Una wunderkammer di cinquecentesca memoria, piccola come lo studiolo di un nobile collezionista di bizzarre mirabilia, oppure una bottega che avrebbe fatto la gioia di un dadaista, zeppa di oggetti: alcuni riconoscibili anche a chi non è appassionato di bricolage, altri misteriosi. Parti di rubinetti, caschi da lavoro, pinze di ogni tipo, forbici per il giardinaggio, graffettatrici, crick per cambiare le gomme dell’auto, flessibili, chiodi, rivetti e bulloni sembrano accatastati in apparente disordine e invece al suo interno, un interno che odora di gomma e ferro, si muovono a completo agio Luigi Orini, classe 1942, calvo e accigliato e suo figlio Davide, 38 anni, un viso dolce e pulito sopra il camice blu di ordinanza.
C’è poco spazio per muoversi all’interno della Ferramenta Orini, perché di gente che compra ce n’è eccome e fa la fila nell’ingresso con il pavimento di marmo scuro disegnato a grosse losanghe e mai sostituito dagli anni Quaranta. I clienti sembrano tanti perché lo spazio è ridotto, in realtà sono solo tre alla volta ma il flusso è contino. Anche se è facile immaginare che non spendano molto per quelle poche ferraglie che acquistano, impacchettate con cura in fogli di carta pesante da Luigi e Davide e poi chiuse con lo scotch, il lavoro non manca. Sono venticinque metri quadrati di negozio ma, tolto il bancone e gli altri mobili, non ci si muove quasi. Poi c’è l’ancor più piccolo retrobottega dove si fa fatica a entrare perché interamente occupato da sporgenti mensole sulle quali fanno bella vista di sé centinaia di scatolette di cartone impolverato di varie misure che contengono, mi dice Luigi, soprattutto bulloni.
Un’atmosfera d’antan quella che si respira dagli Orini che fa il curioso e singolare paio con quella dell’adiacente Posteria Bertelli ininterrottamente aperta dal 1939 sulla via Imbonati dove sono rimasti quasi solo questi due negozi italiani, guarda caso entrambi con una lunga storia familiare alle spalle. La ferramenta è un po’ più giovane: f,u aperta nel 1945, quando le bombe alleate smisero di fischiare sui cieli di Milano e la gente era in festa per la fine della guerra. “Non ho iniziato io questa attività” – dice Luigi mentre continua a lavorare senza guardarmi – “Io sono ferramenta perché lo erano i miei che, a loro volta, presero in mano l’attività dei miei nonni Anna e Felice che aprirono negli anni Venti un grande punto vendita in zona Porta Nuova. Allora, ovviamente, il negozio riforniva le aziende più che i privati. E lo facevo anche io in questa piccola bottega fino agli anni Ottanta. Poi è arrivata l’era dei grandi centri commerciali e le officine, le fabbriche e gli artigiani non si sono fatti più vedere qui. A noi, da almeno vent’anni, è rimasta solo la vendita al dettaglio, al cliente privato”.
Ed è proprio verso la fine degli anni Ottanta che Davide, allora quindicenne, entra nel negozio di famiglia per imparare il mestiere. Non è solo l’aspetto della bottega che ha qualcosa di antico ma anche questo naturale passaggio del testimone da una generazione all’altra nella gestione della piccola azienda di famiglia. Una scelta in controtendenza quella di Davide la cui fede d’oro luccicante al dito contrasta un po’ con il suo viso dai lineamenti infantili. La maggioranza degli adolescenti della sua generazione non avrebbe fatto la sua scelta. Era la fine del decennio dell’apparenza e dell’euforia economica, dell’edonismo e del culto del divertimento. Anche del lavoro certo. Ma non del lavoro di ferramenta. I più avevano altro per la testa che chiudersi in una piccola bottega con papà per portare avanti quel mestiere che non offriva certo prospettive entusiasmanti. E quello era proprio il decennio dell’entusiasmo. Era facile, per chi veniva da una famiglia minimamente abbiente fare le superiori e poi iscriversi in massa a quella facoltà così in voga in quel momento, quella che se non la facevi sembrava non volessi assicurarti un futuro prestigioso a livello professionale, personale ed economico: economia e commercio, i cui riti accademici si svolgevano nel capoluogo lombardo nei due “templi” della Bocconi e dell’Università Cattolica. “Ma io non avevo nessuna voglia di studiare” – dice Davide ridacchiando. Forse proprio questo l’ha salvato dal mito di cartapesta della finanza, di cui stiamo pagando il conto salatissimo tutti noi per lo meno da un quinquennio o forse più. Quando Davide era adolescente, tutti si immaginavano donne e uomini d’affari, o meglio, come si diceva allora, “in carriera” a fare interminabili riunioni e a girare con la ventiquattro ore il mondo salendo e scendendo dagli aerei per fare non si sa bene cosa. Lo facevano anche nei film culto del decennio come Wall Street, pellicola del 1987 interpretata da Michael Douglas, volto-icona hollywoodiano del periodo.
Niente sogni di gloria per Davide ma un tranquillo apprendistato nella bottega paterna e qui le lancette del tempo sembrano andare ancora più a ritroso e riportarci nel mondo medievale delle gilde artigiane dove al padre succedeva automaticamente il figlio. Figlio che tuttora non ha una mail e lo dice sorridendo mentre il padre, con gli occhi fissi su un aggeggio del quale non comprendo l’utilizzo, afferma orgoglioso che lui non ha nemmeno il cellulare.
Prima di andarmene cerco di sgusciare nel retro, scansando le tre persone che occupano interamente lo spazio della bottega. In fondo lì dò un po’ fastidio. Lì non si chiacchiera, si lavora. Un’ultima occhiata alla parete più interna del negozio e scorgo quella che potrebbe essere un’installazione artistica, questa volta contemporanea: una serie di piccoli cassettini di legno dalla perfetta geometria, laccati di vernice verde acqua con tante manigliette in ottone. Mentre fotografo mi giunge la voce di Luigi: “Quella cassettiera non è degli anni Quaranta ma degli anni Venti, l’abbiamo recuperata dal vecchio negozio di Porta Nuova”. Non so se sia stata ridipinta, so solo che è tenuta perfettamente ed è bella, tinta di quel fresco colore, oltre a essere misteriosa perché evidentemente ogni cassettino contiene della ferraglia di tipo diverso da quella contenuta in quello attiguo.
Chissà come fanno Luigi e Davide a metterci le mani con competenza. Segreti del mestiere che solo loro conoscono. Per sapere se li conosceranno anche i figli di Davide è troppo presto. Anche se la storia aziendale incarnata nei muri di questa bottega sembra voler tornare indietro nel tempo, siamo giunti sul crinale della fine del potere mondiale dell’Occidente e immaginare il futuro, anche quello più immediato, è solo una chimera.