

Uscendo da una delle porte dell’Ospedale Cà Granda di Milano, meglio noto con il nome del quartiere in cui è stato costruito illo tempore nel ventennio, cioè Niguarda, ci si scontra, quasi fisicamente con la pubblicità di Gaia Funeral.

L’immagine: un bosco dagli splendidi colori autunnali. Al centro, in grande, la scritta Gaia Funeral (senza la i finale, quindi in inglese, o volendo, in dialetto milanese). Appena sotto, il pay off che dovrebbe spiegare l’unicità del servizio: il funerale ecologico. In alto, il messaggio: Salva un albero con l’ultimo gesto d’amore.

Ora ci vengono offerte due possibilità: la prima è quella di affrontare il tema del trapasso e della sua rappresentazione nelle cerimonie funebri. In un periodo nel quale il funerale viene discusso in tutta la sua valenza simbolica più che pratica, da quello per i somali e gli eritrei morti nelle acque del Mediterraneo di fronte a Lampedusa, a quello contestatissimo al criminale nazista impenitente Priebke.
In questo caso si dovrebbe parlare del senso della morte nel cattolicesimo, e forse addirittura in tutta la cultura occidentale, da Epicuro in su, magari condendo il discorso con un po di humour nero, per non venir meno al sentire comune per il quale della morte (e dei suoi annessi e connessi pratici) è meglio non parlare.

Ci ripromettiamo di farlo, magari rispolverando la storia di quel giornalista sportivo torinese che un dì decise di fondare addirittura una rivista dedicata al tema della morte, intesa sia filosoficamente, sia, soprattutto, come evento della vita.

funerale a milano nel 1952Oppure abbiamo una seconda ipotesi: quella di cercare di capire di più quale servizio e quale comunicazione offrono, ai morituri e a tutti noi curiosi, i signori della Gaia Funeral.

Premesso che i loro servizi, quand’anche fossero i migliori sulla piazza, non ci interessano e speriamo continuino a lungo a non interessarci, veniamo alla “proposta”.

Anzitutto il termine ecologico. Ormai siamo abituati a sentirlo praticamente in ogni contesto: ci sono cibi, vestiti, detersivi ecologici, soluzioni ecologiche per la casa e per le nostre città, persino le automobili ecologiche (anche quelle che non lo sono). Ma il funerale ecologico?

Qualcuno hai dubitato che le fasi alle quali assistiamo dalla morte di una persona alla sua sepoltura non siano addirittura “bio”?
Rifletto: il corpo umano, anche nel caso in cui fosse stato riempito di farmaci a causa della malattia, dovrebbe restare bio, bio la cassa di legno, bio la terra. Ancora più bio la cenere.

grande lebowskiLe onoranze funebri al massimo offrono soluzioni più o meno economiche e più o meno “di classe” (qui lo humour nero è tutto loro), magari per sottolineare lo status della famiglia (come succedeva una volta con il carro con i cavalli bardati di nero). Oppure le scelte riguardano aspetti “accessori” come i tributi floreali al defunto (“non fiori, ma opere di bene”) e la scelta o meno per la cremazione (anche qui con varie possibilità, sulle quali si rimanda alla scena de Il Grande Lebowski dei fratelli Cohen relativa alla scelta dell’urna per le ceneri).

In che cosa consiste la scelta ecologica?

All’interrogativo risponde solo parzialmente il messaggio che invita al gesto d’amore verso un albero con l’ultimo gesto finale. Rinunciare al legno, però, può non essere di per sé una scelta bio. Anzi, una cassa in eternit sarebbe molto peggio.

Il messaggio apre inoltre a un’ulteriore domanda: a chi si rivolge? L’ultimo gesto d’amore è allestire il funerale per un parente? Quali altri aspetti del funerale possono essere più o meno ecologici?

Scartata l’ipotesi di chiamare il telefono verde, abbiamo cercato di rispondere accedendo al sito internet gaiafuneral.org: qui finalmente capiamo che Gaia funeral anzitutto non offre un servizio di onoranze funebri (su questo stesso cartellone faceva mostra di sé, qualche anno fa, un’offerta di “funerale completo a 1000 euro”), ma produce bare ecologiche. Di esse vengono illustrate le caratteristiche (cellulosa da fibre naturali non lignee e cortame di legno) e qualità (molto più leggera, meno consumo di legname, meno consumo energetico nella cremazione, mancato uso di vernici ecc).

Il sito, che in realtà consta di una sola pagina web, entra poi nel tecnico, illustrando i test ai quali sono state sottoposte le bare e la concessione del Ministero della Salute a commercializzarle.

Ok, ci avete convinto, la scelta è ecologica. Resta aperto l’altro fronte: nella pagina web non compare (né tanto meno lo fa nel manifesto pubblicitario) il prodotto offerto, cioè la bara ecologica.

funerale ecologico

No, sempre e solo un bosco in autunno.

Non dico un defunto, ma almeno una bara. Siamo quasi ad Halloween, ne vedremo molte di più nei cartoni animati. In effetti non ricordo di aver mai visto l’immagine di una bara usata a fini commerciali. Ma dovremo pur vedere l’unico prodotto che producono, o no?

Vorremmo farci un’idea, almeno attraverso una foto photoscioppata se i suoi 17 kg possono competere con i 70/80 delle bare tradizionali. No, nemmeno una bara.

Anche la Gaia Funeral si è scontrata con il problema di fondo: di certe cose è veramente difficile parlare, ancora di più illustrandole. Anche la pagina web che a un certo punto parla di “valutazioni della biodegradabilità aerobica/anaerobicha ultima secondo norma UNI EN14046”, pensa davvero che sia questo a muovere le scelte delle persone? Ma, soprattutto, che ciò possa diventare anche solo lontanamente oggetto di discussione?

No, si torna sempre a Epicuro e alla sua idea che della morte nulla ci deve importare, perché quando ci siamo noi, non c’è lei, e quando c’è lei, ormai noi non ci siamo più. Bara ecologica o meno.

Epicuro lo faceva per indirizzare al pieno godimento della vita, noi lo facciamo più per paura, temo…ma tra il filosofo di Samo e noi ne sono cadute di foglie, non soltanto in autunno…

 

 

La fotografia del funerale è di Paola Ziccardi per MuVi, www.muvilo.it e ritrae un funerale in via Padova a Milano a inizi anni ’50.

SUC, l’unica lotta che si perde è quella che ti fa perdere la socialità

spazio ufficio condivisodi Alessandro Milani

Milano, Isola-Garibaldi. Il quartiere di storie potrebbe raccontarne per ore e ore, anzi, per giorni interi.

Basta guardare fuori dalla finestra per vedere una stratificazione edilizia, commerciale, sociale e umana che altrove la città non ha, o nasconde, o ha completamente perso.

Qui, fino a pochi anni fa, prima che la speculazione sui terreni dell’“Area Garibaldi” portasse ai grattacieli della “Nuova Milano” che guarda all’Expo 2015 imbrattata di cemento e calcestruzzo, c’era la stecca degli artigiani.

Può essere solo apparentemente un caso se la Rete Redattori Precari (Re.Re.Pre. per gli amici) abbia deciso di compiere qui un salto di qualità. Un salto non nel vuoto, quello purtroppo è già garantito dall’asfittica editoria italiana (per lo meno la cosiddetta “grande” editoria, quella che a Milano dava lavoro a centinaia di redattori, internamente o attraverso i service editoriali).

No, il salto di qualità è concreto: passare dalle lotte di denuncia verso situazioni lavorative ben sopra il limite della decenza e dalla preziosa assistenza sindacale, legale, umana ai redattori precari all’offrire un servizio concreto, prezioso.

Tra il dire al fare c’è di mezzo il mare. Balle. Anche grazie alla collaborazione con San Precario, che utilizza a sua volta i locali di via Confalonieri 3 (con Pianoterralab.org e un Gruppo di Acquisto Solidale), oggi, 9 ottobre 2013, nasce SUC – Spazio Ufficio Condiviso.

quartiere isola milanoDopo 6 mesi di “studio” e attesa, vede la luce, come recita il “sottotitolo”, il primo coworking solidale. Completamente gratuito, sia lo spazio, sia il wi-fi (velocissimo), offre – per ora solo al mercoledì dalle 10 alle 19 – un posto dove lavorare, lontano dalla solitudine e dall’atomizzazione del lavoro alla quale sta portando il precariato.

Che bello lavorare in proprio, con partita IVA, in tutta libertà e da casa propria. Provatelo e poi ne riparliamo: senza voler citare i ritmi da consegne serrate e l’impossibilità di ammalarsi, già l’adeguamento della propria casa (familiari in primis) per un’attività lavorativa e il compenso da fame portano a un’alienazione che persino a Marx sarebbe sembrata fantascientifica.

Tanti ne discutono, oggi (ma la situazione è soltanto peggiorata con la crisi, non è nata di recente, purtroppo), ma pochi fanno concretamente qualcosa.

san precarioTanti si lamentano, ma si fermano lì. È quello che mi dice subito Laura, redattrice da 6 anni (tutti precari) per un grande colosso editoriale italiano, la quale passa da un contratto a progetto a uno a ritenuta d’acconto in barba a qualsiasi regolarizzazione lavorativa. La sua storia è ahimè paradigmatica: laurea, viaggio all’estero, atterraggio in nazione precaria. Mi racconta del suo mondo del lavoro facendo anzitutto riferimento alle possibilità (mancate) di organizzarsi all’interno delle case editrici anzitutto affinché non si arrivasse a questo livello di sfruttamento: mai uno sciopero dei redattori, mai un “no” alle proposte – spesso indecenti – che ti vogliono veder lavorare anche la sera e nel weekend. Perché tanto, per un redattore che dice no, ce ne sono altri 10, forse 100, pronti ad accettare, per non parlare di quelli senza lavoro pronti a prendere il tuo posto, anche se precario.

Anche il gruppo dei Redattori Precari risente di questo iato tra chi si informa sulla loro attività (su Facebook o attraverso la mailing list) e chi poi partecipa attivamente alle riunioni: si parla di un rapporto di 2000 a 10, mas o menos. La voce grossa la fa ancora una volta la paura: si teme di più il mostrarsi pubblicamente attivi per difendere i propri diritti rispetto al temere una vita fatta di costanti prevaricazioni, ansie, medicinetuttiigiorni, impossibilità di stare male e soprattutto di progettare il proprio futuro.

Non è tanto diversa la storia di Alessia, laurea, esperienze all’estero, master e poi redattrice da 4 anni, e da 4 anni con partita IVA per un altro grande editore milanese “di cultura” e attiva fin da subito nella Rete e in San Precario.

Così vale per anche per Serena, Simona e tante altre redattrici e redattori.

lavoro culturale

Perché tante donne tra le redattrici precarie? Forse perché a tutti i motivi di sfruttamento citati sopra, va aggiunto il fatto che una donna che sceglie questo mestiere non può pensare di avere figli; altrimenti smette immediatamente i panni della redattrice precaria per indossare quelli della mamma disoccupata. Quanti possono permetterselo? Economicamente e a livello di dignità, umore, progetti di vita. Quale società ti mette di fronte alla scelta obbligata tra lavoro (attenzione: il lavoro non la “carriera”, secondo lo stereotipo che ci hanno venduto fino agli anni ’90) e famiglia? È tutta colpa della crisi?

Domande senza risposte, almeno convincenti.

L’unica soluzione possibile è fare, e non farsi schiacciare. Meglio se lo si fa restando uniti, recuperando almeno parte di quel tessuto di relazioni umane che si sta via via perdendo nelle città, nei quartieri, persino nelle redazioni del “lavoro culturale”.

Resistere, bisogna resistere, umanamente prima di tutto, perché l’uomo è (ancora) un animale sociale.

A pochi giorni dalla scomparsa del generale Giap che in Europa portò a coniare lo slogan 10-100-1000 Vietnam, oggi che il nostro orizzonte si è purtroppo ristretto anche politicamente, cerchiamo di salvare il salvabile gridando 10-100-1000 SUC!
Almeno.

 

La neve della Valpolicella

Valpolicella - vignetidi Alessandro Milani

Ci sono storie che in alcune zone, talvolta nemmeno geograficamente ristrette, sembrano scontate da quanto siano risapute; le stesse storie, anche a soli pochi kilometri di distanza, risultano invece sconosciute e sbalorditive.
Devono aver pensato questo i giornalisti dell’Arena di Verona quando, negli anni 60 del secolo scorso, hanno pubblicato un articolo sulla Valpolicella dal titolo “A Fumane nevica anche d’estate!”.

Gli abitanti del piccolo paese e della valle intera, invece, lo sapevano benissimo che a Fumane nevicava anche d’estate, e non un anno soltanto. E più di ogni cosa sapevano che la sostanza che imbiancava i campi, le strade e i tetti delle case non era neve, anche se da lontano ne aveva l’aspetto.

Non erano nemmeno i petali bianchi dei fiori del melo, che sembrano innevare le valli dedite alla pomicoltura nel mese di maggio…

No, purtroppo ciò che rendeva bianca questa zona della Valpolicella anche nei mesi estivi era la cenere prodotta dal cementificio di Fumane.

nevica d'agosto - locandina

Non era quindi una sostanza buona come la neve, sotto la quale la saggezza contadina vede nascondersi il pane.

Proprio i contadini erano invece i primi a pagare scelte produttive come quella che aveva portato al cementificio di Fumane. La Valpolicella, infatti, è famosa soprattutto per i prodotti della sua terra, in particolare le uve che servono agli ottimi vini che portano il nome della valle in tutta Italia e oltre, con Recioto e Amarone come punte di diamante.

Il dibattito, che ha preso spesso le sembianze dello scontro tra quali forme di produzione, quali diverse forme di visione del progresso stesso, cominciò a Fumane e oggi è ancora più vivo che mai. La valle, quasi un laboratorio dentro quel laboratorio più grande che è il NordEst della crisi, un NordEst post-postindustriale, continua infatti a vedere tra loro contrapposte idee, ideali e valori diversi.
Tutti gli abitanti della Valpolicella sono parte in causa, non soltanto gli attori istituzionali e gli imprenditori.

Il progresso in chiave industriale, che ha portato al cementificio (e non solo) oggi sembra perdente, ma non tutti vogliono rendersene conto. C’è chi non ha orecchi per intendere e c’è, come sempre, chi ha tutto l’interesse per non farlo.

La valle è infatti interessata a/e/da una nuova visione del progresso, così innovativa che fa tesoro del passato (agricolo) del territorio. Un progresso che non passa ma addirittura parte della valorizzazione del paesaggio, naturale e umano, o meglio, antropizzato: cultura del territorio, sapere contadino, turismo enogastronomico. Su tutto, la diminuzione del consumo del territorio, se non nel senso culturale del termine: bere Valpolicella e berne le storie, le tradizioni.

Sono questi i punti di partenza (la storia di Fumane) e arrivo (nuovi orizzonti della valle) di un documentario che si annuncia davvero interessante: Nevica d’agosto.
Prodotto dall’associazione culturale Nuvolanove (www.nuvolanove.it), in particolare dall’attrice e regista Lucilla Tempesti e dal giornalista Luca Martinelli, il documentario racconta la storia della Valpolicella attraverso la metafora delle diverse stagioni dell’anno.

Valpolicella - uveFiduciosi che l’ultima stagione del video, la primavera, risulti quella vittoriosa, il progetto si è già guadagnato il patrocinio di Slow Food Italia e quello del Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.

L’associazione Nuvolanove si è subito attivata anche nel partecipare agli eventi e alle manifestazioni che si susseguono in Valpolicella riguardo le “scelte” ambientali. Perché fare cultura oggi significa anche questo.

Il video non è ancora disponibile, perché attende il contributo di tutti: è infatti una “produzione dal basso” e l’associazione ha attivato diversi canali per raccogliere i fondi necessari a coprire almeno parte delle spese di realizzazione.
Chi sosterrà il progetto, oltre a ricevere copia del documentario, avrà subito in cambio i migliori prodotti della valle.
Sì, tranquilli, quando parliamo dei prodotti migliori parliamo dei vini, non del cemento. Lo avevate capito? Che il tesoro della Valpolicella stia nell’enogastronomia per fortuna ormai lo ha capito anche il progresso…

Per informazioni e per sostenere il progetto:

http://www.nuvolanove.it/n/spettacoli-2/video/nevica-dagosto/

http://www.nuvolanove.it/n/tag/nevica-dagosto/

Raccontare Storie rilancia il gusto di narrare

Archivio Martinelli

Dopo un fin troppo lungo periodo di riflessione, su di sé, sul senso della sua presenza in rete, una rete già di suo propensa al raccogliere storie, Raccontare Storie riparte, come un’ala in contropiede.

Lo fa anzitutto con due grandi, importanti novità: sarà la sede online dell’antienciclopedismo situazionista dell’Archivio Martinelli.
E si avvarrà della collaborazione di Carlo Martinelli stesso. Giornalista e scrittore trentino, appassionato di storie e divulgatore del (buon) gusto di leggere e narrare, Carlo curerà la sezione dell’Archivio, ma contribuirà anche ad arricchire l’intera rivista alla sue maniera, cioè con spunti originali, stimolanti, mai banali.

Un grande benvenuto a Carlo, al quale mi lega un ormai più che decennale rapporto di stima e amicizia, ma con il quale non avevo mai avuto la fortuna e il piacere di collaborare professionalmente. Ma si sa, le vie dell’underground sono infinite…

Buona lettura

Alessandro Milani