di Henry J. Ginsberg (alias Marco Pontoni)
Così lui la strappò via e la portò in giro per Berlino, era il primo dell’Ovest che Hanna conosceva, addosso una giacca stretta, sul viso lunghe basette sottili, come due rasoiate, la condusse al suo pub e poi via di lì, le comprò un cappello rasta, le mostrò torri e palazzi, le presentò quantità industriali di amici che forse conosceva appena, e quando Hanna alla fine confessò che era affamata la portò a mangiare la migliore pizza che facessero da lì a Napoli, “la migliore, ti dico, non-si-di-scu-te!”.
Verso le cinque del mattino cadde un po’ di pioggia, o forse no, forse mi piace pensarla così, mi piace pensare che lui la strinse o forse che lei si tolse l’impermeabile e lo usò per coprire entrambi, perché lei era più attrezzata di lui ai rigori di novembre, lui era un tipo underground, uno che sembrava fatto della stessa pasta di quei muri, di quelle cantine dove suonavano come se picchiassero con un estintore su un’incudine, non sapeva nemmeno come si chiamasse. Verso le cinque la festa continuava e qualcuno cominciò a capire che non era una festa, cioè una cosa che poi finisce, che sarebbe stato per sempre così, da ora in avanti, non due città ma una sola, non due Paesi ma uno solo, non due popoli ma uno, il popolo tedesco. Verso le cinque, cinque e mezzo al massimo, si baciarono su una panchina. Era il primo bacio ad Ovest di Hanna, sapeva di birra come ad Est, ma non era spiacevole, e comunque con il suo fidanzato, quella mattina, aveva praticamente chiuso. Che storia, chiudere la stessa giornata della caduta del Muro! Da ricordare. Anche troppo. Come i troppi punti esclamativi con cui racconto questa storia d’amore, la migliore che abbia mai sentito, per quel che mi riguarda, almeno.
All’ora di colazione salirono strette scale, che si muovevano sotto i loro piedi come scale mobili. Lui armeggiò con delle chiavi, piuttosto a lungo. Infine giacquero su un divano letto. Si sentivano i clacson delle auto dei suoi compatrioti, fuori, e alla televisione Kohl stava parlando.
Hanna si sforzò di non stare male e alla fine si addormentò con la guancia sui peli del suo petto, cullata dal suo dolce russare occidentale. Si risvegliò solo due ore dopo con il mal di testa (lui dormiva), guardò dubbiosa dentro il frigorifero, diede un’occhiata ai suoi Lp, decise di uscire a comperare qualcosa per colazione, si rese conto più tardi che i soldi che aveva in tasca non avevano valore e non le andava di farsi dare del cibo gratis sfruttando la sua aria da profuga, girò un po’ attorno, senza sapere dov’era, entrò in un grande magazzino e uscì subito perché la guardavano sgranando sorrisi, si perse, cercò di tornare indietro, non trovava la casa, non aveva seminato la mollica del pane, comprese in un’illuminazione che non avrebbe saputo nemmeno riconoscerla, che non ci aveva fatto caso, che quando erano saliti su erano entrambi ubriachi e snob, e poi su dove? Forse si trattava di un sottoscala ed era sembrato a lei che si fossero inerpicati fino all’ultimo piano, forse lui non avrebbe voluto veramente rivederla, al suo risveglio, forse…ah, come ci si può sbagliare!
Nella luce acida del mattino, nella sarabanda delle Trabant scatenate, si fece un pianto liberatorio. Poi si sentì battere su una spalla, si voltò. L’uomo avrà avuto sessant’anni, bianco candido rassicurante sui baffi e nei capelli. La moglie, comoda, burrosa, le stava porgendo un fazzoletto che odorava di buono.
Così li seguì. Pranzò nel loro elegante appartamento, ringraziò, accettò un cappotto e una maglia, fumò una sigaretta. E quindi, sempre con loro, piano piano, sotto un cielo ormai pomeridiano, si diresse verso il checkpoint. Vale a dire, verso casa.
E se questa non vi sembra la miglior storia d’amore che abbiate mai sentito (e non vi do torto), aggiungerò solamente che nove mesi dopo, come nelle migliori storie d’amore, o forse no…sono nato io!
da: Henry J. Ginsberg, “Vengo via con te – storie d’amore e latitudini”, Valentina Trentini ed., Trento, 2012.