di Roberto Mottadelli
Scrive Mircea Eliade: «Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere “religioso”[1]». Nel brodo primordiale della cultura, dunque, ciò che poi sarebbe stato definito osceno era parte essenziale del sacro. La delimitazione del sacro, la sua codificazione e intellettualizzazione appartengono a una fase successiva, quella delle religioni, in particolare delle religioni rivelate, capaci di racchiuderlo, contingentarlo dentro raffinatissime architetture teologiche.
Di alcune attività umane le religioni rivelate hanno confermato l’arcaica sacralità, mentre altri aspetti del “vivere da essere umano” hanno subito un’evoluzione antitetica, fino a essere indicate come peccaminose (si vedano le proibizioni legate all’alimentazione) o addirittura oscene, ed è il caso dell’eros.
È significativo, però, che Ebraismo e Islam (due delle tre religioni monoteiste) si siano preoccupate di mantenere il nucleo incandescente del sacro in una dimensione pre-iconica, sancendo il divieto della raffigurazione di Dio e dei profeti e arrivando, in alcuni casi, a vietare la figurazione tout-court, estremizzando indicazioni molto meno stringenti contenute nella Bibbia e nel Corano[2].
Come l’osceno, anche il sacro non deve essere rappresentato: farlo costituirebbe blasfemia e profanazione, quindi sarebbe un atto osceno. E ciò chiude una cortocircuitazione logica tra due poli molto più vicini di quanto potrebbero apparire a un primo sguardo.
La grande eccezione è costituita dalla tradizione cristiana, e in particolare cattolica, che non solo ha permesso la raffigurazione del sacro ma ne ha fatto un potentissimo strumento di diffusione ed evangelizzazione. Nonostante il periodico riemergere di pulsioni iconoclaste.
La creazione di un repertorio simbolico e di un immaginario figurativo legati al sacro ha condizionato per due millenni la cultura occidentale, prestandosi anche a riutilizzi e reinterpretazioni in ambito profano. Circoscrivendo il fenomeno al solo XX secolo, caratterizzato da una progressiva laicizzazione sia della vita pubblica sia dell’arte, un interessante filone – per quanto minoritario e ancora non del tutto esplorato – è quello della satira anticlericale e socialista, che fece un intenso riuso di formule, iconografie e rituali cattolici con esplicito intento polemico e provocatorio.
Valga a titolo d’esempio la storia di una testata di enorme successo come «L’Asino»[3] di Guido Podrecca e Gabriele Galantara. In realtà la rivista prese di mira soprattutto la Chiesa, il clero e i politici cattolici – e solo in misura molto minore la predicazione di Cristo e i fondamenti della fede: riconduce piuttosto la figura di Gesù a quella del protosocialista tradito dalla gerarchia e dall’ottusità dei fedeli. Eppure rubriche dai titoli e contenuti espliciti (“L’erotomania cattolica”) e calembour come quello che trasformò il Corpus Domini in Porcus Domini risultavano osceni e intollerabili. E ancor più blasfeme apparivano le vignette in cui, all’interno di iconografie cristiane più o meno rielaborate[4], Galantara inseriva elementi di contemporaneità volti a denunciare gli abusi del clero. Contro quel tipo di satira si levarono non solo le grida scandalizzate dei vescovi, dei preti, delle riviste e delle masse cattoliche, ma anche quelle di intellettuali laici e perfino socialisti: lo stesso Filippo Turati definì l’anticlericalismo di Galantara «goffo e pornografico[5]».
In altri casi la ripresa di un’iconografia cristiana in chiave laica nasce da urgenze espressive prettamente artistiche, intenzionalmente meno polemiche e violente rispetto a quelle di natura politica. Magari nell’ambito di indagini incentrate sul dolore, così celebrato, ostentato e minuziosamente declinato dalla tradizione cattolica da prestarsi a una messe di rivisitazioni dissacranti e spesso erotizzanti. Dal san Sebastiano trafitto eppure in mistico deliquio, fonte di turbamenti per Yukio Mishima e destinato a divenire una delle prime icone gay[6], ai tableaux vivants di Luigi Ontani e a quelli di Pier Paolo Pasolini. Che, per l’episodio La Ricotta, fu oggetto di pubblica riprovazione e perfino di una condanna per vilipendio della religione[7].
Come l’iconografia del dolore, a ispirare riusi e reinterpretazioni laiche è quella del concepimento e della maternità, la cui oscenità – grossomodo nel periodo compreso tra il De Officiis di Cicerone e l’Origine du monde di Courbet – fu efficacemente rimossa dalla cultura cristiana attraverso la sublimazione delle Annunciazioni e delle Natività, con annessa, insistita celebrazione della verginità di Maria. La repressione della dimensione carnale e sessuata della figura della madre di Gesù segna il passo nell’Ottocento, e in particolare sul finire del secolo. Quando Edvard Munch dipinge le sue scandalose Madonne a seno nudo[8], intrise di eros decadente, insieme passive e fatali, sovrapponendo di fatto l’iconografia della Maddalena peccatrice a quella della Vergine: nella versione litografica del soggetto la memoria dell’angelo annunciante si frantuma in una decina di spermatozoi galleggianti attorno alla scena principale, mentre in un angolo oscuro un feto prende forma e terrorizzata coscienza.
È significativo che quest’ultima versione della Madonna sia uno dei soggetti più richiesti dal mercato: nel 2010 una litografia dipinta a mano dall’artista è stata venduta per 1.250.000 sterline, il prezzo più alto mai pagato nel Regno Unito (e il secondo al mondo) per un’opera eseguita con una simile tecnica.
Ed è curioso che, ancora negli anni Ottanta, un soggetto così perturbante venisse liquidato in poche anodine e forse imbarazzate righe da Arne Eggum, uno dei massimi studiosi di Munch: «La critica ha fornito di questa rappresentazione pseudosacra della madonna interpretazioni molto diverse. Alcuni vi vedono soprattutto la rappresentazione di un’esperienza sessuale, altri una figurazione del mistero della nascita, altri ancora di quello della morte, e qui chiamano in causa l’artista stesso che ci ha lasciato questo testo: l’istante in cui l’universo ha sospeso la sua corsa – il tuo viso racchiude tutta la bellezza della terra. Le tue labbra cremisi, colore del frutto maturo, si schiudono come nel dolore – un sorriso di cadavere – la vita tende la mano alla morte – è chiusa la catena che unisce le migliaia di generazioni morte alle migliaia di generazioni a venire[9]».
Eppure, citando i versi autografi del pittore, Eggum apre la via a un salto laterale nella lettura dell’oscenità dell’arte di Munch, introducendo il tema della centralità della morte nella sua poetica. Un topos onnipresente che qui si intreccia al mistero della nascita, ma altrove appare in modo ancora più esplicito. A distanza di oltre un secolo, a disturbare lo sguardo cattolico, o almeno quello più colto, non è più (soltanto) la presunta pornografia della Madonna ma proprio il rapporto laico, angosciato, esistenzialista di Munch con la morte. Così Ferdinando Camon, sulle pagine de «L’Avvenire», interpreta l’Urlo del maestro norvegese:
«L’uomo che urla è Munch stesso, urla perché ha paura della morte, urla perché è già morto, ha la testa che è un teschio,
il corpo è molle e filamentoso, non è un corpo ma uno spirito, il centro pittorico del quadro è la bocca spalancata, da quella bocca escono le onde sonore dell’urlo che deformano ondularmente il paesaggio, come fanno in uno stagno le onde concentriche prodotte dal tonfo di una pietra.
Si tende sempre a collegare Munch con Kierkegaard, e si fa di Kierkegaard il padre dell’esistenzialismo. Ma nel suo pieno sviluppo l’esistenzialismo era ateo, mentre il sistema di Kierkegaard è una sequenza di timori e tremori (titolo di un suo libro) che sono le onde irradiate da un Dio che dev’essere lì anche se lì non lo si vede. Munch non lo sente e urla, Kierkegaard lo sente e trema[10]».
Da un punto di vista cattolico, dunque, l’oscenità dell’arte di Munch risiede nella sua paura della morte. Morte disperata, nel silenzio di dio, senza giudizio né appello, al di qua di ogni prospettiva soterica. Morte che non si mostra né nell’Urlo né nella Madonna ma – almeno nella percezione religiosa di queste opere – viene evocata in absentia, come da sempre si conviene ai tabù, anche a quelli ritrovati.
Per millenni, infatti, solide strutture sociali e sovrastrutture religiose avevano ritualizzato la morte: la partecipazione comunitaria e l’abitudine al lutto, l’accettazione contadina della ciclicità della natura e soprattutto la prospettiva della salvezza eterna e della resurrezione, garantite dalla fede. La morte era una compagna da tenere quotidianamente in considerazione ma non da temere, purché si fosse nella grazia di dio. Al contrario, come allo svanire di una lunga anestesia, nel XX secolo la laicizzazione della società ha ricollocato la morte nella sfera di ciò che è incomprensibile, assoluto, atavicamente spaventoso[11]. Ne è derivata la sistematica rimozione della morte dalla vita quotidiana, la sua trasformazione in un evento asettico, confinato alla dimensione medicalizzata e tecnicizzata degli ospedali e delle case di riposo: dal memento mori all’oblio della fine. Ciò è accaduto nonostante le trincee del ’14-’18 e i bombardamenti e i campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. O forse proprio in reazione a questi eventi che della morte – subita e inferta – moltiplicavano esponenzialmente l’oscenità e l’assurdità.
L’esibizione della morte è così diventata il terzo cardine concettuale dell’osceno, estendendo il limite di quella dimensione cui, come visto, appartengono di diritto l’ostentazione dell’eros e il rovesciamento del sacro. Uno status rilevato già da Geoffrey Gorer[12] ed espresso con forza icastica da una delle più citate considerazioni Jean Baudrillard: «parlare di morte fa ridere d’un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica[13]». Anche perché il tabù della morte si è (ri)costruito proprio mentre cominciava l’erosione del tabù del sesso: due fenomeni che si sono evoluti in direzione opposta, eppure alimentati entrambi del depotenziamento della dimensione religiosa.
Per l’arte del secondo Novecento la sfida più ambigua e perturbante è stata così quella al tabù della morte, tra tutti il più solido. Non è sempre facile distinguere la provocazione sterile – della quale si è probabilmente fatto un uso controproducente – dalla consapevole sfida al silenzio ipocrita che ammanta i tabù, la boutade mediatica dal pensiero e dal gesto artisticamente motivati ed efficaci. E non è semplice nemmeno tenere il passo dell’evoluzione del “comune senso del pudore”, o se si preferisce “dell’osceno”, il cui confine si è spostato rapidamente nell’ultima parte del XX secolo e nel corso di questo primo scorcio del XXI, anche in merito al tema tanatologico.
Ma è comunque possibile individuare numerosi casi in buona misura già storicizzati, di riconosciuto valore estetico e intellettuale, nei quali l’arte ha sfidato la reazione del grande pubblico e delle istituzioni attirandosi censure, proteste e accuse di oscenità. Ciò è accaduto in modo particolare quando nella produzione di un artista si sono sovrapposti almeno due dei tre macroambiti dell’osceno: l’estremizzazione del classico binomio eros e morte, ma anche eros e dissacrazione religiosa, o dissacrazione e morte.
Definita per quanto possibile l’identità dell’osceno nella cultura occidentale, e chiariti almeno alcuni presupposti fondamentali, possiamo provare a individuare alcune figure ed esperienze in grado di assumere il valore di case histories nel rapporto tra l’arte contemporanea e la categoria estetica, sociale e politica dell’osceno: e cioè gli azionisti viennesi, Joel Peter Witkin, Andres Serrano, Maurizio Cattelan, gli Young British Artists e Bruce LaBruce. Tappe fondamentali ma non certo esaustive di un percorso sul quale ci ripromettiamo di camminare in futuro – senza temere sconfinamenti disciplinari tra testo e immagine, o tra fotografia e film.
[1] Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I. Sansoni, 1999, pag. 7
[2] Cfr. Alexandre Papadopoulo, Islam e arte musulmana, Garzanti, 1992
[3] Cfr. Roberto Mottadelli, Satira clericale e anticlericale agli albori del XX secolo. «L’Asino» e «Il Mulo», in Un diluvio di giornali. Modelli di satira politica in Europa tra ’48 e Novecento, Skira, 2007
[4] Tra gli innumerevoli esempi di vignette di questo genere pubblicate da «L’Asino» si può citare All’ombra della croce, apparsa sul n. 4 del 1908: sul Golgota, nel cono d’ombra proiettato dal Cristo crocifisso, un prete frusta senza pietà un proletario a vantaggio di un capitalista seduto in poltrona. In questo caso Galantara riprende uno schema già da lui stesso sperimentato tre anni prima in O sainte croix!, vignetta apparsa sul n. 242 della rivista satirica francese «L’assiette au beurre». In quel caso nell’ombra proiettata dalla croce di Cristo si nascondevano sacerdoti, monache e prelati dediti a ogni genere di peccato e di vizio, dal furto alla pedofilia
[5] Filippo Turati, Politica scolastica. Il vero anticlericalismo, in «Critica sociale», 16 gennaio 1907
[6] Cfr. Loius Réau, Iconographie des saints, Presses Universitaires de France, 1959
[7] Il rapporto di Pasolini con i temi del sacro e dell’osceno, e in particolare l’episodio La Ricotta (parte del film Ro.Go.Pa.g) costituiscono un campo d’indagine estremamente interessante. Cfr. Tomaso Subini,La Ricotta, Lindau, 2009; e Erminia Passannanti, La ricotta. Il sacro trasgredito. Pasolini e la censura clericale, in La nuova gioventù? L’eredità di Pasolini, a cura di Emanuela Patti, Joker, 2008
[8] Cfr. Elizabeth Prelinger, Andrew Robinson, Edvard Munch Master Prints, Washington National Gallery of Art, 2010.
[9] Arne Eggum, Edvard Munch. La vita e le opere, Jaca Book 1984, p.116. Ms. Museo Munch T2547
[10] Ferdinando Camon, Munch urla, Kierkegaard trema. In quel quadro la prima invocazione, in «L’Avvenire», 4 giugno 2013. L’articolo prende le mosse dal proliferare di mostre legate al 150° anniversario della nascita di Edvard Munch
[11] Cfr. Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, BUR, Milano 2006; e Davide Sisto, La filosofia dinnanzi alla morte a partire dal rapporto tra tecnica e natura, in «Lessico di Etica Pubblica», n. 1, 2011
[12] Cfr. Geoffrey Gorer, The Pornography of Death, in «Encounter», ottobre 1955
[13] Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1976, p. 204